PER IL MESE DI AGOSTO, IL MESE DELLA VACANZA, PROPONGO ALLE PERSONE CHE HANNO LA GENTILEZZA DI LEGGERE LE COSE CHE QUESTO SITO OFFRE, QUALCOSA DI DIVERSO DALLA PSICOLOGIA. MA FORSE NEMMENO TANTO: QUATTRO BREVI RACCONTI. UNO PER SETTIMANA. PER ESSERE LEGGERI. PER ESSERE BAMBINI. TUTTI NOI. QUESTO E’ IL SECONDO.
IL DONO
Un bambino aveva il dono della pittura. Ora è difficile dire in poche parole in che cosa consistesse questo dono. Sta di fatto che questo bambino non “ascoltava” la realtà che lo circondava, ma la “vedeva”. Non aveva orecchie ma soltanto occhi, e le parole degli altri lui le… incorniciava come se fossero stati quadri.
Non ascoltava le parole dei suoi genitori, i rimproveri, spesso le ramanzine, ma…… guardava la loro bocca, l’espressione del loro viso, se si alzavano o si abbassavano gli zigomi, se le guance si arrossavano e così via: lui era distratto dalla realtà delle voci ed invece era irresistibilmente attratto dalla dinamica dei muscoli, dal colore degli occhi che cambiava, dall’inarcamento delle sopracciglia che si accentuava, dal rossore della pelle, dallo scatto delle mani, dalla accelerazione di una gamba.
I suoi genitori non sapevano come prenderlo perché non faceva bene a scuola e aveva solo una idea e una pratica in testa: continuava a disegnare: visi, la mamma, il papà, la casa, la stanza, le persone che vedeva camminare in strada, specie quando pioveva, la mamma mentre cucinava, il papà mentre fumava, il corso pieno di automobili sotto la pioggia e così via.
Aveva tuttavia una speciale predilezione per le gocce di pioggia che facevano il loro percorso sui vetri della sua finestra e dietro ad esse disegnava, di fantasia, paesaggi e animali misteriosi, castelli medievali e scene da film fantascientifici.
I suoi genitori, specie il papà non erano contenti di questa sua “fissazione” che chiamavano “stranezza”: disegnare in continuazione, senza interruzione, quasi dalla mattina alla sera.
Il maestro spesso si lamentava del suo rendimento anche in classe, di fronte ai suoi compagni, che a loro volta si facevano beffa di lui, e visto che il padre era una persona molto influente nella comunità a volte il maestro lo aveva convocato nel suo ufficio per rimostrargli le sue lamentele.
Il papà tornava a casa e rimproverava il bambino, ma finchè il padre parlava lui guardava la sua bocca, la sua barba e pensava a come avrebbe potuto renderla bene nel prossimo disegno. Guardava gli occhi furenti e pensava all’ira, come avrebbe potuto tradurla nel suo disegno.
Il bambino disegnava immediatamente nella sua testa, con il suo ascolto e con il suo pensiero: non faceva altro, e forse altro non gli era concesso dalla vita. Questo era il suo dono: tradurre tutti i cinque sensi in un solo senso: il disegno.
Accadde che un giorno, mentre si recava a scuola, che una sua compagna di classe lo avvicinasse e gli chiedesse il motivo di quel suo comportamento, non che fosse ammalato, ma che tuttavia gli altri suoi compagni giudicavano per lo meno strano.
Si trattava di una ragazzina rossa di capelli e piena, ovviamente, di lentiggini sulle guance. Una irlandese immigrata in America, perché il bambino di cui stiamo parlando era anche lui irlandese proveniente da una famiglia che era immigrata a Brooklyn agli inizi del secolo.
Questa bambina, Angela, in cuor suo era molto affezionata a Ferdinand, che è proprio il nome del nostro bambino.
Ferdinand aveva notato Angela da tempo ma i suoi dieci anni gli impedivano di essere tranquillo ogni volta che si trovava nelle sue vicinanze .
Fatto stà che Angela era forse l’unica persona che capiva Ferdinand nel suo dono ed era anche l’unica che di quel suo dono non se ne facesse celia.
Ferdinand lo aveva capito e stimava Angela per questo. Tra i due era nata una sincera amicizia: alla mattina si aspettavano prima di entrare in classe, uscivano assieme alla fine delle lezioni: non li aveva nemmeno sfiorato il pensiero che tenersi per mano fosse un peccato. E questo costituiva anche un motivo di chiacchiere e di risolini da parte degli amici. Ma Ferdinand e Angela vivevano in un loro mondo, non tanto distante dal mondo normale, ma solo un pochino.
Ferdinand, nella sua passione per il disegno, aveva sviluppato una tecnica particolare nella cura del chiaro-scuro. Sapeva rendere benissimo le ombre del volto umano, le ombre della sera nei quartieri di Brooklyn, le ombre delle nuvole che caricavano da Ellis Island e si portavano verso il centro di Manhattan.
Ma la passione infinita per gli occhi di Ferdinand era, lo sappiamo, i segni della pioggia. Osservava le goccioline, la loro corsa sul vetro, il loro infiltrarsi nelle fessure delle finestre, il loro correre lungo i marciapiedi, il loro fermarsi sul parabrezza delle macchine e il loro scivolar via, osservava e disegnava la pioggia con una maestria e con una professionalità che il suo maestro di scuola non seppe neppure capire, e non capì mai per il resto della sua vita.
Il maestro non capì mai che Ferdinand giocava la sua matita sul chiaroscuro al la ricerca della sua identità.
Ferdinand non “si sapeva” ma sapeva solo le forme dei suoi disegni.
Quando Angela, un pomeriggio alla uscita di scuola, le chiese…… quale fosse la sua passione, il pensiero di futuro, la sua vera aspirazione, Ferdinand non seppe rispondere che…. “Chiaroscuro”.
E diversamente non avrebbe potuto che rispondere: chiaro-scuro era la sua natura: vedere tutto da una parte e tutto dall’altra: non tutti gli uomini più maturi di lui ne sarebbero stati capaci. Ma lui, da bambino, non lo poteva sapere.
Ferdinand era in grado di cogliere con i suoi occhi la netta differenza tra il chiaro e lo scuro delle cose, dei tramonti, delle montagne, degli asfalti, delle metropolitane che uscivano un superficie…… La sua virtù era che, cogliendo tutte le sfumature di grigio tra gli uomini, coglieva le stesse differenze tra gli uomini, tra i sentimenti, tra il bene e il male, tra la amicizia e il rancore, tra l’amore e l’odio, ……..e quando vedeva il treno delle sette che usciva dalla galleria esultava prima di tutto perché era il treno che lo portava da Broooklin a Manhattan e in secondo luogo perché quello era il treno dentro al quale egli avrebbe potuto vedere tutti quei visi, tutti quei volti di cui ormai aveva… fame.
Ferdinand aveva fame di volti, non di hamburger o chipsters, o della maionese o della salsa che ci stava intorno quando lui chiedeva al chiosco: lui voleva le facce della gente e dentro le facce della gente si perdeva per ore e ore: metropolitana, strade, grandi magazzini….. per lui non facevano differenza: gli interessava la faccia muta del mondo.
Purchè fosse muta. Le parole non lo interessavano assolutamente: lui leggeva i chiari e gli scuri che il movimento delle persone determinava quando si muovevano.
Ferdinand era indubbiamente un tipo particolare, ma particolare fino ad un certo punto, visto che Angela, la sua amica Angela, aveva saputo cogliere la sua “diversità”.
Ora la parola “diversità” è una parola importante, da grandi, e qui non sapremmo come trattarla, visto che stiamo parlando di bambini, sta di fatto che Ferdinand ero un tipo speciale, uno di quelli da dargli fiducia e da starci anche un po’ attenti, quando si è insieme.
Credo che a tutti voi sia capitato di incontrare nelle vita alcune persone che da un verso sono amabilissime ma che…. dall’altro verso bisogna prendere con le pinze.
Forse questa è la regola del mondo. E’ la regola che, se ognuno di noi ci arriva, poi può dire di essere tranquillo per tutta la vita. Ma per tutta la vita, sappiamo, nessuno può essere tranquillo mai.
Ma qui stiamo facendo troppa teoria.
Angela, una fredda mattina di dicembre, chiese a Ferdinand, come una madre apprensiva, che intenzione avesse sui suoi disegni. Visto anche che qualche adulto aveva avuto modo di ammirare e strabiliare della genialità che Ferdinand metteva nelle sue composizioni. Angela voleva proteggerlo dal mondo dei grandi che lei, in qualche modo, giudicava “cattivo”.
I disegni di Ferdinand ormai erano migliaia: li aveva in tutti i cassetti della sua camera, in salotto, nel ripostiglio, in cantina, persino in garage e anche dentro alla automobile di suo padre: matite e carboncino, carboncino e matite.
Ferdinand viveva delle matite e dei carboncini e aveva anche fatto un pensiero sul futuro dei suoi disegni, di quelli che stava facendo nei suoi primi dieci anni di vita, ma aveva anche una idea di che cosa avrebbe fatto da grande: ovviamente il disegnatore. Parlavano di queste cose con Angela che era diventata la depositaria dei suoi pensieri, dei suoi intimi segreti. Di uno in particolar modo: di che cosa avrebbe fatto Ferdinand dei suoi disegni quando sarebbe giunto il 31 dicembre di quell’anno, data in cui egli avrebbe compiuto 11 anni. Data a cui Ferdinand aveva dato estrema importanza, senza che noi possiamo saperne il motivo. Ferdinand, molto candidamente, le rivelò il suo mistero, la sua intima intenzione.
Angela era eccitata dalla idea di Ferdinand, ma doveva tenere la bocca chiusa.
E venne quel giorno. Il mattino si presentava gelido e i ghiaccioli pendevano dalle grondaie, mentre dai tombini usciva un vapore altissimo: come se si fosse trattato dei geiser della lontana Islanda. In Islanda pareva di essere a Ferdinand in quella mattina quando salì sul punte di Brooklyn, e cominciò ad emettere dalla bocca un suono stridulo, una specie di richiamo. Angela, che era con lui, si chiedeva che cosa stesse facendo Ferdinand con tutto il pacco dei disegni sotto il braccio e quell’aria allegra, gorgheggiando verso l’East River.
Allora avvenne il miracolo: una lunga processione di gabbiani cominciò a formarsi dal Queens per mettersi in fila, ad uno ad uno, come in attesa di un comando. E il comando veniva dalla bocca di Ferdinand che, appena un gabbiano lambiva il ferro del ponte, lui lasciava cadere un disegno che ogni gabbiano prendeva con il becco e risaliva in alto, verso le correnti aeree più pure. Un gabbiano, un disegno: niente cadeva nell’East River.
Angela non credeva ai suoi occhi: centinaia di gabbiani compivano lo stesso movimento e sembrava che Ferdinand li conoscesse uno per uno. Ed essi salivano, salivano ognuno con un disegno nel becco. E ognuno di essi, con la coda dell’occhio salutava e ringraziava Ferdinand. Angela non seppe mai se si trovava in un sogno o nella realtà di una fredda mattina di un 31 dicembre a New York, sul ponte di Brooklyn.
Guido Savio