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IL CAVALLO GRIGIO

PER IL MESE DI AGOSTO, IL MESE DELLA VACANZA, PROPONGO ALLE PERSONE CHE HANNO LA GENTILEZZA DI LEGGERE LE COSE CHE QUESTO SITO OFFRE, QUALCOSA DI DIVERSO DALLA PSICOLOGIA. MA FORSE NEMMENO TANTO: QUATTRO BREVI RACCONTI. UNO PER SETTIMANA. PER ESSERE LEGGERI. PER ESSERE BAMBINI. TUTTI NOI. QUESTO E’ IL PRIMO.

IL CAVALLO GRIGIO

Un cavallo grigio correva dentro la sua valle. Il suo grigio era assoluto. Tutti gli uomini che avevano la possibilità di vederlo pensavano che era magnifico e che il colore grigio esaltava la sua bellezza. Anche gli occhi erano grigi, le pupille, le iridi, le ciglia. Un cavallo con la lingua grigia non s’era mai visto. E correva dalla mattina alla sera, senza cercare niente, fermandosi ogni tanto a brucare l’erba per riprendere energia. Poi via ancora con il sole e con la pioggia. Se nevicava in quella valle anche con la neve si vedeva il suo grigio. Ma pochi esseri umani erano riusciti a vederlo.

Nella valle laterale pascolavano e correvano, alla pari sua, cavalli di colore bianco. Bianco assoluto. Le criniere erano bianche, le narici erano bianche, gli occhi bianchi in tutta la loro interezza. Non scartavano mai e si muovevano sempre in branco compatto. Forse il colore bianco dava a loro una direzione, un impulso per cui non era difficile per loro seguire la scia di chi stava davanti. La loro unione era perfetta, e se mai fosse esistito un capo, questi non si vedeva, tanto uniformi erano i movimenti, gli arresti, le impennate del branco. Un branco che era “assoluto” nella sua unità tanto che quei pochi uomini che erano riusciti a vederlo pensavano al miracolo, o al demonio.

Nell’altra valle viveva un branco di cavalli neri, neri come il carbone perfino nei denti che mostravano quando ansimavano durante la galoppata. Solo un uomo era riuscito a vedere il branco e ne era rimasto impressionato fino a fuggire: un senso di irrequietezza e di provvisorietà lo aveva colto e non era riuscito a resistere alla vista. Era fuggito, e al branco dei cavalli neri questo non era rimasto inosservato. Il branco sapeva che incuteva terrore. Ma anche gli stessi cavalli si inquietarono nel vedere quell’essere umano che fuggiva verso la cima della valle. Tuttavia dopo poco tutto il branco dimenticò il fatto e continuò a scorazzare nella valle: fremiti e scarti, nitriti e calci: il branco dei cavalli neri era molto focoso, ma non meno del branco dei cavalli bianchi.

Il cavallo grigio viveva nella sua solitudine, che a giorni era liberatoria, a giorni una prigione, sicchè si decise di uscire dalla sua valle, di rompere ogni indugio. Non aveva una direzione precisa, né una meta, né una intenzione di dirigersi verso il branco dei cavalli neri o bianchi. Il suo grigiore lo avrebbe reso distinguibile sia da un verso sia dall’altro, ma nello stesso tempo il suo grigiore lo avrebbe anche favorito nell’essere accettato da un verso e dall’altro.

Una bambina, nella valle dove galoppava il cavallo grigio, era solita recarsi ogni giorno al fiume. Vi immergeva le mani che erano piene di una polvere che lei traeva dallo strofinare petali di rosa che nella sua valle crescevano abbondanti. Il fiume ne traeva un grande vantaggio in profumo e freschezza, in fragranza, ma le sue mani deperivano sotto questo logorio, si rinsecchivano, le unghie perdevano il loro colore roseo e assumevano sempre di più un colore grigio. Lei però non si preoccupava di questa cosa, tanta era la gioia che poneva nel suo lavoro. Il suo lavoro non aveva ricompensa diretta, ma molti abitanti del villaggio la gratificavano con danaro o cibo che lei, arrossendo, accettava. Non aveva né padre né madre.

Non si sa come fu ma una mattina d’inverno la bambina intravide da lontano il cavallo grigio, senza tuttavia averne saputo prima della sua esistenza. Non sapeva nemmeno della esistenza del branco di cavalli neri né di quello di cavalli bianchi. Vide il cavallo grigio che scendeva il pendio che dava sul fiume e che dopo avrebbe dato nella valle dei cavalli neri. Subito non capì ma, pensando alla sua solitudine, fu illuminata su tutto quello che stava accadendo. La sua solitudine era la stessa che muoveva il cavallo grigio a scegliere un branco o l’altro.

Fu molto rattristata da questo pensiero, si guardò i palmi delle mani grigi e seguì con lo sguardo il cavallo grigio: le sue unghie parevano i suoi zoccoli. Il cavallo esitava e anche lei esitava. Ciò le permise di fare un tratto di sentiero verso il pendio. Il pendio era il senso della scelta. Lei avrebbe voluto che il cavallo grigio non scegliesse, che stesse nella sua valle. Nella sua solitudine. Non aveva le forze per raggiungerlo, per fermarlo nel suo proposito. Ma fu in quel momento che le venne l’idea: prese quanti più petali di rosa potesse, e continuò a strofinarli tra le mani lasciando andare la polvere nel fiume. Il fiume correva lento e il cavallo grigio doveva ancora attraversarlo. La bambina raddoppiò, quadruplicò, centuplicò il ritmo del suo lavoro. Non le importava che il cavallo grigio si unisse al branco dei cavalli bianchi o di quelli neri. Lei non poteva saperlo. A lei interessava solo che il cavallo restasse nella sua valle, come lei restava nella sua.

Si ferì le mani con i petali delle rose e ne uscì del sangue che si diluì nell’acqua del fiume. Era affannata, sudata, le ceste di petali di rosa che aveva portato con sé parevano non bastare. Il cavallo grigio era ancora lontano dal fiume, ma la discesa del pendio gli faceva prendere velocità. Forse le rose non bastavano per il progetto della bambina. Cercava di sciogliere in acqua la maggiore quantità di petali possibile, ma il lavoro le sembrava titanico. Fu allora che versò nel fiume le gerle di rose che aveva portato con sé, così com’erano, senza ridurle in polvere. Il fiume fece la sua parte e le sciolse tra i gorghi e le cataratte.

Il cavallo grigio scendeva velocemente verso il fiume che avrebbe dovuto guadare e la bambina produsse allora l’ultimo sforzo lasciando che il suo sangue si mescolasse con l’acqua del fiume: si produsse mille ferite nelle mani.

Il fiume aveva cambiato il suo colore naturale: da azzurro puro si era trasformato in un tenue rosato.

Il cavallo grigio arrivò al galoppo sulla riva del fiume e, malgrado lo sforzò, notò la differenza. Ciononostante la sua sete era incontrollabile e bevve, bevve fino alla sazietà, fino a che l’acqua del fiume non gli chiuse la gola. Rantolò, recalcitrò, tentò invano di reggersi sulle zampe. Dall’altra parte del pendio il branco di cavalli neri assisteva alla scena, muto, e dalla riva superiore la bambina faceva lo stesso: ormai quello che avrebbe potuto fare lo aveva fatto. Il cavallo grigio nitrì per l’ultima volta e cadde con le ginocchia anteriori sulla riva del fiume.

La bambina lo osservò con una lacrima negli occhi: era felice di averlo salvato.

Guido Savio

 

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