“SECONDO NATURA”: LA NOSTRA PATRIA – LA NOSTRA LIBERTA’
SECONDO NATURA
PREMESSA
La natura dell’uomo è una realtà naturale o è una realtà soggettiva (mutevole dunque nel tempo e nello spazio)?
Essere se stessi ha a che fare certo con un “conoscere se stessi” come primo dato, ma che comporta , come secondo, un “essere se stessi”, in quella accezione che comunemente passa sotto l’espressione di “sentire” la propria naturalità, la propria essenza.
Il “sentire se stessi” è una questione tutt’altro che semplice per noi in quanto presupporrebbe, oltre che alla conoscenza di cui già ho parlato, un giudizio, diciamo così, sufficientemente affidabile su noi stessi, che ci consentisse di dire “io sono questo perché in questo modo o in questo momento mi sento perfettamente rappresentante della mia natura”.
Se vado a vedere la clinica molto spesso mi imbatto in espressioni del tipo “non mi sento io”, “non mi sento spontaneo”, non mi sento naturale” etc, in riferimento a comportamenti o esperienze in cui il soggetto “sente” una certa discrepanza tra l’atto compiuto, la parola detta, la frase pronunciata… rispetto a quello che è il proprio giudizio su se stesso.
Come se noi esseri umani fossimo continuamente animati, nel nostro vivere, da una forma di duplicità o ambivalenza, di cui però non si conoscono i confini. Né di una parte, né dell’altra. Sono veramente me stesso oppure non lo sono, e mi sto semplicemente adattando al mondo e a ciò che esso mi chiede in quel momento per esserne idoneo? E’ questa una domanda a cui c’è risposta?
Una prima risposta potrebbe legarsi alla conoscenza del nostro limite, della conoscenza della nostra storia passata da un lato, ma anche delle nostre potenzialità dall’altro, per cui, con una certa approssimazione noi possiamo dire “chi ha compiuto questo atto sono stato veramente io” (me stesso). Tuttavia è ben facile capire come la attendibilità (se questa parola si potesse usare qui) è alquanto aleatoria.
LIMITE
Cerco qui allora, per quanto possibile, di rintracciare alcune forme del nostro essere uomini e donne, in cui il nostro limite possa essere più facilmente colto.
Limite è il confine del proprio corpo, inteso come desiderio. Ovvero io sono io il mio desiderio e dunque la mia natura rispecchia quello che è il mio “essere desiderante”. Ma sappiamo anche che il nostro desiderio ha un limite, il nostro desiderio non può essere illegittimo, cioè fuori dalla legge del dare e ricevere dall’altro. Dunque il nostro corpo deve essere un corpo “pensato”. Il nostro desiderio deve essere un desiderio “normato”. In quanto non possiamo assolutamente e ovviamente intendere il nostro “essere noi stessi” come la pratica illimitata del nostro desiderio.
Non a caso il nevrotico, ma principalmente il perverso, vede in questa “limitazione” una forma di furto o una vera e propria castrazione, e vive una ribellione nei confronti di quelli che egli ritiene essere legacci o impedimenti alla “libera” espressione della propria natura.
Dicendo questo voglio affermare che la questione della propria naturalità e del limite dentro il quale essa vive, non può prescindere dalla relazione con l’altro, trattandosi appunto di desiderio di un corpo nei confronti di un altro corpo.
E questa stessa regola vale anche per quel principale rapporto che ci sostiene che è il rapporto con noi stessi. Dire che “essere se stessi” è avere un buon rapporto con se stessi, sono solo parole vuote, e troppo spesso usate con finalità liquidatore o consolatorie.
Più “naturale” è invece il sapere amare se stessi, a partire dal proprio limite. Amare ciò che noi siamo (e anche abbiamo) piuttosto che “amare” ciò che non siamo (e non abbiamo). Cioè amare la nostra patologia. Il nevrotico ama appassionatamente ciò che non è, al punto da farne il suo “pensiero dominante”.
Essere noi stessi è dunque certo una forma del limite, limite dentro al quale il nostro corpo sta bene o sta male. Dunque l’aiuto principe a capire il nostro “ubi consistam” è la salute del mio corpo (corpo pulsionale, psichico, corpo del desiderio): se il mio corpo sta bene… sono me stesso. Se il mio corpo sta male… non sono me stesso.
Altra parte integrata e integrante nella nostra naturalità, è il giudizio. Noi sappiamo che qualsiasi esperienza che noi abbiamo, ha poi bisogno di un secondo atto per cristallizzarsi nella nostra storia, e dunque nel nostro io. Questo secondo atto è il giudizio. Se io non esprimo giudizio sui miei atti, essi mi parranno tutti “fuori” dalla mia naturalità. Ma se io pongo su di essi la questione del mio giudizio, essi verranno integrati nella mia natura. Ad esempio, se io ho una esperienza di soddisfazione e se questa non viene valutata dal mio giudizio come espressione del mio amare me stesso, le conseguenze della esperienza di soddisfazione andranno presto perdute e non entreranno mai nel patrimonio della mia storia, del mio io. Il mio giudizio mi arricchisce perché “storicizza” il tempo della mia vita. Devo essere io a dare “valore” alla esperienza. Essa, in sé e per sé, non ce l’ha.
Misura. Il limite saprà essere confine del proprio corpo desiderante se si lega al pensiero di “misura”. I segni del corpo che fanno capire che il giudizio sull’”essere noi stessi” è funzionante sono quelli che fanno del proprio dialogo interiore: un dialogo morale. Il corpo sta bene e dunque il giudizio ne è conforme, quando in noi è in atto la condizione morale (che altro non è che la condizione della legge nella relazione). Questa legge recita che devo porre il bene dell’altro come fine della mia vita. In secondo luogo il riconoscimento che il mio piacere è legato ad un atto che l’altro compie sul mio corpo. Io non ne sono capace da solo. E dunque qui, in queste due articolazioni la legge della misura.
A volte noi, nelle nostre giornate, “sentiamo” la nostra misura, sentiamo il nostro essere “apposto” (cioè “al nostro posto”), sentiamo che siamo in ordine e dunque misurati nella relazione con noi stessi e in quella con gli altri. Relazione con se stessi, per l’appunto. La fonte della regola morale. Nulla ci può venire da fuori che noi non vogliamo attraverso la volontà della nostra morale. La nostra legge morale è un prodotto interno che produce misura e dunque soddisfazione e dunque piacere. Il piacere di “sentirci noi stessi” nel momento in cui sentiamo di essere al nostro posto. Essere al proprio posto significa non essere mai troppo, né per se stessi né per gli altri. Il “Nulla di troppo” del tempio di Delfi.
Patria. La patria è il luogo dello stare, dello stare fermi, del trovarci, del trovare noi stessi. Non parlo qui ovviamente di patria geografica ma di quel luogo intimo che noi riconosciamo essere nostro nel momento in cui l’altro parla e noi in lui/lei ci riconosciamo. Patria è il confine del corpo in cui io riconosco le mie esperienze frutto del lavoro di corpo e giudizio di cui ho parlato sopra. Patria non è “casa”, fonte spesso di tanti fraintendimenti nevrotici (materni), ma “luogo del Padre” inteso come luogo della mia “origine”, intesa come storia del mio pensiero e della mia cultura. Io sono me stesso nella patria che mi sono determinato assumendo un “posto” nella mia vita. Un posto tra altri in un tempo tra altri. Chi sta bene in patria, nella propria patria, è colui che ha un pensiero fiduciario di se stesso, e un pensiero “futuribile”, cioè che lì dove si trova è un posto sempre da cui partire, non un posto in cui si è arrivati. Patria è un luogo dell’inizio. Perché il nostro essere noi stessi, la naturalità che noi stiamo cercando, non è forma della staticità ma un desiderio di divenire continuo. E dunque anche di continua diversità. Per questo il “sentire” la nostra natura non è un dato scontato né assodato, ma un evento del nostro corpo che in ogni momento è chiamato a ritrovarsi e a riconoscersi. Anche nel “portare avanti” il proprio limite.
Libertà. Tutto questo avviene in un regime di libertà, in cui la emancipazione dalla riduzione e dalla inibizione sono gli assi portanti. Noi siamo noi stessi nel momento in cui ci sentiamo liberi da… Questa nostra “naturalità” non potrebbe contemplare forme di dipendenza, non potrebbe contemplare forme di asservimento a dispositivi o dettami nevrotici. Nel senso stretto che il nevrotico non è mai se stesso (proprio lui che si lamenta che gli altri non sono mai “sinceri” con lui). Libertà dalla “ipersensibilità” nei confronti del reale e del mondo. Per “ipersensibilità” intendo eccessiva dipendenza emotiva da quello che di doloroso il mondo ci porta. Chi “soffre” eccessivamente per il dolore del mondo, in realtà non ha risorse per applicare il proprio giudizio e saper restare al proprio posto. Si sbilancia verso l’esterno senza fondare il proprio baricentro sul proprio io e non su “quello” degli altri. La nostra libertà è anzitutto condizione di libertà dall’”altro”. La condizione della naturalità è condizione di “soluzione” nei confronti di quella che è la realtà esterna. Soluzione significa che non se ne è dipendenti.
“Felice è l’uomo che quotidianamente basta a se stesso, che è contento della parte migliore di sé e vive ogni momento in forma compiuta e ogni giorno come se fosse una vita intera” (Antonio Trampus, Il diritto alla felicità, Laterza 2008, p. 16).
Per esempio è questo uno dei proclami che impauriscono l’essere umano di essere se stesso. Noi non possiamo essere ogni giorno forma compiuta, siamo per definizione forma incompiuta, e sui giorni della nostra vita…ognuno sa cosa bolle nella sua pentola.
La patria non può essere l’ideale, e nemmeno le parole della morale che allontanano la vera morale dalla nostra pratica quotidiana. E’ per questo che è affascinante il pensiero di Minkowski sul “avanzare realmente nella vita”. E’ questo nostro avanzare, incerto e balbettante, che fa che la nostra natura sia la “nostra”, che sia una natura di diritto. Abbiamo diritto ad essere noi stessi, abbiamo diritto alla nostra spontaneità. Spontaneità significa che… la prima cosa che mi viene in mente la dico o la faccio, il primo agire che penso lo compio, il moto del mio corpo che sento muoversi lo seguo. Del nostro corpo no esiste un percorso determinato, ma il passo della giornata, l’evento del momento in cui io sono vicino (con) l’altro. Se io idealizzo troppo la mia giornata futura, mi impedisco di vedere la realtà del presente, nel bene e nel male. Se io non sto con i piedi per terra faccio astrazioni che mi tolgono il sonno di notte e mi mettono dubbi nel giorno.
ANDARE
Andare oltre il proprio limite è andare oltre al proprio corpo, e andare oltre il proprio posto. La mia naturalità è essere presente nel momento in cui ho pensiero su di me, è essere per l’altro il senso che io sono per me stesso, il senso della vita che io attribuisco alla mia vita. Allora vorrei vivere “spensierato”. Senza pensieri, quelli che mi trafiggono il fianco. Per questo si dice che “si sta bene senza pensieri”. Perché i pensieri ci introducono al “destino avverso”, ci appesantiscono il corpo quando noi chiediamo si essere “in pace”. Che è sempre essere in pace con noi stessi. Che non vuol dire niente, se non… che non sto poi tanto male.
Andare è allora andare verso la natura. Perché noi siamo nati sani, poi ci siamo ammalati (perché la famiglia tutti ci ammala, e diversamente non potrebbe essere, perché senza famiglia tutti moriremmo) ma poi, usciti dalla “famiglia” hnoi guariamo, diventiamo guariti. Il mondo non è fatto da persona sane, ma da persone “guarite”, perché nella malattia ci cadiamo tutti, indistintamente. Allora il mondo dei “guariti” è il mondo che funziona in quanto fatto da soggetti che hanno conosciuto la malattia e ne sono usciti. Non tutti ci riescono. Per questo è importante il lavoro che ci viene indicato dall’altro (dai nostri genitori). Il lavoro che ci porta alla soddisfazione dell’essere quello che siamo, nulla di più e nulla di mano (“Nulla di troppo”).
La nostra naturalità, il nostro “essere se stessi” non può che essere il posto della nostra soddisfazione. Solo “lì” siamo veri.
E alla soddisfazione noi perveniamo sulla spinta del pensiero di tracciare nuove strade, di essere iniziatori dei un “nuovo”, perché abbiamo capito la nostra storia passata. Noi siamo attratti dalla “stabilità” dei sentimenti, tuttavia abbiamo il coraggio di mettere in discussione questa pace nel non accontentarsi mai di noi stessi, del prediligere l’ansia e la aspettativa, di prediligere l’incertezza e la fragilità. Perché incertezza e fragilità fanno parte della nostra natura. Del nostro andare continuo.
Ma non esiste un percorso “destinato a noi”, esiste solo il nostro potere di fare della libertà il nostro percorso. Libertà come pensiero di imperscutabilità delle cose a venire e di potenza di fronte alla catastrofe che incombe. Se noi troppo idealizziamo il futuro ci impediamo di vedere la realtà del presente, e allora il nostro andare diviene incerto perché non vediamo i prossimi immediati passi da fare, ma quelli lontanissimi che più ci impauriscono o addirittura ci terrorizzano. Il momento è il tempo della verità e vivere l’amore è “chiuderlo” in questo presente.
Andare oltre il proprio limite è andare oltre il proprio posto, che è invece la nostra naturale giurisdizionalità.
NATURALITA’
La naturalità è allora l’essere nel momento in cui si è, essere “spensierati”, alla lettera, senza pensieri che non siano pratici e operativi: non possiamo forzare i nostri pensieri. Certo non possiamo avversare il destino se il destino è avverso, ma anche di questo posiamo avere un pensiero operativo, quello che si concentra nel presente e sfugge ai voli lunghi e alle navigazioni oceaniche. Per questo alla domanda “Ma infine, che cosa è la nostra Natura?” la risposta può essere che la nostra natura è la soddisfazione, noi siamo “secondo Natura” quando raggiungiamo la soddisfazione. Soddisfazione che è, come già detto, esperienza ma soprattutto “pensiero storico” di essa, ma anche e soprattutto volontà di tracciare nuove strade (non obbligo di farlo nel tempo futuro). E in questo modo possiamo essere noi stessi nel rispondere del nostro essere presente. La nostra forza sta tutta nella capienza, nell’accettare che l’altro, e Altro, si affaccino alla nostra porta di casa. Farlo entrare o meno sta a noi, ma la capienza noi possiamo sentirla nella nostra natura quando l’a/Altro appare, si presenta. Essere se stessi è la capienza verso il proprio dubbio: che ci sia posto anche per esso, ma un dubbio che io avviso come presenza della alterità.
Essere se stessi è ignorare la propria piccolezza, i propri malanni, i propri sintomi per riuscirli a tradurre in un “atto” diverso.
Non si guarisce dal male, ma lo si traduce in qualche cosa di diverso, come si traduce un libro da una lingua in un’altra.
Non possiamo cambiare “radicalmente” la nostra struttura interna, quella che possiamo anche chiamare la nostra natura. Nessuno può spingerci al cambiamento.
Natura è sentire la nostra vita un tutt’uno, forse non sapendo neppure con chi o con che cosa, ma fondamentale è il sentire la nostra unitarietà.
Natura è sapersi trovare nel nostro dolore, nel proprio confronto con se stessi. Questo confronto con se stessi altro non è che una umanissima osservazione di se stessi e della nostra capacità di accettare il limite, la privazione, la mancanza.
In questo nostro essere se stessi noi tendiamo (e diversamente on potrebbe essere) ad un certo principio di costanza (proprio quello di Freud). Tendiamo, e perché no?, a riprodurre noi stessi. Anche quando questa costanza è contraddetta dalla nostra stessa contraddizione interna: per questo la nostra naturalità poggia sulla capacità di poterci stare vicino anche nella opposizione tra il nostro dire e il nostro fare (di paolina memoria). Non esiste pericolo (solo nevrotico) che il nostro comportamento “tradisca noi stessi”. E’ solo il nevrotico che ha pensiero di integrità in scalfibile della propria natura. Se io sorrido anche quando avrei voglia di piangere, lo faccio “secondo natura”, non certo “contro natura” semplicemente perché tendo al bene, al mio e a quello dell’altro della relazione.
Ed il nostro limite lo cogliamo da quanto sia difficile fare collimare il nostro “sentire noi stessi” con quello che effettivamente possiamo e sappiamo dire all’altro: quando lascio l’altro, dopo il mio dire, il mio stare, il mio essere con lui… io torno “dentro” di me e posso anche accorgermi che quello che ho detto non corrispondesse realmente al voluto, alla mia stessa naturalità. Quando poi io ritorno da solo, dopo l’incontro con l’altro, i miei pensieri si diversificano da quelli che nell’esperienza con l’altro, che magari ho vissuto cinque minuti prima, avevo ritenuti veri e in scalfibili: cambio idea, e vedo la relazione, il rapporto, le quattro chiacchiere, l’altro insomma, in maniera diversa da come lo vedevo nel momento in cui ci guardavamo negli occhi.
Non si dice mai fino in fondo e non possiamo nemmeno essere noi stessi fino in fondo.
Non è aspettando passivamente gli eventi che io sono me stesso, ma nel mio dispormi ad accettarli. Magari andando verso le cose che più mi piacciono, verso le persone che maggiormente mi danno soddisfazione, avendo anche il coraggio di tralasciare chi è un peso per me. Perché per essere se stessi bisogna avere il coraggio di stare con qualcuno che ci valorizzi, che non ci tiri giù per la giacchetta, che non ci avvilisca nei nostri talenti e nelle nostre possibilità. E così la qualità dell’altro entra direttamente nella mia natura, nel mio lavoro per essere naturale. La qualità dell’altro che si sposa con la mia. La vera unione avviene tra le reciproche qualità. Non possiamo pretendere che l’altro ci ami come noi amiamo noi stessi, ma non possiamo nemmeno accettare che l’altro offuschi il nostro amore (per noi e per lui).
Gli altri possono prendere da me la mia naturalezza, la mia spontaneità, e ne possono fare una loro ricchezza. Io mi devo vedere nei miei limiti, ma anche il limite dell’altro devo saper vedere per essere me stesso, per non dire o dirmi bugie.
Guido Savio