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GUIDO SAVIO: BAMBINO E NASCONDINO

IL BAMBINO E’ SE VIENE PENSATO

 

“L’origine dei bambini ha luogo quando sono pensati” (D.W.Winnicott, I bambini e le loro madri, Cortina, Milano 1987, p. 13).

E non potrebbe essere diversamente, basti pensare a quanta è la  gioia  anche per noi adulti, quando pensiamo che qualcuno ci pensa. Essere pensati è esistere.

Su questi riflessioni mi è venuto anche in mente l’antico e da tutti certo conosciuto gioco del “nascondino”: l’eccitazione, la tensione, la trepidazione dell’essere nascosti mentre qualcuno ci cerca, mentre qualcuno pensa intensissimamente alla nostra presenza, al nostro corpo.. , dove trovarci, e poi alla fine essere trovati.

E visto che noi non abbiamo l’anello di Gige che ha il potere di renderci invisibili, o quello di Angelica dell’Orlando Furioso, possiamo ben capire che l’essere nel pensiero (e nella vista) per l’altro, è per noi essere, esistere al mondo, avere un nome, un posto. Proprio perché qualcuno ci cerca con il suo pensiero, allora noi siamo. Proprio perché noi non possiamo nasconderci se non per gioco di bambini. Immaginate a proposito la eccitazione del bambino quando il papà torna a casa alla sera e fa finta di non vedere il piccolino. “Dov’è il mio bambino? Dov’è?” E il bambino, al massimo della eccitazione del non essere visto, si nasconde da qualche parte del salotto, e aspeyya che il papà lo trovi, e poi esplode l’abbraccio. Questo ricordo penso sia una indelebilità nella stora di ognuno di noi.

Rimando qui allo splendido film Buon compleanno Mrs Grape In cui un altrettanto splendido Leonardo di Caprio, allora ventenne, recita la parte del bambino autistico, di cui il fratello maggiore, altrettanto fantastico Johnny Depp, si prende una infinita cura del più giovane Arnie. Gilbert (Johnny Depp) gioca con lui a nascondino. Quando torna a casa fa finta di non vedere Arnie e lo chiama: “Dove è Arnie? Non lo vedo!”. E l’autistico Arnie va in brodo di giuggiole. Gode fino alla follia (già ben presente dentro di lui) del gioco del nascondino. Della finzione che il fratello maggiore fa finta di non vederlo per poi scoprirlo appollaiato sul ramo di un albero fuori casa.

Se poi questo pensiero è un pensiero d’amore…possiamo capire anche l’aumento della eccitazione e della soddisfazione.

Tutti noi adulti abbiamo obiettivi che sostanzialmente si legano all’equilibrio, a quello che Freud chiamava principio di costanza, in altre parole abbiamo bisogno di pace.

Ma forse per il bambino la cosa non sta proprio così, visto il suo continuo desiderio di novità e di eccitazione, di esperienza, di provare piacere.

Se noi adulti cerchiamo l’equilibrio, il bambino è votato alle folate di vento del suo desiderio di piacere. E il suo massimo piacere, (non essendo lui capace di soddisfarsi da solo) è quello che cerca nell’essere pensato dall’altro, nel comparire e scomparire dalla sua vista, nell’eccitazione di sentire chiamato il proprio nome, nell’essere con il proprio corpo vicino al corpo dell’altro. Non è il caso qui di riscoprire Lacan nel suo “il desiderio è il desiderio dell’altro”.

Chi non ricorda ad esempio la aspettativa (gioiosa ma anche angosciosa) di sentire pronunciato il proprio nome nell’appello alla mattina a scuola , o nella lettura della formazione di calcio che va in campo (ricordo che io palpitavo fino al parossiamo), o nelle menzioni dopo una gara, o in qualsiasi forma di elenco che i nostri educatori stilassero in merito a un merito. Guai essere esclusi. Guai non appartenere alla lista. Guai non essere menzionati. Guai a non essere pensati. Il nome proprio pronunciato dall’altro è vita.

Il bambino sta sempre nel presente, e del presente vive e questo gli permette (forse) di perdonare il passato e non farsi angosciare dal futuro (anche se “il bambino può lasciare il ghetto, ma è il ghetto che non lascia il bambino”, come saggiamente dice e scrive Zlatan Ibrahimovic).

Provate voi a trovare un bambino che dopo una crudeltà fatta o subita (di cui soli i bambini sono capaci) ha l’ardire di tirarla per le lunghe, di non lasciar perdere, di non ricominciare subito il gioco. Perché al bambino interessa la pratica, gli interessa il piacere del gioco, gli interessa il pallone, e non il risentimento verso il compagno che lo ha malmenato moralmente o fisicamente. Al bambino non interessano le questioni “di principio” tanto care a noi adulti. Il bambino ha una economia interna che noi adulti abbiamo perduto. Proprio perchè la tiriamo sempre per le lunghe. Il bambino è tendenzialmente uno che dimentica, anche il trauma.

Purtroppo, lo sappiamo benissimo, esiste anche il rovescio della medaglia.  Se il bambino il trauma lo sogna tutte le notti, se il trauma ha lasciato in lui un segno indelebile, è la sua fine. E i bambini ucraini di questi tempi ne sanno qualcosa.

Il bambino cerca il piacere con la nitidezza di cui l’adulto non è capace. Ma cerca il piacere solo se ha una base, un supporto: il pensiero che qualcuno sa e pensa al suo piacere, il piacere che qualcuno ha piacere che lui abbia piacere.

Il bambino si adatta al mondo con le gambe che gli traballano, ha poche garanzie ma tanto coraggio. Coraggio che è fiacco nel nevrotico, fuori di testa nel perverso, inesistente nello psicotico.

Il bambino ha coraggio perché vuole stare bene, ma soprattutto “vuole” essere voluto bene,  vuole essere nascosto ma soprattutto trovato al gioco del nascondino. Se Arnie non fosse mai trovato alla fine del gioco da Gilbert, sarebbe la sua fine.

Tutto ciò nell’ambito di quella che è la madre di tutte le angosce: la paura di essere abbandonato, di non venire più pensato perché lui/lei (leggasi genitori) hanno “pensato male” all’ adattamento al mondo del nuovo venuto.

E l’adattamento al mondo, lo sappiamo, è il distacco dalla madre: la evoluzione del desiderio di essere pensato dalla madre nel pensiero realistico di essere pensato dagli abitanti del mondo che questo pensiero gli riservano solo se lui se lo merita. E’ ancora una volta la differenza tra l’amore garantito e l’amore meritato.

“Quindi non è possibile descrivere un bambino di prima infanzia o comunque un bambino piccolo, senza fare anche una descrizione delle cure che solo gradualmente diventano qualcosa di separato rispetto all’individuo” (D.W.Winnicott, op. cit. p. 17).

Ovvero, per la sua salvezza, il bambino inizia a compiere un percorso che finisce con il  capire che le cure che l’altro gli attribuisce sono “separate” da lui, non gli appartengono, non gli spettano di diritto ma rientrano nella legge dell’amore, e dunque del merito, cioè della relazione reale e non solo fantastica con l’altro.

GUIDO SAVIO