OBLOMOV E LA MAMMA
OBLOMOV
“In principio era Oblomovka”
Ho comperato qualche giorno fa, per un euro, in una bancarella di libri usati “Oblomov”, di Ivan A. Goncarov. Un romanzo le cui 550 pagine avevo già letto, anni fa, tutto d’un fiato. Folgorante. Chi è Oblomov? E’ un giovane possidente della Russia dell’ottocento che si è trasferito dalla campagna nella capitale e la cui occupazione principale è quella di… vivere sdraiato, tra letto e divano. “Per Il’ja Il’ic la posizione orizzontale non era una necessità come per un malato o per chi desideri dormire, né un fatto accidentale provocato dalla stanchezza, né un piacere da individuo pigro: era il suo stato normale. Quando era a casa, ed era quasi sempre a casa, se ne stava coricato e sempre nella stessa stanza”.
Questa sua abitudine era legata alla sua infanzia vissuta nella assoluta pace, tranquillità, garanzia, pigrizia, inerzia, amore materno del suo possedimento, Oblomovka appunto. Una terra vergine, una età dell’oro, un grembo che dispensa cibo in continuazione.
“Oblomovka è un pensiero astratto di struttura arcaica, un modello immobile che non ha nessun contatto con il mondo che lo circonda. E poiché quell’angolo di mondo era quasi impraticabile, non era possibile attingere da qualche parte la notizia di quello che accadeva sulla terra… Non c’era modo di paragonare la propria vita con quella degli altri…”.
Oblomovka è la “mamma assoluta” che impedisce al pensiero del bambino di pensare ad un mondo diverso da lei, popolato da esseri diversi dal suo pensiero. Oblomov è attaccato alla madre e al pensiero con cui la madre ha letto il mondo. Ovvero, niente mondo ma solo liquido amniotico. L’attacamento di Oblomov alla sua terra natia (il romanzo comprende una cinquantina di pagine che descrivono Oblomovka e che sono ritenute dai critici letterari uno dei più bei passi di tutta la letteratura mondiale, dove tutto è pace e assenza di conflitto) è assoluto, quasi fideistico, mistico.
Ieri poi un mio amico mi ha detto, parlando di figli, che essi devono “staccarsi e andare”. I due verbi mi hanno subito colpito. In effetti per andare bisogna prima staccarsi, bisogna prima abbandonare, bisogna prima avere pensiero proprio, bisogna soffrire e tracciare, se occorre anche una ferita. Ferita da dove? Dalla Oblomovka da cui tutti noi proveniamo, reale o fantasmizzata che sia. Ferita dalla dipendenza, dalla pigrizia, dall’amore garantito. Andare dove? Ma nel mondo, dove gli altri ci chiamano, dove il padre ci indirizza. Al lavoro, all’aperto, alla donna, al sesso, alle intemperie, alla soddisfazione, alla morte.
In effetti “andare” è un secondo tempo, di cui il primo non può essere che “staccarsi”.
Oblomov non si stacca (anche se decide la sua residenza nella capitale) e quindi non può andare, difatti rimane sempre in posizione orizzontale.
Staccarsi dalla madre è staccarsi dal proprio pensiero di inibizione e patologia. Abbiamo tutti la nostra Oblomovka, la terra dell’ora. Ma ci dobbiamo staccare.
Noi siamo nati sani, poi ci siamo ammalati, ci ha fatti ammalare la famiglia, la nostra personale Oblomovka, e diversamente non potrebbe essere, perche senza famiglia non si vive ( è un pensiero di Hegel). E poi alcuni guariscono: quelli che vanno nel mondo e in esso si misurano, fuori dalla nostalgia e dal passato.
Operazione questa che non è riuscita al nostro Oblomov: “Il trapasso di Il’ja Il’ic era avvenuto in apparenza senza dolori, senza sofferenze; egli si era spento come un orologio che si ferma perché ci si è dimenticati di caricarlo”.
Guido Savio