STARE BENE/STARE MALE
“COME STAI?”
E’, come tutti ben sappiamo, la domanda più gettonata tra due persone che si incontrano: “Come stai?”. La domanda può essere sinceramente frutto di una precedente preoccupazione, può essere una formalità di rito, a volte un non sapere che dire, altre una formula che proferiamo senza neppure accorgercene. Sta di fatto che in qualche modo, quando incontriamo l’altro, ci informiamo sulla sua salute.
Ma non solo quando lo incontriamo. La stessa domanda, chiusa allora nel nostro solo pensiero, è ancora una volta la più gettonata quando “pensiamo” all’altro, quando i nostri pensieri quotidiani cadono su di lui, quando facciamo anche in una carrellata veloce tra le facce dei nostri amici o conoscenti, la domanda “Come starà?” sembra proprio essere una tra le più frequenti.
Ma nell’uno o nell’altro caso, la risposta non è del tutto tra le più facili. Non è facile sapere come sta l’altro. E tanto meno facile è sapere come stiamo noi. Se fossimo noi il destinatario della domanda, non sempre la risposta ci risulterebbe semplice, spalmata tra sincerità, buona educazione, un farsi coraggio, un darsi tono, ma forse più semplicemente la risposta è difficile perché oggettivamente e fenomenologicamente noi tutti facciamo fatica a sapere “come stiamo”: esiste una difficoltà conoscitiva.
Vorrei qui, in queste poche righe, tentare di vedere quali possono essere gli “aiuti” oggettivi che noi possiamo dare al nostro giudizio quando esso è chiamato in causa a rispondere alla domanda sul nostro stare bene/stare male.
TRATTARSI BENE
Non si può che partire dalla nostra capacità/volontà di trattarci bene. Trattarsi bene significa prima di tutto avere cura per il proprio corpo. Il corpo è la sede primaria delle “partenze” di ogni nostre relazione: stare con l’altro (bene o male) parte dal corpo. Poi viene il giudizio sullo “essere stato” del mio corpo in relazione con l’altro, in base al quale stato io pervengo ad una sapere dentro di me che mi dice se poi “realmente” sono stato bene o sono stato male. Sappiamo che il corpo ha sempre ragione: se io sento che il mio corpo mi dà segni “negativi” in presenza dell’altro, sono sicuro che, malgrado tutti i sorrisi e le belle parole di convenienza, io non l’altro bene non ci sto.
Trattarsi bene è allora prestare attenzione ai segni che il nostro corpo ci manda (e sono inequivocabili, inappellabili) in merito all’emozione o al sentimento che noi proviamo verso l’altro. All’altro noi ci dobbiamo avvicinare ma dobbiamo anche saperci difendere.
Trattarsi bene è avere rispetto e fiducia nel nostro corpo come comunicatore del nostro stare bene/stare male, agli altri ma soprattutto a noi stessi. Trattarsi bene è pensare che il nostro corpo è il “dispensatore” originario da cui parte il nostro giudizio in merito alla nostra salute. Dunque di esso particolare cura dobbiamo avere perché è la fonte della nostra soddisfazione. Ci trattiamo bene nel momento in cui abbiamo cura della nostra soddisfazione, sapendo che chi non ne ha accesso è destinato alla malinconia.
Mi tratto bene nel momento in cui so che il mio giudizio sulla ricchezza e disponibilità del mio corpo alla soddisfazione sono sufficientemente sviluppate. Mi tratto bene quando sto al mio posto e non pretendo di superare i limiti della mia natura. “Perché la felicità – sostiene Galimberti – non dipende tanto dal piacere, dall’amore, dalla considerazione o dalla ammirazione altrui, quanto dalla piena accettazione di sé, che Nietzsche ha sintetizzato nell’aforisma: ‘Diventa ciò che sei’” (U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2009, p. 72).
D’altra parte sappiamo anche che non è facile “sapere” i nostri limiti e tanto meno praticarli. Chi siamo noi veramente è una domanda che non si distacca tanto da quella che ho posto all’inizio: “Come stai?”.
”La dimensione in profondità – sostiene Minkowski – fa sì che noi non ci conosciamo mai a fondo; ma questa non è una lacuna innata da parte nostra, dato che il nostro sforzo per conoscerci ha per scopo non un cumulo di conoscenze nuove ma, da ultimo, la ripresa di contatto con il fondo che costituisce la base della nostra vita” (E. Minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi Torino, 2004, p. 54) .
Il fondo della nostra vita è il nostro limite, e non è detto che per forza noi lo dobbiamo conoscere, ma lo possiamo sentire “attraverso” il nostro corpo, che di esso ci manda messaggi. E questi messaggi noi li mettiamo al vaglio del nostro giudizio che in qualche modo (modo non definitivo e tanto meno perentorio) ci manda verso il pensiero di chi noi siamo veramente.
E d’altra parte che cosa è l’infelicità se se non un desiderio esorbitante? Un desiderio sopra alle righe che ci porta inevitabilmente alla frustrazione? Infelice è colui che non si accontenta della propria parte. “… non c’è alcuna difficoltà a dire che chi è infelice in qualche modo è colpevole, perché è lui stesso la causa della sua infelicità per aver improvvisamente coltivato un desiderio infinito e incompatibile con i tratti della personalità, che non si è mai dato la briga di conoscere” (U. Galimberti, op. cit. pp. 72-73).
Soddisfazione è dunque la misura del proprio desiderio. Insoddisfazione è la sua dismisura o il suo disordine. Anche “l’amore di se stessi”, che è imprescindibile dalla soddisfazione, deve avere una misura: l’amore di se stessi è il pensiero di bene, di stare bene, che ci fa agire, muovere, amare, provare passione, lavorare, darsi all’altro come portatori di ricchezza. “Amor proprio” invece è la riflessione su noi stessi, il ripiegarsi difensivo dentro di noi che ci porta alla aridità perché manca, nell’amore, la dimensione e la presenza dell’altro. Amor proprio è…”io e basta”, “amore per se stessi” è la partenza per non bastare a se stessi e procedere alla ricerca dell’altro.
Amore per se stessi è non avere nessun pregiudizio su se stessi (non sappiamo bene chi siamo e dunque non sappiamo dove ci porterà l’amore per l’altro) e dunque la non conoscenza che diventa apertura. Amor proprio è il pregiudizio presuntuoso che attraverso il quale pretendiamo di sapere il futuro delle cose e dunque la nostra volontà di difenderci da esse.
“Il tempo è contraddittorio in se stesso” sostiene Minkowski (E. Minkowski, op. cit. p. 27).
STARE BENE E TEMPO FUTURO
Se dovessimo chiedere ad ognuno di noi di esprimere il nostro massimo desiderio, tutti, indistintamente, risponderemmo: “Stare bene”. E questa sarebbe una delle risposte della salute. Dunque il desiderio di stare bene non è un desiderio sovrastimato o onnipotente, non è il desiderio dell’amore proprio, ma è il desiderio sano dell’amore per se stessi per la propria vita e per la propria conservazione in vita.
Noi, per il nostro futuro, vogliamo e speriamo di stare bene, sapendo tuttavia che anche in questa stare bene può entrare il dolore, la sofferenza, la disgrazia, la solitudine, a volte anche la disperazione. Ma continuiamo a sperare. Anche chi è alla disperazione e rinuncia alla propria vita lo fa mosso da una speranza: che qualcosa di nuovo avvenga.
Desiderio e speranza sono condizioni esperienziali che si legano da un lato alla mancanza (non possiamo desiderare ciò che già abbiamo) e alla attesa (il volere il nostro bene ci autorizza a pensare ad un futuro foriero di bene).
Nel presente noi possiamo lasciarci vivere, ma è nel pensiero di futuro che noi costruiamo la nostra salute, il nostro stare bene o il nostro stare male.
“Nello stesso modo, quando penso ad un orientamento nel tempo – afferma ancora Minkowski – mi sento irresistibilmente spinto in avanti e vedo l’avvenire aprirsi davanti a me” (E. Minkowski, op. cit. p 37).
Tale orientamento altro non può essere che il “senso” che io vedo nel mio avvenire, nel mio procedere, nel mio futuro. Il pensiero di futuro è un pensiero di bene se in esso noi riusciamo ad intendere un senso, uno scopo, un fine, un percorso, un viaggio.
Non a caso la malinconia è l’impensabilità del futuro, come scrive Galimberti. “Ma che cos’è la depressione? Quella condizione dell’anima che si registra quando il mondo circostante non ci dice più nulla e il mondo immaginifico, quello dei nostri sogni e dei nostri progetti, tace avvolto da un silenzio così cupo e impenetrabile da impedire anche il più timido degli sguardi che osi proiettarsi nel futuro” (U. Galimberti, op. cit. p. 141).
Senza pensiero di futuro non possiamo vivere, come non possiamo vivere senza sentirci fortemente ancorati al presente.
Stare bene è allora accettare l’avvenire del tempo, che noi del tutto non controlliamo, ma dal quale dobbiamo lasciarci portare. Accettare che il tempo venga verso di noi, e non voler essere sempre noi ad andare verso o contro il tempo. Va da sé che è semplice dedurre che lo stare bene e lo stare male dipendono dalla nostra capacità di gestire il tempo, il tempo come luogo della nostra possibile soddisfazione.
Il tempo è una formula della natura, per cui la nostra naturalità, il nostro vivere come siamo, vivere chi si è, dipende dalla conoscenza di questa formula, dalla cognizione di “essere vivi” nel tempo che c’è e in quello che verrà.
Per questo “trattarsi bene”, oltre che trattare bene il nostro corpo, è anche trattare bene il nostro tempo. Non solo il tempo della nostra relazione con l’altro, ma anche il tempo della nostra relazione intima con noi stessi, il tempo del nostro “saper essere soli”. Tutto ciò che è attivo vive e tutto ciò che vive deve essere attivo, cioè mosso dall’amore per il proprio essere nel tempo.
Che cosa significa “avanzare realmente nella vita”?, vuol dire produrre nel tempo il nostro valore e far fruttare i nostri talenti. Le nostre ricchezze non vadano inaridite, e le nostre povertà vangano rimpolpate. Tutto ciò significa trattarsi bene: ovvero andare da un “da…”(che viene prima) a un “a” (che viene dopo). Da…a: la vita nel tempo che trascorre producendo bene (anche attraverso esperienze di dolore e sofferenza).
Ognuno di noi è limitato, il limite coincide principalmente con la strutturazione del nostro io. Ma il fatto che io sia limitato non mi deve impedire il lavoro verso il futuro, verso il mio avanzare nella vita: “I limiti delle mie forze – scrive ancora Minkowski – non hanno nulla a che fare con la limitazione della mia attività. Solo progressivamente imparo a conoscere l’esistenza di ostacoli e a misurare il mio sforzo per raggiungere, loro malgrado, ciò che voglio” (E. Minkowski, op. cit. p. 81). Stare bene è il pensiero di vivere in un mondo infinitamente più grande di noi che detta le regole del nostro volere e delle nostre umane possibilità.
Stare bene è l’uscita dalla onnipotenza per saper vivere la relazione con la limitatezza imposta dal mondo che ci circonda.
Quante volte ci siamo imbattuti e siamo stati feriti dalla limitatezza (spigolosità?) del mondo? Certo infinità di casi. E in questi casi quale può essere il pensiero che ci fa uscire dal chiodo della ingiustizia subita e ci consente di andare avanti verso l’avvenire? Un pensiero tutto sommato abbastanza semplice, dal lessico quotidiano: “capita e poi passa”.
Il pensiero che “poi passa” è un altro pensiero dello stare bene. Non ci serve a nulla infatti imputare al dolore una sua reità nei nostri confronti. Il dolore, in sé e per sé, è innocente, nel senso che non guarda in faccia nessuno, non è venuto verso di noi apposta. Fissarci su questo potrebbe diventare ossessione o peggio paranoia. Se il mio stare male di oggi è lo stare mal di oggi, io posso pensare che “poi passa”, anche se poi l’esperienza mi sbugiarda.
Stare bene è il saper riparare, più con il pensiero che con i fatti, allo stare male che è intercorso nel nostro cammino.
Il pensiero di non “saper” riparare è il pensiero della angoscia, della strettoia, della trappola, della impotenza. Angoscia è il pensiero che è difficile arrivare a sera e che, a notte passata, il domani mi riserva la stessa sofferenza: è l’invivibilità della vita, è lo stare male assoluto.
Lo stare male è barrare la possibilità di esperienza dell’avvenire, svuotandone l’intenzionalità e lo slancio, condannando il tempo e l’esperienza al loro passato.
Stare male è volere sempre di più senza calcolare che il tempo ha una sua offerta ben precisa e limitata e tutto non possiamo avere. Non possiamo ottemperare al dettame del “tutto”.
STARE AL PROPRIO POSTO
Allora saper stare al proprio posto è il primo antidoto allo stare male e il primo antidoto alla angoscia. Perché l’uscita dalla angoscia è un pensiero di libertà: libertà di scelta proprio in merito allo stare bene o allo stare male ma nel nostro posto, non oltre, non fuori. La libertà di dire “sì” e libertà di dire “no”. Come affermava Freud sui limiti della psicoanalisi quando scriveva che essa non cura ma porta l’individuo alla esperienza di libertà in cui egli dice o sì o no allo stare bene o allo stare male.
Sta alla nostra libertà di vivere oppure no lo “slancio verso” di bergsoniana memoria. Con il mio slancio io realizzo qualcosa nella mia vita, della mia vita faccio un valore. Minkowski parla di “dimensione etica” della nostra vita. Ovvio che lo slancio è verso l’altro, non verso noi stessi.
“Ed è questa fonte – egli scrive – che crea quel legame intimo e primitivo tra me e i miei simili, simili non nelle manifestazioni esteriori e superficiali della loro vita, ma proprio nelle tendenze profonde, inaccessibili alla conoscenza eppure orientate naturalmente verso la ricerca di valori positivi” (E. Minkowski, op. cit. p. 54).
Il nostro corpo ci manda dei segni sul nostro stare bene o stare male nella relazione con i nostri simili, ma anche il nostro corpo è chiamato a lasciare un segno nel tempo, il segno della realizzazione della nostra vita. Opera compiuta o ancora in cantiere.
E ancora una volta entra la questione del tempo, della gestione del futuro. Per il futuro noi compiamo delle attività, per dare un senso alla nostra vita noi agiamo. Ma non è tutto. Il nostro tempo futuro è fatto anche di attesa, di assenza del fare, come scrive ancora Minkowski: “…nell’attività tendiamo verso l’avvenire, nella attesa, al contrario, viviamo, per così dire, il tempo in senso inverso; vediamo l’avvenire venire verso di noi e attendiamo che questo avvenire (previsto) divenga presente” (E. Minkowski, op. cit. p. 83). Potremmo qui parlare di pazienza. L’attesa è pazienza, nel senso anche del “patire”, del dolore, che avvenga ciò che deve avvenire, che per quanto male avvenga… “poi passa”, anche se non dovesse passare. Quello che ci deve interessare è il lavoro verso la soddisfazione, che è il rimanere nell’oggi con uno sguardo proiettato nel futuro. Se nel futuro noi proiettiamo il dolore del passato, e ne vediamo la ripetizione e la ripetitività, andiamo senza dubbio incontro allo stare male. Il domani non necessariamente è come l’oggi: tanto nello stare bene, quanto nello stare male.
Lo stare bene è una “questione morale” anche nel dialogo che noi abbiamo con noi stessi in cui l’articolo più importante è l’uscire dalla ripetizione e dalla inibizione. Se penso che il domani sarà come l’ieri mi fisso e mi inibisco, mi passa la voglia di fare. Noi siamo il nostro stesso desiderio e in quanto tali dobbiamo viverci; noi siamo “chi” desidera e dunque prospetta un futuro, in una sua realizzabilità che “non è difficile”. “Chi” desidera il bene e, possibilmente, il bello.
Non saprei qui dire ora se lo stare bene abbia a che fare con il “momento” oppure con la “continuità”, oppure da entrambe le istanza che intercorrono nella nostra vita, ma mi pare di poter ipotizzare che esso sia tanto legato alla continenza e alla mediazione (nella relazione con l’altro e con noi stessi). “Nulla di troppo” mi sembra il pensiero più adatto allo stare bene. Stare bene è accettazione della situazione così com’è, perché poi sarà questa accettazione che renderà possibile il cambiamento. Cambiamento che sta sempre nel passare “da”…”a”, ovvero da uno stato precedente a uno susseguente, e questo è “l’avanzare realmente nella vita”. E questo avanzare non è il nostro confronto (sempre perdente) tra essere e dover essere, tra potenza e atto, bensì la accettazione del futuro che viene verso di noi, senza che noi ci opponiamo al suo passo.
L’avere senso è il senso del futuro, e il fine a cui noi tendiamo. E’ il nostro stare al proprio posto. Si dice che una azione ha un senso, che una vita ha un senso, che una comunicazione ha un senso, etc. Tutto ha senso se noi immettiamo lo scopo e il fine morale. Noi diamo in misura del nostro essere, del nostro avere e del nostro dare, e questo è il massimo senso morale.
Guido Savio