ENFASI
L’enfasi, nel racconto del soggetto, è una “esagerazione” nella forma rispetto al contenuto; è un fare di chi è costretto a ricorrere ad uno stile recitativo non spontaneo per confermarsi, per dirsi chi si è.
Sia nel racconto del dolore, sia nel racconto della gioia il sentire non conosce contenimento, pena il pericolo di non saper suscitare nell’altro, eterno e necessario spettatore, la risposta rassicurante che l’emozione è vera e merita di essere espressa.
Il dolore, dilatato nel tempo, nello spazio e, soprattutto, nel pensiero diventa un gigante, sempre più pesante e, inevitabilmente, sempre più invadente. Ma il peso deve essere portato, e a maggior ragione, quando diventa oggetto di esibizione. L’ intento magari era tutt’altro: scaricarsi, e, attraverso la esagerazione del racconto di un contenuto doloroso, sfogarsi e invece… Alleggerirsi dal peso della enfatizzazione, risposta boomerang, che così facilmente si ritorce contro il soggetto e che chiede abilità sempre più sofisticate, è veramente difficile in quanto modalità relazionale che diviene una pratica cronica, una coazione, una ripetizione che è sofferenza.
Il tempo non è dalla parte di chi, sempre più necessariamente esperto, enfatizza! L’altro, costantemente cercato e risucchiato nel dramma, come spettatore incatenato ma tacitato, non può agire nessuna parte. La relazione agognata e non vivibile, -è scomparso lo spazio dell’ascolto!-, amplifica il dolore che trova, nell’esibizione della solitudine, la sua conferma.
L’enfatizzatore è sempre colui che “chiede troppo” all’altro. Chiede troppo perché già sa che l’altro non lo può soddisfare e dunque lo delude nella sua mancanza di “sensibilità”. Non a caso una della frasi più ricorrenti dell’isterico è: “Tu non mi puoi capire”. Come a dire: il mio male è troppo grande per essere curato da un essere umano. Forse l’unico capace sono io stesso. Che lo gestisco in tutte le relazioni, ovvero le impedisco.
L’enfasi è, allora, anche rabbia relazionale verso l’altro (“Io soffro più di te” ovvero “ Io sono più di te”) ed è questa una della massime opposizioni al rapporto. Alzando sempre la posta in palio, “io patisco di più e dunque sono sempre a credito nei tuoi confronti” si fissano delle posizioni che negano qualsiasi possibilità di parità.
Il vantaggio economico, il primariato del proprio Io, una certa forza contrattuale, o addirittura il ricatto possono dominare i rapporti ed essere, talora, l’unica modalità per garantirsi l’altro, ma è un inganno, una bugia che il soggetto racconta e si racconta. E quando la bugia nella relazione viene smascherata non c’è speranza per la credibilità di chi, per esserci e soprattutto per proteggere una angosciosa debolezza, l’ha tessuta.
L’enfasi, nel suo indulgere, non è un distacco dalla realtà, ma un cattivo lavoro di giudizio, in quanto non determinando il posto induce ad allargarsi, per un assoggettamento all’ideale dell’io che richiede risposte più precise e soddisfacenti di quelle che il soggetto in sé e per sé può dare, a se stesso e all’altro. In questo senso le frasi dell’enfasi sono frasi estorte dal Super-Io che detta: “Bisogna!”. Ma “allargarsi” significa uscire dalla propria giurisdizione, pervertire l’ordine, non fare ciò che è dovuto, non rispettare la legge della relazione che chiede temperanza.
Il soggetto dell’enfasi porta sempre una giustificazione storica, vera o fantasmatica, alla sua condotta di giudizio. Il suo background è sempre pulito, il suo brevetto è a prova di bomba (nel suo pensiero) in quanto altri mai hanno sofferto quanto lui, e dunque è pienamente giustificato. Pienamente si giustifica. Si chiama fuori.
L’enfasi esalta l’umana paura e la proietta su di un iperuranio nel quale non è possibile controllarla. Testimonia la difficoltà di sopportazione reale del dolore e del tentativo di “dominarlo” attraverso la sua stessa esaltazione. L’enfatico o l’isterico non sa alzare la soglia della sopportazione, non la sa contenere.
Cosa chiede, dunque, chi esagera, chi enfatizza, chi, con la sua teatralità, quindi con le sue stesse armi, arriva a snaturare la veridicità dei suoi vissuti? Cosa mostra veramente chi si nutre del pensiero di essere a credito?
E’ la risposta del bambino, ferito nella sua domanda di unicità ed esclusività, sofferente perché incapace di pensarsi e volersi se non sa se e quanto è nel pensiero dell’altro. Vuole attenzione per non perdersi, per non vivere o, meglio, rivivere l’angoscia di abbandono che niente e nessuno ha saputo lenire. L’enfasi è del bambino che chiede alla madre senza ottenere risposta in quanto il padre (il principio di realtà) non accetta la domanda come seria e realistica, bensì come menzognera e manipolatoria. Nella triangolazione edipica non avviene quella soluzione che pacifica rispetto al destino delle diverse posizioni, anzi si accentua il pensiero di non avere uno spazio visto che non viene interpretato quello sentito.
L’enfasi è dunque un tentativo di sopperire ad un pensiero di impotenza. E sembra non ci sia altro che prendere tutto di petto, non porre tempo tra stimolo e risposta, non sostenere la eccitazione, anche se si traduce in una dolorosa ansia di attesa, non dimenticare nessuna offesa e reclamare sempre l’ultima parola. Nell’esagerazione l’impotenza viene negata e il dolore lenito, nascosto, lasciato cadere sulle spalle dell’altro anche se è chiaro che non può risolverlo, non gli è veramente, permesso. L’enfatico, ed è opportuno ribadirlo, “non prende mai sul serio il proprio dolore”: ne fa una pubblicità indebita senza esprimere la seria volontà di guarirlo.
E allora si può dire che tutte le forme della enfatizzazione sono forme della dipendenza in quanto il reale, il mondo, l’altro vengono vissuti come “agenti contro”, dai quali in qualche modo si dipende in quanto fonte di dolore a cui da soli non si sa fare fronte. E chi non sa fare da solo, nel senso di costruire un sincero dialogo interiore dove sono in gioco le potenzialità e l’esperienza rasserenante del limite, la conciliazione tra interiorità e realtà, e non l’ansia dimostrativa di una indiscutibile superiorità, è un dipendente, spesso un ribelle senza costrutto che non lotta per provare se stesso ma per negare il presente e, soprattutto un possibile divenire.
La sentenza dell’enfatico, il dolore durerà per sempre!, non conosce vera speranza, proiezione in un futuro non illusorio dove lo spazio per l’incontro con se stessi e con l’altro è liberato dalla paura di sentirsi in balia e, quindi, troppo esposto, troppo vulnerabile.
La via relazionale, che è la via della guarigione, chiede che il sipario si chiuda, che si accetti la fine di uno spettacolo in-credibile che mina la possibilità della soddisfazione, dell’esperienza di amare e essere amati nella libertà e nell’accettazione sincera della misura della propria realtà e di quella dell’altro.
Francesca Primon
Guido Savio