BUGIA
La bugia è una condizione, nonché una pratica di sopravvivenza, di un soggetto che dice ad un altro (o al mondo) che la sua esistenza “è” in un certo modo anziché in un altro. Sempre questo soggetto ha “coscienza” della propria bugia, tuttavia spesso la nega di fronte alla richiesta di “spiegazioni” dell’altro (o del mondo). Tale negazione a volte è una sovrapposizione stessa della bugia in quanto tale soggetto “nega” il proprio mentire sapendo di mentire. Io vorrei dire alcuni pensieri sulla “humanitas” della bugia, cioè sulla sua profonda e sentita natura di strumento attraverso il quale molte persone percorrono la propria strada per arrivare alla salvezza.
Il bambino che dice una bugia non è ammalato. E’ un soggetto che compie una scelta, che spesso è obbligata, per superare un ostacolo o oltrepassare una impasse. Solo l’adulto che “mente sapendo di mentire” è dentro la psicopatologia. Ed è malato perchè il suo mentire non ha come finalità un bene (che potrebbe essere anche il bene dell’altro, oltre che il suo) ma un male, un maleficio contro l’altro .
Nel bambino disubbidienza e bugia si sovrappongono spesso, in quanto la bugia è la giustificazione logica e razionale di un atto che altrimenti non sarebbe “giustificabile”.
La bugia ha una forte incidenza di volontarietà. Se qualcuno afferma (nella logica della bugia) che “non può” soddisfare la domanda dell’altro, è come se affermasse “posso il no”, cioè posso sottrarmi con motivazioni non veritiere alla tua domanda. Posso dire di no, anche quando questo no so benissimo che non comprende giustificazione alcuna.
La bugia, a volte, altro non è che una modalità di sopportazione della realtà stessa, specie quando questa realtà ci fa troppe domande. Non a caso la bugia “avviene” sempre sotto la spinta di una domanda (reale o simbolica). Certo poi che io potrei anche alzare la mia soglia di sopportazione di fronte alla domanda dell’altro, e rispondere in modo corretto, cioè operando come l’altro chiede (per il bambino è l’ubbidire) e quindi non dire bugia.
Credo che porre la questione della bugia sul piano morale sia riduttivo, in quanto il responso sarebbe fin troppo scontato: la bugia, in qualsiasi caso, non è un atto corretto il quale prima o dopo si ritorce contro chi la dice. Certo che è così. Ma non solo così.
In una relazione, nella quotidianità della relazione, quante bugie diciamo? Infinite. Alcune di queste potrebbero addirittura fare saltare la relazione, altre incrinarla, altre però non la scalfiscono nemmeno. Tutto dipende dalla natura della relazione: se io sono prevenuto nei tuoi confronti, ogni bugia che scoprirò nella tua bocca sarà una occasione per me per confliggere. Ma se la natura della mia relazione poggia nella accettazione del limite dell’altro, anche la bugia che l’altro mi racconta io saprò trattarla senza che provochi danni irreparabili. Se io non voglio danni.
Ma quando l’altro mi racconta una bugia, io come sto? Male certamente. Mi sento prima di tutto tradito. Tradito perché io dell’altro ho prima di tutto una rappresentazione (e una pretesa) idealizzata: cioè l’altro, verso il quale io nutro tanta stima e fiducia (sic!), non può spostarsi un millimetro dal mio “volere” su di lui, da come io me lo aspetto e da come io lo chiedo. E poi dell’altro ho una sana fiducia. La bugia è, per così dire, “totalizzante”: una volta che si è scoperti a dirne una…si è bugiardi per tutta la vita! Non voglio dire tuttavia che la bugia sia un fenomeno scontato e che il dolore che essa procura nella relazione abbia esclusivamente a che fare con la mia idealizzazione dell’altro. Ma mi sembra di poter sostenere che la bugia è un “fenomeno” talmente tanto presente nelle relazioni che non può essere messo all’indice come forma sempre patologica che patologicizza la relazione stessa.
Esistono poi le cosiddette “bugie innocenti”? Non saprei come rispondere alla domanda in quanto ogni bugia è frutto di un atto deliberato di volontà. Ma d’altra parte non tutte le bugie sono uguali, non tutte hanno lo stesso calibro e soprattutto la stessa ricaduta negativa sull’altro. Ma quale è allora il “male reale” prodotto dalla bugia? Esiste un male oggettivo (inganno, fraintendimento, truffa, tradimento, etc.) che è innegabile. Ma più che un “male oggettivo” la bugia induce un male relazionale. Ovvero, di fronte alla bugia dell’altro noi assumiamo una forza e una sicurezza tali per cui ci sentiamo dentro un diritto perfetto. Anche quello di spaccare il mondo. Perché di fronte alla scoperta bugia dell’altro noi ci sentiamo “personalmente offesi”. E l’offesa diviene la nostra forza. La nostra forza d’urto e di attacco. Mentre chi la bugia l’ha detta, o messa in pratica, si pone o viene posto in una condizione di inferiorità o di sudditanza tale che la sua riabilitazione risulta alquanto difficile, e la sua attaccabilità altrettanto facile.
Certo, non c’è ragione che dice che l’offeso non debba chiedere giustificazione. Ma neppure c’è ragione per cui l’”offeso”, a partire dalla bugia subita, impianti una teoria avversa (a volte si tratta anche di odio) per cui la relazione o salta o ne viene per sempre inficiata.
Siamo tutti deboli: tanto l’offeso quanto l’”offensore”. Metto la parola offensore tra virgolette perché spesso questa definizione è frutto di una elaborazione del tutto personale (per non dire patologica) del cosiddetto “offeso”. Insomma, se io lo voglio veramente, di fronte ad un tuo errore, ti metto in croce. Ma se non voglio no. Mi verrebbe da dire…se “ti” voglio, allora no. Siamo nella logica del perdono? Certo. Ma non siamo nella logica del perdono garantito, perché la tua bugia, alla fin fine, mi fa stare male per davvero.
E allora? Allora tutto sta nella mia volontà di conservare la relazione, e nel mio giudizio che esiste un “limite” anche per le bugie. Non posso stare insieme ad un bugiardo patentato, altrimenti divento perverso anche io.
Forse sto parlando, senza accorgermene, del fatto che la questione della bugia nella relazione, è una questione di misura. Anzi, si tratta proprio di una questione di misura. E come tutte queste questioni, la misura non sarà mai oggettiva ma soggettiva, cioè relazionale: tutto dipende dal giudizio che io ho su di te, e che tu hai su di me, dall’amore che io nutro per te e tu per me: poi vengono le bugie che rispettivamente ci raccontiamo.
Esiste l’ingenuo che “beve” tutto (cosciente o incosciente) perché non sa reggere il conflitto; ed esiste il paranoico che non “beve” niente (perché della relazione non ha interesse ma gli interessa sostanzialmente la difesa della propria “integrità”: non vuole essere offeso o ferito, pena la morte dell’altro). Senza voler porre queste due patologie come estremi della scala valutativa.
Misura, dunque. Io ho notato, nel corso della mia vita, che non c’è mentire nella forma dell’odio, ma c’è mentire nella forma della debolezza. E la debolezza è una condizione in cui nessuno si trastulla, ma che ci capita di vivere perché fa parte della nostra natura più intima.
Non so se la bugia presupponga sempre un fine chiaro, programmato, asettico, razionale. Può essere. Certo essa è frutto di una certa volontà del soggetto. Io mi sono tanto spesso trovato di fronte a bugie che sono più fughe di incapacità piuttosto che tentativi di distruzione (dell’altro).
Poi la bugia è…che gli altri ci credano o meno! Ma mi sento “apposto” io se la questione la pongo in questi termini? No di certo. Il mio giudizio di condanna o di assoluzione è solo mio, indipendente dagli effetti che il mio stesso operare opera. Conosco le mie bugie; il mio giudizio poi su di esse (e dunque su di me “bugiardo”) è una questione limitrofa: io posso dire alcune bugie in alcune situazioni particolari, ma non essere un bugiardo: questo dipende dal giudizio che io ho su me stesso. E anche qui è una questione di perdono. Il perdono è una delle forme del giudizio. Non posso permettere la totalizzazione: se ho detto una bugia allora sono un bugiardo per tutta la vita.
Molto spesso la bugia, oltre che a legarsi ad una umana debolezza, si stringe ad una dolorosa solitudine. Chi è più debole, più mente. Chi è più solo, più mente. Ovvio che è raro il mentire nella logica dell’odio; molto più plausibile in quella della debolezza.
Detto questo, il passo successivo è il capire come la bugia sia espressione del nostro narcisismo (vogliamo sempre nascondere, proteggere qualcosa di noi), proprio perché essa tende a mettere a tacere la voce della coscienza della nostra debolezza.
Chi non ammette la propria debolezza può correre il rischio di paranoia (l’altro è migliore di me e dunque contro di me): è qui dove il comportamento bugiardo trae i suoi spunti: nego la mia inferiorità e nego la superiorità dell’altro.
La bugia è una risposta. La risposta del rifiuto di quello che Freud chiamava “castrazione”, ovvero il rifiuto della propria possibile condizione di “secondo” rispetto all’altro. Poi noi sappiamo che secondo o ultimo sono la stessa cosa. La bugia è sempre una “intenzione” con uno scopo e un fine ben precisi. Questi scopi e fini possono essere contingenti, ma la madre di tutte le bugia sta nel rifiuto della legge, della regola che afferma che esistono dei posti nelle relazioni, e tali posti non giacciono in una linea orizzontale, bensì fortemente verticale (c’è che sta sopra e chi sta sotto, afferma in bugiardo. Io negherò fino alla morte di essere uno di quelli che stanno sotto).
Diffidare da chi sbandiera: “Non sono tipo che racconta bugie, specie a se stesso”. Il ricettacolo delle bugie che noi raccontiamo agli altri e a noi stessi, è profondo come il mare, anche se il giorno dopo siamo diversi e pronti a riparare. Ma è difficile, molto difficile, riparare l’effetto della nostra bugia. Come la calunnia e la storia del cuscino di piume d’oca che, se aperto in una giornata di vento…chi è in grado poi di rimetterle dentro tutte? La calunnia è una delle forme della bugia.
La bugia è una forma di presunzione: chi la dice…presume di farla passare, e di far passare se stesso indenne di fronte al giudizio dell’altro o al più diffuso giudizio della società. Ma quale è la presunzione più subdola? Quella che assicura il bugiardo che lui sa “come andranno le cose”, e dunque, usando questo suo personalissimo potere di vaticino, camuffa in dato reale e manipola il senso del tempo che trascorre e che, in quanto tale, una sua verità traccia.
A volte noi diciamo bugie per non perdere l’altro. Perché temiamo il distacco o l’abbandono. Allora limiamo il nostro essere verso di lui sul modello idealizzato di quella che per noi è la sua modalità di accettazione nei nostri confronti. Vogliamo piacergli a tutti i costi, ma non per amore o dono, bensì per paura di essere persi: a questa logica di dipendenza sacrifichiamo il nostro essere portatori di verità e ci aggrappiamo all’altro attraverso la bugia: ci diciamo diversi da quello che siamo per timore di essere abbandonati. A volte le nostre bugie manipolano l’altro per ottenere lo stesso scopo. Vogliamo “condurlo” verso di noi per la strada che noi riteniamo vantaggiosa per noi stessi, nascondendo gli angoli oscuri.
La bugia è un modo per tenere l’altro legato a noi senza che egli si accorga della nostra infedeltà.
Torno brevemente alle cosiddette bugie che noi raccontiamo a noi stessi. Io sono chiamato ad esprimere un giudizio su me stesso. Ciò non è sempre facile, anzi. Le sirene che cantano attorno a noi sono infinite. La nostra paura è che da questo “confronto interno” con noi stessi, con la nostra alterità, ne esca un responso deludente. E allora mi racconto bugie. Sempre quando non accetto che l’Io reale è inferiore all’Io ideale: e sappiamo che questo è lo scoglio più duro da superare in quel navigare incerto che è la nostra esistenza.
D’altra parte sono io che devo avere rapporto curativo con me stesso. Sono io il primo medico di me stesso. Capita spesso invece che il medico racconti bugie, proprio perché la “cura” è troppo difficile da seguire. E ancora mi racconto bugie.
La bugia è un contr-ordine perché mina l’ordine fisiologico (anche se a volte, lo abbiamo visto in precedenza, lo può favorire se non addirittura conservare). Ma noi siamo esseri umani ricchi di mancanze e debolezze: ci è quasi impossibile mantenere l’ordine.
Il medico di me stesso (che sono io) non può dire, per esempio, che il corpo è debole di fronte alla sopportazione del dolore, o della realtà stessa. Potrà dire che ad essere debole è il pensiero che fa fatica a sopportare certi pesi, ma non potrà dire: “Non ne posso più” in merito al corpo, perché dobbiamo avere pensiero che il corpo è produttore di infinite risorse. Ed è capace di resistere al dolore.
Se io affermo: “Povero me” proprio nella più chiara logica della autocommiserazione, non faccio altro che raccontare una bugia a me stesso, perché il corpo non è povero di per se stesso, a meno che io non lo pensi povero. La bugia, in questo modo può intervenire sulla conoscenza che noi abbiamo di noi stessi: non tanto perché non ci mette di fronte alla realtà dei fatti, quanto perché riduce il nostro amore e la nostra fiducia nel nostro stesso corpo. Se lasciato andare (senza pensieri) il corpo va da solo. Il giudizio sulla sua salute lo esprime semplicemente il dato di salute o di malattia, non il pensiero. Se pensiamo al corpo, in qualche modo, lo ammaliamo.
Non posso “rifiutare” lo stato del mio corpo e magari raccontarci bugie sopra. E poi queste bugie quasi sempre stanno nel registro della lamentazione, cioè della falsificazione della realtà per avere (dall’altro) in cambio un trattamento di favore (un amore di favore?).
Il mio corpo è quello che è: parla da solo. Noi invece lo proiettiamo in uno scenario ideale per cui dovrebbe essere quello che non è. E’ il percorso di idealizzazione di cui ho parlato in precedenza. Per questo la bugia “fondamentale” si situa nello scarto tra “essere” (che non è accettato) e un inarrivabile “dover essere”.
Guido Savio