PAURA
FATTI VEDERE
Se io dico a qualcuno “fatti vedere” nel senso amichevole, amorevole, sanamente invitante della accezione della espressione, gli offro una opportunità di apertura, gli offro una occasione di uscire dal suo nascondimento. Ma devo stare attento in quanto ogni nascondimento è anche funzionale al nostro equilibrio. Noi non possiamo tirare nessuno fuori a forza dalla propria casa, per quanto patologicamente protettiva possa essere, di qualunque essa sia, anche quella del fare del male a se stessi.
Il bene dell’altro noi lo possiamo capire, anzi lo capiamo meglio di lui, ma non possiamo farglielo capire con la nostra logica, nella nostra modalità o con la nostra forza: allora spesso facciamo bene a tacere. E avere pazienza.
In merito al discorso sulla paura: “fatti vedere” allora è un invito, non una richiesta, all’altro di metterci (noi due) nella condizione di non avere paura l’uno dell’altro. Paura è sempre paura che l’altro entri troppo in noi, fino a toccare la nostra debolezza, e che lo porti a rifiutarci per questo. E dunque il nascondimento dell’altro può essere una “logica” risposta alla nostra domanda.
Spesso la nostra debolezza è rappresentata dai nostri stessi sintomi, che noi usiamo appunto come vestiti per nascondere all’altro la nostra debolezza. Ma anche la nostra privatezza: non solo il mele di noi stessi, ma anche il bene.
“Fatti vedere” non è un brado invito all’altro a spogliarsi, né tanto meno la assunzione da parte nostra di una posizione di superiorità per cui dovremmo essere noi a stabilire le regole della relazione. No. “Fatti vedere” è il “fatti ammirare” che molte mamme dicono alle loro figlie quanto sono eleganti, o molte amiche all’amica sincera nella prossimità di una cerimonia importante. Metti in mostra la tua ricchezza e non avere vergogna. E non avere vergogna della tua povertà.
La paura ha come figlio il sintomo, nel senso che naturalmente lo genera oper poter sopravvivere (come paura) e anche per fare sopravvivere il soggetto stesso. Il sintomo è un evento che fa vedere del soggetto alcune realtà, forse per nasconderne altre. Il sintomo è figlio della paura ma nello stesso tempo è una porta aperta per uscirne: basta che venga riconosciuto. Pensiamo alla importanza del “riconoscimento” del sintomo nel corso della terapia analitica: è lo svestimento della reticenza a non essere se stessi (cioè il continuare a nascondersi e non farsi vedere). Poi il sintomo può anche persistere o attenuarsi.
CI PENSERO’ DOMANI
Questa stracitata frase di Rossella O’Hara di “Via col vento” potrebbe essere intesa come antitetica alla prima. “Ci penserò domani” è la frase della paura che l’”adesso” mi fa. Oggi non mi faccio vedere. Semmai mi farò vedere domani. Semmai. Semmai è “ il non deciso” (quando il “mi faccio vedere”, in sé e per sé, è una decisione.). E’ il fastidio per il quotidiano che ci fa procrastinare le nostre scelte. Come se qualcosa fosse sempre in agguato dietro l’angolo; come se la nostra scelta fosse un lanciare un messaggio al nostro ipotetico aggressore. Qui la paura: temere che quello che faccio un altro se ne può servire contro di me. Allora l’inibizione, il “non ce la faccio” e dunque “ci penserò domani”, logica che rimanda al mio muovermi solo se ne esiste estrema necessità, solo quando ho l’acqua alla gola. Ma noi sappiamo che i più terribili errori vengono commessi nel regime della necessità e della dipendenza.
Se il telefono in mano lo prendo solo nel momento della urgenza, di sicuro non ho una relazione libera con chi sta dall’altra parte del filo, “ci penserò domani” non è né per me né per te: è per nessuno, in quanto fa sopravvivere l’illusione del “tempo sospeso”, che non decreta né da una parte né dall’altra e inneggia alla ignavia dantesca. Dunque dolore.
Sapendo noi che decisione è il decidere che “si può perdere”, l’ invito della frase “fammi vedere” è negazione della frase: “i penserò domani”. L’atto infatti, in fare questa o quella cosa (ma non tutte e due insieme) è la attuazione del pensiero che…si può perdere, ma nello stesso tempo è la tacitazione del pensiero di colpa (non parliamo di senso che…fa senso!). Il senso di colpa ha a che fare con il condurre la nostra vita lungo il binario del disordine e della confusione, in quanto non esiste chiarezza nella lettura della nostra storia: vittime o carnefici? Colpevoli o sottomessi? Sono queste le domande disordinate che sorreggono le nevrosi più dure.
E ovvio a questo punto che la risposta non può essere che il “mi faccio vedere” non tanto nel mio presupposto ordine (tipo quello che spazza la polvere sotto il tappeto), ma nella naturalità del fatto che è l’altro a cogliermi e soprattutto io lo voglio. Mi faccio vedere è voglio farmi vedere, agostinianamente. Se io lo voglio.
Noi siamo come barchette in balia del vento, veramente, e pensiamo che la ragione ci possa difendere e dirigere. Invece veniamo sballottati da una parte e dall’altra del mare mosso, dalle cui onde, per forza ci dobbiamo difendere senza nascondere la paura chele stesse onde ci procurano. Basta una parola dell’altro per farci cambiare il battito cardiaco, il respiro, la giornata, la vita a volte. E allora, che cosa pretendiamo, di esimerci dalla scelta? Di rimandare la decisione? Di rimanerre nascosti? Di non ascoltare l’altro che è sempre quello che dirime tutte le nostre questioni e sana tutti i nostri mali?
HUMANITAS
La ammissione della paura è il segno della nostra profonda umanità. Perché la paura è la umanissima esperienza del nostro corpo, che qualcuno, a partire dal nostro corpo stesso, possa farci del male.
Il pensiero che il nostro corpo ci faccia del male è la prima paura.
La paura sul nostro corpo è una paura che rimanda al pensiero di esautibilità (esauribilità delle risorse) della nostra carne, dei nostri nersi, della nostra testa, che non abbia più forza, più vigore, più energia, più sangue che la faccia funzionare. E allora,non potendo noi controllare la forza del nostra corpo, ne abbiamo paura. Come ha paura chi ha sentore che le proprie forze non sono illimitate. Come chi non sa quanta benzina c’è nel serbatoio. Ma va avanti. Non è tranquillo, ma è la vita e la vita non ha spie di rilevazione.
PAURA E DEPRESSIONE
La paura è il nesso logico tra dipendenza e depressione. “Non ce la faccio” è il non ce la faccio da solo. Ma altrettanto noi sappiamo che nessuno ce la fa da solo. Ma non è una questione di atti, di esperienze, ma di pensiero: sono depresso se penso che non ce la faccio a vivere la mia paura e la voglio combattere a tutti i costi: chi combatte la paura soccombe. Infatti la vera paura è il voler essere forti quando non lo si è. E nessuno lo è..
Paura è un pensiero perverso di immortalità, è il frutto di una illusione andata a male: quella del pensiero di integrità appunto. Paura è profonda disonestà con noi stessi in quanto l’onesto è appunto chi fa vedere se stesso, chi fa vedere le sue carte affinchè, assieme all’altro, una relazione possa essere intessuta. E ognuno “beve” dai frammenti delle proprie esperienze quotidiane il sano e il malato della propria stessa esistenza.
Poi, fuor di poesia e dentro alla sana prosa, il pauroso è un ingenuo in quanto non intende, non sa…quello che si perde! Così, alla lettera. La sua inibizione del non sapersi svestire e del non sapersi dare all’altro, e del non sapere scegliere, e del pensare che non è capace di farcela,e, semmai, ci penserà domani… è la sua meritata zappa sui piedi.
Allora diviene depresso in quanto va abbasso la sua stessa libido, la sua stessa voglia di vivere, la sua stessa accettazione del limite e della morte e la sua stessa eccitazione verso la vita. E Intanto la vita scorre e corre.
Per questo avere paura è assolutamente un “valore morale” (questione “immorale?”), solo perché finchè penso alla paura del mio corpo, delle mie non-azioni, della mia depressione, del mio Io, io non penso all’altro. Non pensare all’altro è l’unico capo di imputazione che ogni tribunale morale dovrebbe porre come principale articolo.
Per questo poi la paura diventa una “legge” che non ci fabbrichiamo da noi stessi e non ci abbandona. Una legge affatto civile ma assolutamente penale che ci condanna in continuazione: non ci dà respiro proprio perché è diventata una legge (anche se perversa) ma ha tutte le caratteristiche della legge, prima tra tutte la impositività). Infatti la nevrosi conosce molto bene la paura in quanto la chiama in continuazione a dirimere le proprie questioni legale. In soldoni: “io non c’entro, o c’entro quel poco che mi basta per essere assolto dalla mia stessa coscienza”. Anche se la paura è la umanizzazione della angoscia, visto che di “humanitas” stiamo parlando, e nessuno è esente dalla paura, tranne il votato alla morte (e anche costui e degno del nostro rispetto). Ma, in ogni caso, la paura, non impedisce di fare qualcosa per sé. Non è sempre l’inchiodarsi nel letto o nel divano.
IMPEDIMENTO
E’ chiaro a questo punto che la paura è un impedimento (inibizione) in termini clinici. Mi impedisce, ovviamente, la soddisfazione. Soddisfazione significa che noi siamo “autori” del nostro fare e del nostro essere, cioè il “primo fattore” della nostra vita. Se noi abbiamo il pensiero che qualcuno “contraddica” la nostra logica verso la soddisfazione lo nominiamo immediatamente “nemico”. Il nemico versa le sue lance contro il nostro pensiero di essere “pieni” (che è l’inno del narcisismo e la culla dalla paura). Chi pauroso è deve saltare la linea del piacere, non deve confondersi con il dolore.
E qui il confine tra paura e angoscia è estremamente labile: paura e angoscia sono tutte e due “non conoscenza” del loro motivo.
NOTTE
In ogni caso la paura è il regno della notte perchè nella notte noi non possiamo vedere la realtà. Semplicemente solo per questo. La notte ci rimanda all’immaginario e dunque alla fantasticheria e dunque al lavoro contro noi stessi. L’immaginario è il luogo del futuro malato: chi apre gli occhi si sveglia (alla salute), e la salute è sempre quella del corpo, come avere paura è non tenere la spina dorsale dritta. E’ sempre il corpo che detta la sua legge. Anche quella sbagliata. “Anche dentro il corpo la tenebra è profonda, e tuttavia il sangue arriva al cuore, il cervello è cieco e può vedere, è sordo e sente, on ha mani e afferra, l’uomo è chiaro, è il labirinto di se stesso” (J. Saramago, “L’anno della morte di Ricardo Reis, p. 86).
Guido Savio