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STIMA

STIMA

Stimare è sostanzialmente pesare, esprimere un giudizio sull’altro e sul mondo per poter esprimere la propria forza nei confronti della alterità e anche la propria giusta difesa nei confronti della stessa alterità.

Stimare alla fin fine è un aiuto a non toppare le nostre relazioni nella pratica della autoregolazione e soprattutto nell’ autorizzarsi da sé (all’essere “chi” si è e a fare quello che ci porta alla soddisfazione).

Stima è riconoscimento della alterità dell’altro e soprattutto della diversità del desiderio dell’altro, che è la sola garanzia per la soddisfazione.

Stima è sapere pesare il proprio corpo, il proprio corpo pulsionale. Infatti chi ama sa pesare e dunque esprimere giudizio (sì/no) in merito alla soddisfazione ottenibile nella relazione con l’altro, appunto evitando, per quanto possibile, di toppare le relazioni.

Chi stima, proprio nella logica della accettazione del giudizio, e dunque del conflitto nella relazione, perché sa praticare la propria indipendenza e la propria autonomia sempre nell’ambito dell’ottenimento della soddisfazione che ovviamente deve seguire regole e ordine. Non a caso chi è dipendente lo è proprio perché non è capace di stimare.

Chi stima è soggetto che sa prendere responsabilità per se stesso e per l’altro come occupazione di un posto che costituisce garanzia nella reciprocità.

La stima non è certo fede nell’amore garantito e tanto meno garanzia della soluzione della questione. Stima è forse “non essere mai tornato indietro” ma avere avuto sempre l’intenzione di andare avanti. Intenzione nel senso di…essere attento, ovvero sveglio nel cogliere la realtà del mondo e giudicarlo (con gli annessi e connessi di cui si è parlato all’inizio).

La stima ci permette anche di avvicinarci al capire fino a dove arriva la “colpevolezza” dell’altro e fino a dove invece è l’”ignoranza” a muovere le sue azioni e i suoi pensieri. Ciò è possibile in quanto la stima è giudizio che vive all’interno della logica che il bene è in parte nella volontà dell’essere umano, e in parte gli sfugge dalle mani.

L’atto concreto di stima nei confronti dell’altro non è “una tantum” ma si perpetua nel tempo, deve rimanere vivo nel tempo: per stimare bisogna anche sapere “stare fermi” e aspettare che il nostro giudizio maturi e che non venga preso dalla necessità della soluzione.

STIMA IN SE STESSI

La stima in se stessi ha indubbiamente a che fare con l’essere e con l’essere stati amati / essere ed essere stati considerati tanto nel nostro essere quanto nelle nostre manifestazioni.

L’altro si fida del nostro “essere” come forma continua e duratura del nostro stile nel mondo. Ognuno di noi ha un proprio stile, che l’esperienza di vita gli fa acquisire e gioia e dolori determinano nel carattere. Ogni stile, in questo senso, ha un proprio carattere. Io direi che ogni uomo “è” il proprio stile.

All’altro noi offriamo, nel senso della stima, il nostro stile che costituisce per lui il maggior punto di appoggio perché offre all’altro la stabilità della continuità della sua natura e della durata nel tempo del nostro “essere per l’altro”.

Io traggo grande vantaggio dal capire, pesare, stimare, giudicare lo stile dell’altro perché costituisce la sua presenza “per noi” nel tempo.

Poi la stima dell’altro noi la abbiamo dalle sue “azioni” che sono corollari e accessori del suo stile ma sono anche il reale e possibile “contatto” che noi abbiamo con l’altro. Difficile conoscere l’”essere” dell’altro, più facile intenderne le azioni. Allora le azioni sono i veicoli attraverso cui passa la stima reciproca nella relazione, ma anche si sviluppa la stima per noi stessi.

Lo stile è la stabilità nel tempo attraverso la quale si rafforza il pensiero dell’altro e con esso la possibilità della relazione di stima.

Io ti stimo nel momento in cui tu mi offri “stile” e “azioni”, intese proprio come insieme di sostanza e forma dell’essere umano. Il merito ha poi a che fare con la reciprocità nel senso che se io attribuisco stima poi posso anche meritare di riceverla. Non è una questione di misura ma una questione di reciprocità. La stima si acquisisce, in sostanza, nella pratica dell’amore meritato, non in quella dell’amore garantito.

Stimare l’altro significa offrirgli costantemente una “opportunità”, anche in presenza dei cosiddetti errori (che fanno parte del nostro essere umano): tale opportunità, essendo riproducibile nel futuro, diventa una vera e propria ricchezza che io offro all’altro. Ricordo che non esistono ricchezze statiche/oggettuali, ma solo progettuali. La ricchezza ha a che fare con la “potenza” che io offro all’altro di poter produrre, e non nell’offrirgli un mio prodotto.

QUALITA’

Se io stimo una persona devo vedere nel suo stile un dato che abbia a che fare con la “qualità”. Ma qualità non tanto intesa come accessorio di una persona, bensì come la…pasta di cui è fatto: questa qualità ha inequivocabilmente a che fare con noi con il saper vivere e dare soddisfazione (sempre all’interno della pratica della “enkrateia”, cioè della misura e della temperanza).

Infatti noi ci fidiamo di chi è misurato nei confronti del piacere (non essendo nemmeno piacere un piacere smisurato). Chi è misurato nel piacere diventa per noi una garanzia (anche se questa parola, trattando di questioni umane, va presa con le pinze) per noi in quanto riguarda la relazione e soprattutto la sua conservazione.

Ovvio che chi ama un altro vuole principalmente essere ricambiato e questo avviene solo nella logica della stima. Amare è inevitabilmente pensare al bene dell’altro e amore è dunque amore del nostro pensiero che noi abbiamo per l’altro, nonché del pensiero dell’altro verso di noi.

Essere pensati e saperlo è la migliore forma d’amore. Infatti è quella della modalità infantile in cui vivere è vivere nel pensiero dell’altro ma soprattutto sentirsi amato “dentro” al suo stile e alle sue azioni.

Essere amati significa, nella pratica, essere “trattati bene”. Se la mia stima nei tuoi confronti può essere un antidoto alla tua dipendenza, ciò avviene perché chi è trattato bene stima l’altro non perché gli risolve i problemi, perché si sostituisce a lui (rapporto duale patologico madre/figlio) ma perché gli dà l’opportunità di darlo da solo (che è il vero dato di salute).

Poi trattare bene l’altro è più facile di quanto si pensi: basta avere cura di “non essergli di troppo” (e qui torna la qualità della “enkrateia”). Essere troppo per l’altro, nella pratica, significa voler fare “al posto suo”, portandogli via quella opportunità di fare da solo che invece sta alla base della stima; e sappiamo che è “da soli”, in brevissimi momenti, con la nostra storia per compagna, che si sente forte il desiderio di fare e di vivere.

OGGETTO

Quando il desiderio dell’altro è troppo forte nei nostri confronti, noi prima di tutto lo soffriamo, ma in un secondo momento intercorre un rischio: che noi vediamo nello stesso altro che ci desidera (troppo) quasi un oggetto.

Chi vuole soddisfare troppo l’altro forse rappresenta sempre un “oggetto” per chi viene soddisfatto, forse noi siamo soddisfatti da altre persone reali, però avvertiamo questa soddisfazione come un dato oggettuale.

Forse avere stima dell’altro significa anche accettare la “parte oggettuale” che noi facciamo di lui.

Avere un buon pensiero di se stessi, significa anche sapersi trattare come “oggetto”, e sapere prendere cura di se stessi e della propria persona e del proprio pensiero.

Cura del nostro pensiero significa, sostanzialmente…non avere pensieri (o non avere pensieri in più rispetto a quello produttivo). Il nostro pensiero noi lo possiamo curare anche sul piano morale attraverso il dialogo interno; quella che normalmente si potrebbe chiamare “coscienza”. Avere coscienza significa prendersi cura del proprio pensiero in relazione al bene che possiamo fare all’altro e dall’altro riceverne: avere rispetto per se stessi è avere rispetto per la “propria” regola morale, e solo in questo modo ce ne può derivare la stima.

Solo se noi sappiamo “pesarci” possiamo avere un dialogo con noi stessi, ovvero riconoscere la presenza e la voce della nostra “alterità interna”, e l’argomento di questo dialogo è quasi sempre la soddisfazione (che ne costituisce scopo e meta).

Soddisfazione non può esistere se prima noi non abbiamo avuto cura del nostro pensiero e non lo abbiamo “abituato” ad arrestarsi nella noia del ripetere a vuoto se stesso (pensiero improduttivo e patogeno).

Perfino ovvio precisare che cura del proprio pensiero è sapere stimare le opportunità e le possibilità proprie e dell’altro.

Se io ho fiducia in me stesso è perché ho un pensiero di futuro e di futuribile, una sempre nuova opportunità di vita, anche qualora la mia vita, in quel momento, mi stesso sottoponendo ad uno sforzo gravoso o ad una prova difficile. La stima esce dal superamento del dolore e della difficoltà, ovvero da quando noi ci siamo testati (o tastati).

La opportunità è poi sempre una questione di tempo, nel saper aspettare, da una parte, e nel saper “andare verso” dall’altra, senza che questo andare verso sia affanno né tantomeno ossessione, né tantomeno ordine superegoico.

L’opportunità/possibilità di cui parlo non è costituita da una o più “occasioni” che mi si presentano nella vita (tipo “carpe diem”) contingenti che io devo cogliere come non si dovesse perdere il treno giusto che sta passando, bensì uno stato, una condizione che mi vede “capace” di ricevere e di dare.

Molta parte della nostra cosiddetta “salute mentale” ha a che fare con la nostra capacità di accettazione del tempo e delle sue regole (accettazione della alterità).

Se io affretto il tempo divento un isterico, se lo rallento un melanconico.

Adattamento, qualità e stima sono declinazioni della salute.

TEMPO AL TEMPO

L’adattamento non è un cedere o un chiedere patologici, cioè dalla parte di chi patologicamente manca, ma è la sana mancanza stessa che viene fatta domanda. Il tempo non è un oggetto ma una agenzia: è una forma di alterità che ci “contiene” (anche se a volte ci sentiamo stretti, forse troppo stretti!).

Noi viviamo “dentro” al tempo e il nostro tempo è popolato da una infinità di alterità.

La nostra forza ha a che fare con il saper aspettare il tempo (quando c’è da aspettarlo) e di affrettare il tempo (quando c’è da affrettarlo) senza pretendere che esista sicurezza nella distinzione e nella nostra scelta. Non esiste sicurezza nella conoscenza e neppure sull’esito del tempo, che fa la sua strada anche indipendentemente da noi.

Nemmeno il tempo potrà dire se abbiamo fatto bene o male, ma solo il nostro “sentire” avrà questa capacità. In base alla soddisfazione che proviamo potremmo dire sul nostro bene o sul nostro male, considerando che l’antidoto alla malattia, e dunque anche alla noia, è la soddisfazione. Solo se io provo piacere, e non colpa, sto lontano dall’ansia, che è sempre pensiero di un pensiero, mai pensiero di una realtà.

Il tempo che passa può divenire un nostro capitale a patto che noi abbracciamo il concetto di finitezza e dunque di morte.

Allora il passare del tempo non induce stanchezza. Stanchezza è sempre stanchezza della volontà, della idea e della azione. Chi è stanco lo è perché ha perso il senso della stima nei confronti dell’altro, prima che di se stesso. Stanchezza è incapacità di adattamento, cioè il continuo, insistente, malevolo guardare le reciproche debolezze.

Chi si sente stanco non ha fiducia in se stesso perché la stima riguarda sempre una proiezione verso il futuro, e la stanchezza e melanconica (e non critica) constatazione del nostro passato. Chi si professa stanco lo fa soprattutto per evitare la relazione, a partire dalla relazione con il futuro. Tale esitamento è pluricausale ma dentro ci possiamo benissimo trovare inibizione-sintomo-angoscia.

L’”affaticato” di Freud è un melanconico, un melanconico che fa dello sfruttamento dell’altro la propria professione, professando il suo perverso diritto ad essere vittima, e dunque oggetto di ingiustizia.

E se facciamo attenzione questo tipo di stanchezza è proprio quello che ci deriva dal pensiero di essere stati oggetto do ingiustizia da parte dell’altro, come se l’altro ci avesse “sfiancati” con la sua azione e noi non riuscissimo a trovare il senso della nostra.

E chi può amare un soggetto stanco? Nessuno. Nessuno riuscirebbe ad assumere su di sé, nella logica dell’amore, un peso morto. Magari in quella della pena o della compassione, ma non certo in quella dell’amore.

Possiamo allora considerare la stanchezza un dato morale? Certo, nella accezione in cui ne sto parlando la stanchezza che è imputabile al pensiero del soggetto è un dato morale, proprio perché sta nel registro della volontà: è stanco chi ha scarsa volontà.

Esiste una legge morale che ci chiama ad agire per il bene dell’altro (e solo in questo modo ce ne viene del bene): per questo il fannullone è prima di tutto un immorale e dunque non può avere stima in se stesso.

Anche il pensiero di crisi è un pensiero di stanchezza, proprio perché non ne comprende la accezione della uscita. La crisi è tale proprio perché ci manca il pensiero che essa possa finire, altrimenti sarebbe lavoro. Pensiero di lavoro che costituisce vera e propria ricchezza che si oppone alla stanchezza. Ma esistono molti momenti nella vita in cui il pensiero razionale non ci sorregge: non ci rendiamo conto del perché della perdita di entusiasmo e della fiducia in noi stessi, non ci rendiamo conto del motivo del timore, che a volte è un vero e proprio panico, della perdita strutturale della nostra personalità, della destabilizzazione .

La non stima in noi stessi è sempre molto vicina al timore/panico di perdere parte o l’interezza della nostra personalità e diventiamo dipendenti da questo pensiero.

La stima invece è visione d’assieme sulle nostre questioni che contengono il buono e il tristo: non possiamo perdere il tristo e combatterlo, come non possiamo dare per scontato il buono: lo dobbiamo vivere nel momento e nella interezza del suo passare.

Stima è cogliere l’occasione che ci passa accanto, della quale ci accorgiamo solo se siamo pronti all’incontro: potrebbe passare tra dieci anni o potrebbe essere passata dieci anni fa, e non ce ne accorgeremmo né ce ne saremo accorti. Le occasioni si colgono solo quando si è pronti, maturi per il momento e la soddisfazione. Siamo per il mondo, e non dobbiamo mai sottovalutare la opportunità di essere vivi. Quando siamo stanchi è perché temiamo la perdita, temiamo che le occasioni per la nostra soddisfazione non si presenteranno più: la stanchezza è il pensiero di futuro senza spettanza di soddisfazione. Direttamente proporzionale allo stato di indipendenza e di autosufficienza.

OSARE

La stima è umiltà (nella visione d’assieme di noi stessi) che siamo vincenti. Per essere vincenti è necessario “osare”. Osare è un bel verbo in quanto si dirige verso un reale allontanandosi dall’immaginario: io oso per un sano “di più”. Osare comporta conseguenze e proprio per questo è reale, e proprio per questo può essere fatto. L’immaginazione non ha queste caratteristiche. Osare è di fatto l’avvenire di una volontà. La nostra volontà è il nostro essere, “volo ut sis” affermava Agostino. Tuttavia noi cogliamo noi stessi non nel momento in cui “siamo”, ma in un tempo successivo. Deve passare del tempo dall’”aver fatto” e il coglimento di quello che davvero abbiamo fatto. Osare è il primo momento, non a caso la stima che uno ha per se stesso parte dalla esperienza, ma ha bisogno del tempo della sedimentazione per diventare ricchezza.

Stimiamo quello che riusciamo a fare e “dopo” stimiamo noi stessi: è quando si insinua il dubbio, la indeterminatezza, la precarietà, il pensiero negativo che è più difficile per noi reggere la stima in noi stessi (e dunque osiamo meno).

Guido Savio

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