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ABU SIMBEL: IL SINTOMO DEI COLOSSI

ABU SIMBEL

IL DIRE DELL’ALTRO

Ben fatto che il dire dell’altro noi lo prendiamo come nostra recipienza (corpus recipientis) in confronto (e anche rispetto) del dolore dell’altro, o anche solo della sua smania di parlare.

L’altro dice bene che io non devo pensare ai miei mali se voglio stare bene: tanto so che non ce la faccio.

La accettazione della mia debolezza mi aiuta a vincere il sintomo (che è compromesso e dunque mi aiuta contro l’angoscia).

Quando l’altro mi parla, riesco io a sentire il suo pensiero “amico”? Nella amicizia non c’è sesso e dunque le cose sono sempre più facili. La domanda di fondo che noi tutti ci poniamo è come mai, sapendo quale è la strada per stare bene, scegliamo inevitabilmente quella dello stare male. Io so che se penso al mio male (futuro), me lo tiro addosso, non ci sono dubbi, fino al tumore (ma non tutti i tumori vengono dal pensiero di averceli!).

Ma allora come può passare il sintomo da pensiero ad atto che mi consuma il corpo?

La nostra vita è sintomo, ansia, angoscia, aspettativa, speranza, rischio…. La mia vita è l’”oggetto” che io e che altri vogliono che sia. E tra questi altri includo anche i miei stessi pensieri: se mi penso “speranzoso” vivo con leggerezza: Se mi penso “destinato” mi vivo con la morte nel cuore.

Allora dove è l’inghippo? Di fronte ai colossi di Abu Simbel il senso è che tutto può accadere, che la morte è un accidente, e che la vita è valida solo perché ci permette di intendere che la morte è un accidente, altrimenti, sappiamo, sarebbe l’angoscia.

Abu Simbel è il posto del vento e del cambiamento repentino. Ma fino a che punto la giostra si può spingere nella nostra sopportazione? Le giostre del Prater non sono quelle di Abu Simbel: lì hai l’esperienza che puoi essere spazzato via per sempre. Ma è un pensiero da “turisti”, tanto non è mai accaduto e mai non accadrà che uno venga spazzato via dal vento (Elia forse?).

IL DOLORE PASSEGGIA

Ma allora come passa il dolore, quello dello spirito e dell’anima? Come passa il dolore del corpo? Perché in tutte le psicopatologie c’è sempre l’ “insistenza” del dolore? Sta di fatto che quando il corpo sta bene, noi stiamo bene, e quando il corpo avverte un sintomo, tutto il nostro pensiero è assorbito e valorizzato dal sintomo stesso.

Dove e come allora intervenire nel nostro pensiero (altri luoghi di intervento non ne abbiamo). Il pensiero che interviene deve essere superiore alla coppia bene/male perché noi ci allontaniamo dal sintomo solo se non pensiamo se stiamo bene o stiamo male ma pensiamo ad altro (senza cascare nella angoscia, dalla quale il sintomo protegge).

SINTOMO

Il sintomo che più disturba è quello della “visualizzazione” dell’organo del nostro corpo che sta soffrendo: ovvero quando noi ci fissiamo, vividamente, sulla anatomia che conosciamo del nostro corpo e applichiamo la logica della causa/effetto: se il mio corpo sta male… vuol dire che ne esiste una causa psichica, endogena.. Ma sappiamo che questa logica è estremamente soggettiva e quindi estremamente soggetta ad errore.

Il sintomo produce sempre una certa “invalidazione” del pensiero, in quanto “non ci rendiamo conto” della “logica del passare dallo psichico al somatico, della logica che da una nevrosi ne può venire un tumore.

Questo sintomo, come i colossi di Abu Simbel, con la loro stessa presenza, ci proiettano nel regno della morte: che non è un regno del tutto estraneo a noi, ma è un regno al quale noi abbiamo qualche difficoltà ad avvicinarci: in quanto regno, in quanto noi sudditi e allora passivi di fronte a tutto quello che gli dei del faraone possono dettare.

Tutte le parti “buone” del nostro corpo, comprendono e inglobano il sintomo (nel senso che ne sono superiori) eppure noi facciamo fatica a renderci conto di questo.

Il sintomo è sempre una distrazione, nonché una fissazione: una fissazione sull’organo malato e una distrazione dall’insieme degli organi sani.

Il sintomo entra pure nel sonno, non solo nella veglia che ci fa stare vegli, attraverso il sogno. Il pensiero del sintomo ha una “coda” molto importante nel momento in cui si insinua nel sogno.

Eppure sappiamo che con i sintomi si deve convivere e sappiamo anche che noi tutti abbiamo sintomi e i sintomi sono guaribili soltanto distaccandoci da essi. La “distrazione” dal sintomo è determinata da “altri” pensieri che possono avere a che fare con la diminuzione del sintomo nella scala della importanza che noi diamo al nostro vivere o al nostro morire: di fronte ai colossi di Abu Simbel si coglie solo il terrore della morte e la mastodonticità (da mastice) di attaccamento alla vita: più il vento soffia, più noi ci sentiamo in pericolo, ma anche assaporiamo il suo piacere.

NON AVERE PAURA

“Non avere paura” è la massima della massime: non avere paura che il sintomo abbia la meglio, ma non volere anche a tutti i costi che il sintomo scompaia, perché se sparisce, tu potresti anche sentirti perduto. Vivremo sempre, come i colossi di Abu Simbel, che tanto l’uomo ha fatto per trarli fuori dalla morte. E sono solo pietre. Pensiamo a noi che siamo carne, carne umana, carne di dio.

VISIONE GLOBALE

La visione globale del nostro corpo è la nostra vita, è la salvezza: chi non si vede nel proprio tutto è perduto: chi vede cento anni prima e cento anni dopo è salvo. Chi arriva a vedersi duemila e ottocento anni da prima che è nato, sopravvive: nel presente.

Per questo il “presente”, il senso dell “hic et nunc” è fondamentale: esiste il sintomo, ma a me che me ne frega, intanto il mio corpo vive e vince (il sintomo stesso): il mio corpo ha dei buoni pensieri perché sa reggere bene il peso che il sintomo grava su di lui: ma ormai lo abbiamo capito: il sintomo è la salvaguardia dalla angoscia: il sintomo è dolore ma vita.

Questo non significa la accettazione di ”quello che avviene” ma significa la “accettazione attiva” del nostro stesso destino. “L’orizzonte degli orizzonti è il destino della verità” afferma Emanuele Severino in “L’identità del destino”: ma l’orizzonte è la peribilità/imperibilità dei colossi di Abu Simbel: tanto hanno fatto gli uomini per tenerli in vita.

Ma esisterà un momento nella nostra storia individuale o universale, in cui noi sapremo curarci non “dal” nostro stesso sintomo, ma “con “ il nostro stesso sintomo? Non è solo una questione di conoscenza, ma è una questione del funzionamento del nostro inconscio: mi curo con il mio sintomo significa che “mi curo non con me, né da me” , dalla mia stessa incapacità di volere l’altro. Di riconoscere la sua infinita irriducibilità a me.

Ma sarà poi possibile che io mi curo dal sintomo da me? Assolutamente no, Io mi curo dal sintomo nel momento in cui mi trovo a ridosso del male e me lo levo di torno pensando a te. E’ la logica di tutte le terapie.

E’ la logica dei colossi: loro non ti dicono niente, ma ti lasciano intendere che a fare del male si ha dal male e a fare del bene si ha del bene. Dei quattro colossi, uno è un po’ azzoppato: questo a me ha molto fatto pensare: ovvero nella perfezione/imperfezione del dio, esiste posto per tutti: anche per gli storpi.

SOGNO

Il sogno spesso è liberatorio da una tensione, da una grave tensione. Il sogno è una palestra: noi dovremmo abituarci alla sua lettura in questo modo. Papale papale: il sintomo è la miglior cosa che noi possiamo avere. “Cura, dimmi, esiti dentro di me?”

Con il sintomo possiamo curarci? Ma non con quello dell’altro. Con il nostro, quello che ci fa soffrire e a volte ci porta a morire.

Il sintomo ritorna? È una ambascia della nostra vita? Noi “torniamo” al sintomo per soffrirlo? Oppure anche per rendercene emancipati?

Si sta sempre nella incertezza: di quanto il sintomo sia forte. Più forte di lui è il pensiero che “lo sto generando un ‘mostro’ dentro di me, e che proprio per questo farò una fatica boia a togliermelo di torno”.

Il pensiero che il sintomo sia un nostro prodotto interno (e così è) a volte sconvolge. Certo che nei momenti in cui la vita ci sorride, è difficile parlare al sintomo, come a un evento normale e non come a un dato che inevitabilmente e necessariamente va verso la morte.

Il secondo pensiero economico è che esiste “ correzione” alla nostra “reperibilità”: chi sa dove noi siamo? E siamo certi che se lo siamo, siamo noi ad essere là?

Difficile perché la sete di sopravvivenza di uno dei quattro colossi di Abu Simbel spiazza tutti. Non ci dà tempo per il tempo, né noi avremmo il tempo, non avremmo il tempo per capire (dove siamo).

La nostra salvezza è ancora il nostro pensiero dalla appartenenza a un tutto. Un tutto che in qualche maniera, per pietà, compassione o dimenticanza, ci risparmi dal dolore.

ESISTE UN PIACERE MAGGIORE CHE LA ESPIAZIONE DELLA COLPA?

Ma il piacere maggiore è l’estinzione del dolore (ce lo insegna Socrate con la sua cicuta e con i suoi ceppi ai piedi): la attrazione al dolore è una forza immane alla quale credo che gli uomini facciano fatica a fare fronte.

Maggiore è questa tentazione quando la solitudine è presente, in quanto è il nostro stesso pensiero ad essere solo. Che cosa significa che il mio pensiero è “solo”? Solo che non ha capacità di produrre una alternativa, non sa ripararsi da se stesso.

La riparazione non è la riparazione del dato oggettivo, ma la riparazione del pensiero che “si sente solo”. Il nostro pensiero quello che passa dal particolare all’universale, quello che non si ferma sulle fesserie.

E quanto pensiero noi dedichiamo alla attesa della cessazione del dolore? Tempo infinito. Tempo delle forma finita della nostra vita stessa.

E quanta attenzione porta il nostro pensiero al momento in cui c’è la cessazione del dolore!

Ma la attesa può essere eccessiva e allora noi non reggiamo più: se il dolore tarda passare tarda anche a venire. In noi, esseri umani, la valutazione della portata del dolore è fondamentale.

Guido Savio

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