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IL CAIRO: CITTA’ DI ANIME

IL CAIRO: CITTA’ DI ANIME

DOMANDA FARAONICA

La domanda del faraone è: “ Chi saranno mai questi che mi aspettano dopo la morte?”

La nostra vita è una continua domanda nei confronti dell’altro e di come sarà il nostro futuro nei confronti dell’altro, perché l’altro rappresenta il nostro futuro e la nostra aspettativa.

La aspettativa, qualunque essa sia, occupa il pensiero e dunque tiene lontano dalla malinconia e dalla angoscia. Noi possiamo anche pacificarci contribuendo all’allontanamento del pensiero dalla fonte del corpo che determina la angoscia e la patisce sulla pelle.

Così, come per noi, la domanda di tutti i faraoni è quella di che cosa sarebbe successo dopo la morte, di quale sarebbe stata la aspettativa oltre la morte.

Nel corso della vita c’è affidamento al dio e dunque fiducia nella conservazione. Ma anche per i faraoni il tempo detta la sua legge e matura ciclicamente le sue cose, in un suo esternarsi che non guarda in faccia gli uomini e nemmeno i faraoni.

Questa aspettativa di “ciò che sarà” non può essere solitaria, non è umanamente sostenibile. Noi non possiamo aspettare senza “qualcun altro”, così come stare bene è stare bene con qualcuno: da questo punto di vista la civiltà egizia ci ha insegnato come questo qualcuno possa avere a che fare con oggetti. Noi infatti possiamo avere relazioni con oggetti. Ma sempre relazioni.

Anche nella relazione con l’oggetto il bene, se si vuole, il bene sommo, non può avere a che fare con una materialità inerte. Anche la materialità inerte è oggetto di relazione. Ciò che non è oggetto di relazione è la manipolazione dell’altro, qualunque e chiunque esso sia, ovvero la perversione.

E’ perverso che riflette sull’altro l’impotenza della propria relazione, che non ha pensiero che per se stesso nel sovvertimento della regola che della salute dice di pensare all’altro

Non si può godere da due parti. Si gode da una parte sola. E capiamo qual è la parte giusta nel momento in cui godiamo.

Il tempo può essere fonte di angoscia, ma è l’unico contenitore dell’angoscia che noi abbiamo (a ben usarlo= godere è sapere controllare il tempo)

IL DIO

Ma chi più fa avvicinare al dio, al dio di faraoni, o al dio di Abramo e di Isacco? VistE che tutte le crudeltà la risposta sarebbe persino facile: la paura. Ma anche la crudeltà del dio è fin troppo nota.

TRA PAGANESIMO E CRISTIANESIMO.

Nella vita di consersazione con dio, quale è il momento in cui un bivio si mette in mezzo? Quando dobbiamo dire “o di qua o di là”? La quale è la cosa che di frequente avviene nella vita di ognuno? La angoscia.

Quando dio rompe con l’uomo, e non ci sono dubbi, anche se non ci sono chiari né i mezzi, né gli strumenti, né lo scopo, è la angoscia garantita: ma dio è il pensiero che noi facciamo su di lui

Anche per i faraoni in tempo maturava ciclicamente le sue stagioni(Era questa il loto potere).

La domanda laica da tremila anni dopo è se i faraoni aspettassero da soli, o avessero bisogno di una “relazione” che aspettasse con loro (Anche se ho dei grossi dubbi che i faraoni avessero relazioni).

Pensiamo in fin dei conti che la civiltà egizia era una civiltà sostanzialmente materialista in cui il rapporto con l’oggetto trovava la sua massima espressione nello “stare bene assieme all’oggetto”.

Il senso della piramide trascende il senso delle singole esperienze.

SENTIMENTO OCEANICO DI CHEOPE

Era orgoglio per tutti i contadini della valle del Nilo dare tempo e sudore per la costruzione della piramide. Gruppo, competizione, annullamento, senso di morte… tutto si mischiava nel loro sforzo.

Forse il nostro spirito sta nell’inchiostro di una penna nuova? Probabilmente sì- lo spirito del nuovo sta nel vecchio, e lo spirito vecchio sta nel nuovo.

Fose l’anima ha mille modi per capirsi? Forse l’anima ha mille modi per uno. Non lo potremmo mai sapere. Il pensiero che sia immortale dentro di noi lo dobbiamo tradurre (translare) dentro di noi: che nessuno ci rubi la prerogativa di essere giudici di noi stessi.

ANIMA O ANIME?

L’anima è un tenuto per l’aldila, quando all’aldilà noi siamo un pensiero che “qui non basta”.

Che poi il paradiso mi dia qualche cosa che ha a che fare con la mia anima è la scommessa pascaliana, e non solo sua: viviamo nella nostra vita tra retribuzione e distribuzione (della giustizia).

Se il tempo è nemico dell’uomo moderno (nel senso che può portare angoscia), allora che quel tempo venga: noi non abbiamo paura. E poi la domanda è se noi siano davvero capaci di essere eroi di fronte alla angoscia, come i faraoni che pensavano continuamente al loro “non poter sbagliare”: eroici: ovvero sapevano sopportare il dolore (fino alla morte). Invece sbagliamo e non capiamo che l’errore è la nostra forza.

Ma abbiamo noi una sola anima o più anime? Andiamo all’aldilà da soli o con tutti quelli che ci hanno in vita amato? Certamente differenza non esiste. Nel Nilo non c’è la soluzione a questa domanda: nel Nilo ci si porta via tutto, nel Nilo c’è la angoscia solo di uomini che volevano vivere in eterno.

Che cosa ne facciamo allora noi della nostra anima? La lanciamo nel futuro? L’anima è tanto “tempo” per l’aldiquà quanto è tempo per l’aldilà. Almeno lì ci darà la patta?

Noi abbiamo bisogno di oggetti. Veri: carte, computer, albero, foto, musica, figli, etc. come i faraoni avevano bisogno del tempo che l’oggetto portava con sé: era un tempo contro il tempo vuoto, era il tempo contro l’angoscia: noi siamo soli e possiamo aiutarci da soli o con gli altri o con gli oggetti (che sempre altri sono).

IL BENE COMUNE E’ UN SENTIMENTO OCEANICO?

In realtà il bene comume non è bene dono del dio ma è un dono del pensiero che noi facciamo a noi stessi. Anche se fossimo tutti contadini , come le corvèè, a costruire la piramide. Tanto che mi importa se il mio tempo va alla semina oppure alla edificazione del tempio?

Alloraa c’è da chiederci davvero se il sentimento oceanico, come lo intendeva Freud avesse a che fare con una onesta solidarietà anzichè con una perversa ammaliazione.

“Forse la nostra anima sta nell’inchiostro di una penna nuova”.

Forse che l’’anima che i faraoni in mille modi cercavano di rendere immortale era il nuovo e continuo pensiero con cui noi dobbiamo introdurre la morte dentro di noi? Ne dubito-

Il vecchio che ritorno è solamente, per antichi e moderni, la notte che segue il giorno e il giorno che segue la notte: è logica, è materia, è legge e dunque salute: io vivo sano nel momento in cui intendo che la mia vita non è il “particolare” sul quale mi fisso, ma è la partita di calcio che durta fino alla fine. Non per niente il filosofo Boscov diceva che “Partita finisce quando arbitro fischia, oppure, “”Rigore è quando arbitro dà”. Il massimo del principio di realtà, esulterebbe Freud!

Perchè esista un prima e un dopo è necessario che il prima sia completamente “consumato”.

LA STORIA SI RIPETE

La storia si ripete e si ripetono anche i nostri errori, eppure noi progrediamo: non siamo né all’età della pietra né al medioevo. Ma allora che cosa possiamo intendere come “rinascita”? Certo il passare dal prima al dopo ma nello stesso tempo una forma di conoscenza. La conoscenza è il laciare un “cattivo” comportamento per assumerne uno di nuovo, anche se le caratteristiche del prima” non possono né devono andare perdute

Chi siamo lo rimaniamo per sempre, anche se la vita ci cambia.

La vita spesso ci chiama dalla sofferenza a dare un senso alla sofferenza stessa, cioè alla libertà. Libertà assoluta non esiste perché l’esperienza ci impone gli stessi errori.

Che sia mai questa la maledizione dell’uomo a capire l’errore e a non volerlo sapere-volere-potere correggere?

E se la propria debolezza, detta all’altro, fosse un buco nell’acqua? Una patacca? Un falso giudizio? Ciò sta nella realtà. E’ il senso della vita: quello di correggere i nostri e gli altrui spiazzamenti.

IL dramma di tutta la psicologia e di tutta la psicopatologia è che noi “Ci tiriamo il male addosso”, non esistono santi né madonne che noi usciamo da questa logica perversa. Ma sappiamo che l’uomo è un po’ un esere perverso: è il “naturaliter mala et vitiata natura humana” di Luther.

Sta di fatto che il corpo sta bene o il corpo sta male nelle misura in cui noi sappiamo fare dei ragionamenti sul dolore. Il dolore è, ma non è sempre e non sempre vince.

Guido Savio

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