GERUSALEMME
I PROSSIMI CINQUE O DIECI MINUTI
Il nuovo che avanza, avanza comunque, malgrado tutte le nostre resistenze e le inibizioni ( che vogliono dire che mi sono tanto attaccato al vecchio da diventare vecchio prima del tempo). L’attesa del nuovo è dolce comunque, perché nella dolcezza sono comprese anche quelle attese che struggono l’anima e fanno il respiro corto perché non si vorrebbe che accadesse quello che ci si sente che accada. Morte compresa.
E il questo senso il nuovo poi diventa la attesa del fatto che avviene un cambiamento nella nostra vita che noi magari non avremmo nemmeno voluto, ma che ci ha voluto lui, e dunque noi dobbiamo adattarci.
Anche se il nuovo che avanza dovesse essere la morte è comunque un nuovo che ci porta fuori da quello che prima eravamo: dobbiamo essere disponibili al dolore: il nuovo ci ferisce e può anche destabilizzarci, ma in ogni caso ci stana dall’ora o dal giorno in cui eravamo prima: ed è solo questo il senso della vita.
Ovvio che chi ama il nuovo ama il rischio ed esce dalla inibizione e dalla patologia: afferma dentro se stesso che quello che deve accadere… accadrà.
Il rischio che la vita comporta è lo stesso senso di cui essa è portatrice: ognuno di noi deve crearsi un pensiero che i suoi prossimi dieci minuti saranno più soddisfacenti di quelli passati. Gli ultimi dieci minuti possono anche essere stati il massimo dello “sballo”, ma sono passati, e non si è sicuri che altri dieci ce ne aspettano. Ecco che la aspettativa è il senso che. L’accadere del nuovo, che di per se stesso, fisiologicamente e per definizione sono sempre i nostri prossimi cinque o dieci o venti minuti.
Non si misura la vita sui minuti. Ma anche. Il senso che noi attribuiamo alla vita spesso è il senso della paura: ma nulla toglie che dalla paura noi risultiamo viventi, vividi, vivi, – essere uomini – proteggerci – e, alla fin fine, non avere paura.
Ogni nostro buon pensiero è antidoto alla paura, alla angoscia. Non esiste paura della paura ma esiste paura della angoscia, che sarebbe perdizione del nostro tutto. E noi non lo vogliamo.
Chi vuole il proprio male? Nella psicopatologia molti, ma non sanno che stanno scegliendo il bene (nella loro psicopatologia).
OGNI PERSONA E’ FATTA IN UN CERTO MODO (IL SENSO DELLA VITA E’ ARMONICO)
E sta a noi questo rispetto, pena la perdita della relazione: le cose che si fanno in armonia sono sempre le migliori, quelle che danno buon pro. Le cose che non rientrano nell’armonia sono rami di un fico che vanno tagliati. E quando (giudizio) si taglia, non si torna indietro: la chirurgia ricostruttiva è ancora un mito. Le cose che si fanno in armonia sono le migliori, e sono quelle che portano a buon frutto.
La armonia è senso, senza armonia difatti è il caos assoluto e animalesco. Gli eventi accadono e io li accetto. Ci posso anche mettere le mani. Gli eventi, in sé e per sé non sono armoniosi, ma li rende armoniosi in mio giudizio che li cuce: “Esci dal tuo silenzio e va a parlare nella piazza!”
Le cose, tanto, si determinano da sé. Allora perchè lavorare ed opporci? Non è che già tutto sia statibilito, ma io devo andare in cerca io dello stabilito per capire che le cose che accadono sono armoniose. Altrimentio per me è la angoscia.
ATTENDERE
E la massima virtù e il massimo dono che uno, nella relazione con l’altro, può portare: stare tranquillo e aspettare. Aspettare che cosa? Che l’altro gli dia il senso del proprio essere, visto che da soli non ne siamo capaci. La salvezza non è un dato, nemmeno un fine e tanto meno una meta: è vivere il tempo qui e ora.
Nella mia salvezza l’altro può essere attivo tanto quanto lo sono io. Non è necessario che andiamo a braccetto o ci diamo bacetti. Ma è l’altro che mi insegna l’attesa (ed io sono solo) per arrivare alla condizione del senso: che se ci mettiamo assieme ci salviamo, altrimenti periamo.
Dobbiamo dare un senso fino in fondo alla realtà, e questo può costare anche tanta delusione. La soddisfazione deve regnare sovrana. Esiste un momento della mia vita in cui io ho atteso il futuro, ho atteso, ho pensato al nuovo che arriva, senza pensare al pensiero di soddisfazione? Senza provarci gusto? No, mai.
CECITA’
“La cecità è un’arma contro il tempo e lo spazio; la nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità tranne quel poco che riusciamo a cogliere con i nostri miseri sensi – miseri sia per la loro natura, sia per la loro acutezza. Il principio dominante del cosmo è la cecità. Proprio essa rende possibile la presenza, l’una accanto all’altra, di tante cose che non potrebbero coesistere se si potessero vedere reciprocamente. Essa permette di ritrovare lo scorrere del tempo quando non si è in grado di tenervi testa. Che altro è, per esempio, una spora, se non un frammento di vita che finchè dura s’avvolge nella cecità in attesa di un contrordine? Il tempo e’ una grandezza continua e c’è solo un mezzo oper sfuggirgli. Astenendoci di tanto in tanto dal guardarlo, lo si frantuma nelle schegge che di esso si conoscono (Elias Canetti, Auto da fè, p. 83-4).
TACERE
Fino a dove noi possiamo spingere il tacere il nosrtro essere, affinché il nostro essere non sia avverso a noi stessi? Affinché non ci faccia del male? Affinché, come tanto detto in altre sedi, noi non ci facciamo soffrire?
Se io parlassi all’altro del mio male, l’altro capirebbe il mio male o il mio parlare?
Io non voglio caricare l’altro del mio male reale ma non sono sicuro che l’altro sappia distinguere il mio bisogno di parlare del male che lo sottende.
In ogni caso è meglio che se io soffro per me, è meglio che non ci siano tante parole a dirlo. Esistono infatti nella vita di ognuno di noi fatti, atti, aventi segreti che è meglio che io li dica tra venti o trenta anni: al momento li devo tacere.
Ogni evento ha bisogno di tempo per essere letto (è la differenza tra la cronaca e la storia).
Ma ogni nostro tacere ha bisogno, in qualche modo, di un ascoltatore. Allora chi ascolta chi?
L’ ALTRO CHE AVANZA
Chi ha parola più giusta della mia?: nessuno. Ed è in questo momento che io piombo nella angoscia perché ho bisogno di una “voce certa” che non sia la mia ma quella di un altro che mi toglie dalla angoscia della mia domanda – Non ci leviamo dalla angoscia nel momento in cui pensiamo che la “voce certa” sia la nostra. Può capitare che il tempo ci sia avverso, nel senso proprio che “lavori contro di noi”: il timore del tempo vuoto porta alla angoscia. Ma noi non dobbiamo neppure lottare contro la nostra angoscia: in fin dei conti essa fa parte di noi, e lottarci contro significherebbe attaccare una nostra parte, magari la più intima, magari la più produttiva.
Ma se andiamo a ben vedere in che cosa consiste il “tempo vuoto” ci accorgiamo immediatamente che questo tempo è “vuoto” da altri, è il vuoto dell’altro che fa del nostro tempo un tempo vuoto, e dunque possibilmente angoscioso. E quando io non sono con gli altri, significa che non c’è realtà in me stesso, non c’è “l’essere se stessi” che richiama ai nostri limiti e alla nostre debolezze, anche se quando l’altro è con me io devo tentare di offrirgli il massimo della mia forza, della mia soddisfazione nello stare con lui e per lui.
L’altro è un beneficio per me nel momento in cui io non ho bisogno per forza di accedere a lui: l’altro è libero da me e io sono libero da lui nel momento in cui io posso farne e meno e lui può fare a meno di me: La accettazione dell’altro è la accettazione della possibilità del saperlo perdere, anche se non sempre siamo pronti a farlo. Tutto quello che vogliamo non possiamo.
Nel momento in cui noi possiamo amministrare la “pression (fretta)” del tempo, è un grande risultato. Per molta parte della nostra vita noi ci facciamo domande a cui non esistono risposte, e in questo modo possiamo correre il rischio di buttare via la nostra stessa esistenza. Mentre se passiamo per strada e troviamo un amico che ci ferma e ci dice: “Ciao, ti ricordi di me?”, è possibile che io esca un po’ dalla mia angoscia. Se poi magari ci dice: “Come abbiamo fatto a passarne tante assieme?” l’angoscia mi sparisce del tutto. La nostra capacità di adattamento è letteralmente infinita. Noi uomini abbiamo conquistato la terra, nel bene e nel male (non è questa la sede per disquisire) perché sappiamo adattarsi e in questo modo usciamo dalla angoscia. Ovvero ci adattiamo all’amgoscia per poter accedere a momenti di soddisfazione. Riusciamo a fare del male un bene.
Noi umani siamo “mostri” nella attrazione che abbiamo verso la vita, e nel sapere superare la stanchezza che la vita ci impone.
A ribaltare la stanchezza è solo il pensiero che ci chiama a “rendere conto” del nostro essere e ci fa capire come il “cambiare” rende possibile la questione della soddisfazione. La vita è una continua questione, è la Gerusalemme del sentimento, e invece il sentimento è l’unica risposta che noi abbiamo a questa domanda: “C’è sempre un altro che risponde al mio sentimento, che è la domanda della mia vita. Sentimento è “sentire” e non si sente se non ci si spoglia. Ma il sentimento è soprattutto “sentire uno scopo”, lo scopo della nostra vita, cioè la soddisfazione nella relazione,
Se il sentimento è sentire è sempre legato al sentire la relazione. A guardare da vicino “relazione” è “stare vicino a qualcuno. Soddisfazione è … amico-donna-situazione – condizione – realtà che occupa il mio tempo “ (e inevitabilmente lo trae fuori dalla angoscia. Per cui molto semplicemente la soddisfazione è stare bene con qualcuno. Il tempo matura le sue cose e nulla avviene senza che il tempo abbia deciso che: “E’ tempo”.
IL TEMPO SI CONSULTA?
Ma noi possiamo consultare il tempo?, Interrogarlo? È sempre stato il sogno dell’uomo, ma non è possibile. Interrogare il tempo è un arte difficile perché il ‘tempo’ risponde sempre dopo e non mai prima: quindi è inutile chiedergli qualcosa, indipendentemente dalla domanda. Per questo parliamo aspettativa dal tempo, ovvero Gerusalemme.
GUIDO SAVIO