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APPASSIONATI NOI?

L’UOMO CHE “PATISCE” LA PASSIONE

SULLA IDENTITA’

Dunque la mia identità si soprappone all’amore. Alla mia capacità di amare e di farmi amare. Nessuno potrebbe trovarmi da un’altra parte. Ed io stesso, fuori da questi parametri, mi perderei. Ho imparato, se davvero mia madre me lo ha insegnato, la mia identità, dal modo e dalla quantità in cui lei ha saputo ma anche voluto amarmi. Se io faccio un pensiero libero, questo ha a che fare con la risposta alla domanda: “quanto mia madre ha voluto amarmi”. La risposta alla domanda: “Quanto mia madre ha saputo amarmi” viene dopo. Prima noi guardiamo la volontà dell’altro su di noi, poi il suo sapere.

Vogliamo essere voluti: e questa è tanto” vuole il proprio bene, in fin dei conti rivolge una domanda all’altro. Non sempre ne riceve una risposta, o meglio, una risposta consona al proprio desiderio, . Tuttavia la costruzione della nostra identità ha a che fare con la accettazione della “risposta differente” dell’altro: è l’altro che mi educe alla accettazione della difformità tra la domanda del mio desiderio e la risposta del mondo. Il m io posto all’interno del mondo (che poi costituisce la mia stessa identità) è il mio sapere essere uomo di fronte al mio giudizio e di fronte al giudizio dell’altro.

Il giudizio al quale io sono chiamato dalle mie prime domande alla madre sul “ chi sono io?” sono le stesse domande (se io ho risposte) che mi emancipano dalla angoscia. La emancipazione dalla angoscia è il processo che il figlio compie nel confronti della “madre” in quanto detentrice “presupposta” della sua dipendenza da lui. Chi è libero (Dalla madre) è libero per un’altra donna: infinità di rapporti “coniugali “ falliscono perché questa regola non è messa in atto.

Tutte le orme di “attaccamento (padre/figlia-o, madre figlio-a, e chi più ne ha più ne metta, hanno a che fare con la questione della difficoltà economica di “staccarsi” dall’altro per vivere la propria vita. Chi ama non chiama. Chi è amato non chiede più di tanto. Tutto è finito e finibile. Questo è il pensiero di salvezza xhe viene sconquassato dalla nevrosi che dice che… solo se sono amato in un certo modo.. esisto., e’ ancora la questione della dipendenza: se io dipendo nella mia vita dall’altro che decide sulla mia vita… mujoio. Se io “sconfesso” (nella logica della affermazione della mia identità) l’altro che mi vuole tenere sotto il proprio nome per il resto della sua e della mia vita, allora vivo. <br<
Ed è anche vita serena e dolce, se dolce è l’altro che noi incontriamo nella nostra vita.

AUT/AUT e E/E

AUT AUT è la condizione che porta alla costruzione della esclusione. E’ regola, nel senso che, nella logica, o è così o è così (cioè l’opposto?). E/E non è una logica ma una convivenza, di parti anche contrastanti tra loro. Ma può anche essere la condizione della pacificazione Convivenza/pacificazione nel senso che anche gli opposti hanno logica nella “loro” logica:

la melanconia è l’ E/E, dove le condizioni inconciliabili convivono. La salute è l’ AUT/AUT dove la logica chiama al seguire la ragione. O da una parte o dall’altra, solo in quest5o modo sono affidabile per me e per gli altri.

Ma noi sappiamo che non siamo fatti di sola ragione, e allora la logica dell’ AUT/AUT si può mescolare alla logica dell’E/E.

“Tutto va bene”, direbbe Saba e anche gli illuminati ministri della chiesa dicono che la vita è la vita, tutto ciò che accade, nulla escluso, accade nel bene e nel male.

AUT/AUT è la condizione che porta alla logica o della inclusione o della esclusione. Molto vicina al “O con me o contro di me”. Si sta da una parte insomma, o dall’altra, ma le conseguenze sono imprevedibili.

E/E non è una logica ma un sistema di convivenza (forzata) in cui la legge del compromesso vige e regna. Non dà tutte le soddisfazioni che uno si aspetterebbe: non può coesistere il “quid” e il contrario dello stesso “quid”: Aristotele si arrabbierebbe.

Ma a noi questa questione non interessa tanto nella logica delle logica, ma nella logica del piacere e della soddisfazione. In quale regime noi possiamo vivere maggiore soddisfazione ? In quello dell’ AUT/AUT oppure in quello della convivenza dell’ E/E?

E/E non è una logica ma una convivenza delle parti, nella opposizione assoluta tra di loro. Eppure la loro coesistenza, logicamente incompatibile, rende possibile la vita e la relazione. Se io “lascio” all’altro il suo pensiero e non lo voglio ridurre al mio, vivo all’interno della logica dell’ E/E senza che questa convivenza crei sangue o lotta. Nel senso che c’è posto per tutti, e il posto sta molto oltre la stima del nostro pensiero La condizione della convivenza dell’ E/E può essere un viatico verso il benessere della relazione, ma non ne può essere una garanzia. Chi ama chiede anche delle garanzie, cioè che l’altro non sia E/E ma AUT/AUT. Ovvero da una parte o dall’altra, mentre sappiamo che le relazioni non vigono di questa regola.

In breve è che noi nella relazione, nella relazione della passione che ci lega all’altro, non possiamo escludere, non possiamo escludere tutto. Non possiamo escludere la diversità di cui l’altro è portatore. Allora la “logica” E/E è la logica della volontà forte verso la relazione. AUT/AUT non reggerebbe, perché non si possono escludere dalla relazione parti dell’altro. O meglio, si possono anche escludere, ma non misconoscere.

Chi ama non può volere e non volere nello stesso momento e nella stessa istanza. La logica chiede una scelta:: “Io ci sarò in ogni caso in cui tu mi sia modo di avere un fine per esserci”.

E io ci sarò nelle condizioni e nei momenti in cui capirò che le condizioni della salute sono quelle in cui io vivrò corpo e psiche miei e tuoi nella dimensione che diversamente non potrebbe essere, essendo che sono chiamato ad amarti dalla esclusività con cui tu mi poni la domanda.

ANGOSCIA

La angoscia è sempre un cattivo uso del tempo: l’uso del tempo teso al suo semplice passare: e allora il tempo non passa mai e diviene pesante fino al pensiero di morte alla quale tutte le forme di angoscia tendono. L’unica soddisfazione che l’angosciato può avere è quella di essersi “perso dentro” nel tempo, e dunque avere perduto quella dimensione di identità di cui tanto si è parlato.

La passione, al contrario, non è un perdersi (anche se tanta filosofia la ha definita tale). Passione è un lavoro di giudizio, quello che chiama ad inserirsi nel tempo, ma non tanto per “arrivare a sera”, bensì quello che mi porta a tutte le mattine susseguenti. La passione verte sul mio volere. La noia verte sulla risacca che porta alla omologazione, e dunque alla estinzione del mio stesso desiderio, nel senso che il mio desiderio o è mio o non è desiderio. Non sarà mai quello che l’altro ha individuato per me. Sarà desiderio dell’altro. Dell’altro sì ma non dell’altro qualunque. Dell’altro che io ritenuto degno della mia “ammirazione” e dunque del mio adeguamento del mio desiderio al suo. Nessuno inventa niente di nuovo: nemmeno gli oggetti del desiderio.

La noia non mi porta verso alcun lido della creatività ma mi ricaccia sempre nella omologazione in quanto io … sono debole di volontà, ho poca voglia di fare i miei interessi e aspetto che altri (la madre) li facciano per me.

La mia volontà mi salva dalla massa: io posso essere l’unico a fronte di mille altri che chiama con un nome la propria soddisfazione che è un nome diverso da quello che gli altri prununciano. Ebbene non conta. Il mio giudizio non deve essere quello “giusto”, o economicamente redditizio, ma deve essere semplicemente il mio. In base al quale io regolo la mia identità e la mia soddisfazione, che poi sono la stessa cosa

Amare se stesso come fine per amare l’altro, come sorprendentemente afferma Nietzsche. E l’amore per se stessi è il passaggio verso il giudizio, mio, unico, non necessariamente giusto che mi porta ad un mio “ordine giuridico”, anche di fronte alla massa. Ma mio.

Chi ama sa amare il proprio giudizio e in quanto tale ama l’altro.

Il giudizio è legame e nello stesso tempo distanza che la legge prevede: il giudizio non può essere: “Se tu che sei vicino a me, e stai bene, allora anche io sto bene per questo fatto”. Nelle dipendenza c’è certamente una pace, lo sappiamo tutti: quella del risparmio del lavoro (in merito al giudizio). Ma questa pace può anche essere mortifera in quanto mi esime dal chiedermi sulla distanza sana tra me e l’altro. Chi ama non ci si appiccica contro. E chi vuole essere amato non ama che l’altro lo invischi troppo.

L’altro dell’ angoscia, che non è felice, né soddisfatto, né umanamente preso da se stesso,… vuole solo una cosa: non esserci per nessuno. Se l’altro non è contento della nostra vicinanza, rompe con noi e ci può mettere lui nella condizione della angoscia (che è sempre abbandono e perdita).

E quando l’altro torna a pensare con i suoi pensieri e noi, e con le sue parole a chiedere ancora la nostra attenzione… noi lo accogliamo a braccia aperte. Perché? Semplicemente perche è sofferenza per noi restare soli, allora l’altro che ritorna è sempre il “figliol prodigo”: qui non facciamo tanta fatica a perdonare. Dipendiamo da lui? In questi casi se anche così fosse, tale dipendenza si potrebbe chiamare amore.

Ma se l’altro non è felice, sereno, e in pace con se stesso, come si dice, si ritira in se stesso, e allora non c’è possibilità né di dipendere né di dipendenza: c’è solo la rottura.

L’altro che non è soddisfatto dalla nostra vicinanza, compie nei nostri confronti un atto di abbandono da un lato e di narcisismo dall’altro che noi facciamo fatica a perdonargli.

E d’altra parte quando l’altro torna a partecipare con i suoi pensieri a noi, ed esce dal suo solipsismo, noi immediatamente lo accogliamo a braccia aperte.

Può essere anche questa una forma di dipendenza. Proprio perché ci ha procurato dolore in quanto ci ha “deluso” perché ci ha messo fuori dalla porta del suo pensiero; ha dimostrato, secondo noi, debolezza e fragilità di cui noi non siamo stati capaci di farci carico.

La condizione della “salute” e dunque quella dell’ “ordine” è senz’altro quella che recita la frase: “ognuno al proprio posto”, ovvero ciascuno sa stare in piedi da solo, e sa anche disinteressarsi dell’altro.

Quando l’altro ci delude è sempre vero che il motivo è perché noi su di lui ci eravamo creati una illusione precedente? Forse non è del tutto così: l’altro può essere “povero di natura” e allora ci deluderà in quanto noi lo abbiamo sovrastimato. L’altro può essere uno che nella realtà non ci dà un granchè, magari nemmeno lo stimiamo tanto, oppure siamo addirittura costretti a starci insieme.

A volte l’altro ci impietosisce con la sua assenza di talenti, a volte ci innervosisce. A volte ce lo vorremmo togliere fisicamente di torno.

Sta di fatto però che l’alterità dell’altro è sacra: nel senso etimologico del termine. Nel senso che se noi vogliamo l’altro troppo vicino a noi, certo lo perdiamo, anche nel caso riuscissimo a sottometterlo.

La “assenza” dell’altro presente, è lo stato relazionale che maggiormente ci ferisce (o ferisce il nostro narcisismo, perché pensiamo che l’altro povero, incapace, debole, “minus habens” magari, possa intaccare la nostra integrità o peggio ancora il giudizio degli altri su di noi. Eppure noi siamo “fondati” sul nostro giudizio, non su quello degli altri, anche quando questo giudizio riconosce onestamente che siamo assieme ad un “minus”.

Certo che dall’altro “povero” non possiamo avere ricchezza, è una legge economica, ma anche quando l’altro povero ci fa toccare il suo attaccamento a lui… noi risorgiamo: è una legge altrettanto economica. Allora la soluzione è che ognuno ha l’altro che si merita. E che se noi possiamo provare piacere, dobbiamo provare piacere, e se nel mondo esistono fautori di catastrofismi in merito alla soddisfazioni noi li dobbiamo mettere a tacere. Abbiamo una vita sola, e questo è tutto. E questa è tutta.

La povertà dell’altro potrà anche toccarmi, (ed io di conseguenza mi comporterò) ma non è colpa mia se non sono nato in una favela di Rio. E questo non ha niente a che fare con la felicità mia o del “nino de rua”. Tanto siamo tutti figli dello stesso Padre.

La vita è così e non diversa da così, ed è facile per noi parlare che siamo nati dalla parte buona.

Nella nostra dottrina economica favorevole noi siamo tali in quanto esiste sempre dall’altra parte un altro che ci “bilancia”.

Il sano. Il noioso non permette tanto: intasa tutto e prevede l’altro nella sua capacità di sorprenderci.

Il peccato del noioso, oltre che la superbia, è la presunzione, ovvero il pensare di sapere in anticipo come andranno a finire le cose. E poi le cose andranno a finire proprio in quel modo, cioè in un brutto modo. Il noioso è colui che fa finire le cose nel modo in cui le aveva predisposte. E se non ci riesce sella realtà, se ne illude con il pensiero.

L’appassionato invece è incerto in merito al fine delle cose e dunque “lavora” maggiormente per il futuro e sa accettare le risposte del presente (o del destino) perché sa che è solo assecondando il presente che si può “avere futuro”.

Il futuro non lo si governa, ma lo si asseconda. L’uomo della passione lascia che avvenga tutto ciò che deve avvenire nel segno della sua volontà. L’uomo della passione è colui che accetta di farsi “trattare” dall’altro, ma chiede anche di essere trattato bene. E fa questo perché ama se stesso e dunque chiede che l’altro lo tratti come lui è abituato a trattare se stesso..

Il nevrotico non vuole questo: il nevrotico non vuole essere trattato né bene né male, non vuole essere trattato affatto. Il nevrotico vuole fare da solo, ma si accorge che da solo non ci riesce perchè la sua forza è limitata e limitato è anche il suo campo di azione. Il nevrotico non ne vuole sapere che la salvezza passa attraverso il lavoro che un altro fa per lui. Questioni di onnipotenza.

La mia forza è relativa alla capacità che io dò all’altro di cogliere la mia forza.

(PADRE E FIGLIO) IL MALESSERE DELL’ALTRO

Il malessere dell’altro è un qualche cosa che noi cogliamo dentro di noi nel momento in cui vorremmo ascoltare, quanto l’altro capirà il nostro capire il suo malessere. Allora il suo malessere, forse , si potrà anche sciogliere. Il padre che non aiuta il figlio, non è un padre. Il padre che, con il proprio esempio, non insegna la passione al figlio, non è un buon padre. Il padre che fa della noia la bandiera del suo giorno, della sua quotidianità, non è un buon padre, e probabilmente farà ammalare il figlio. Il padre sarà il padre della passione quando avrà imparato a “patire” il figlio.

Il padre che offre al figlio la propria noia o solamente il proprio dolore è un padre che “annoia” il figlio e il figlio si allontanerà da lui nel senso che gli ritirerà la stima e il giudizio.

Il figlio è il senso che noi abbiamo saputo provare per un’altra persona e il segno che noi lasciamo sulla terra, ma questo “senso” il figlio lo deve continuare, diverso, all’interno della propria esistenza, costruendo a suo modo il suo modo di amare.

Il figlio ha spesso bisogno che il madre gli dia ragione, motivo delle sue esperienze di soddisfazione e così le parole dette dall’uno all’altro assumono il carattere del patto e della solidariertà.

Ogni essere umano è “limitato” al padre e nello stesso tempo (attraverso la passione), il padre è aiuto al superamento del limite.

Il figlio intelligente impara a regolare il contenimento del proprio desiderio da come lo vede fare nel padre, e nello stesso tempo impara a trarre dal desiderio il massimo della soddisfazione possibile, che sappiamo, …ne manca sempre una parte.

Invece il padre “attaccato” al proprio ruolo è “attaccabile” dal figlio che ne vede la debolezza patologica in quanto il padre non è l’essere passionale che dovrebbe essere ma un grigio rappresentante di un ruolo. Rappresentare un ruolo significa dipendere da esso esercitarlo per forza e con per amore puro verso l’altro. Come tutte le figure che scelgono “per lavoro” di fare del bene all’altro (facendone magari il malessere).

Il figlio conosce il padre là dove il padre non prende la passione (per la vita) “troppo sul serio”: non si debbono per forza raggiungere traguardi o mete, ma godere del lavoro che si fa per vivere: vivere il tempo.

POTERE E SODDISFAZIONE

La questione del “potere/soddisfazione” si pone massimamente all’interno della relazione d’amore: è maggiormente soddisfatto chi ha più “potere” all’interno della relazione o viceversa? Forse ha più potere quel soggetto che con maggiore facilità accetta di perderlo per poi riaverlo. Ma è “misurabile” il potere interno ad una relazione? Certo, è quello di saper avere e nello stesso tempo dare soddisfazione attraverso la proprio domanda: chi ha più potere più sa domandare. E come può avvenire, anche all’interno di una visione razionalistica, il riconoscimento del potere dell’altro: a- nella capacità di decidere; b- nella capacità di lavorare, cioè nell’usare il tempo come volontà/passione e accettazione della possibilità della perdita; c- nella volontà della accettazione di ciò che avviene; d- nella volontà del soggetto di vivere con “plasticità” nel momento in cui si riversa nell’altro. Allora avviene un reale passaggio di potere, il cui movimento in questo modo può poi diventare reciproco; e- nella capacità di ammettere le proprie sconfitte e soprattutto le conseguenze; f- nella capacità di farsi toccare dall’altro al di fuori della opposizione narcisistica (che qui potremmo anche dire “permalosità”). <br<
IL PESO

Maggiormente una persona “si attacca” all’altro, più questo ne sente il peso. Ma sente anche la mancanza se l’altro non si attacca abbastanza. La giusta distanza rimane il problema. Tuttavia noi nella passione, se non viviamo l’altro come possesso; può accadere che soffriamo, umanamente soffriamo in quanto ci sentiamo esclusi dal “pensiero” dell’altro (lo abbiamo visto in più occasioni).

La angoscia ha forme di strutturazione e di formazione che pescano direttamente nella “dipendenza” dal pensiero dell’altro ma soprattutto dalla “fame” verso l’altro e quindi dalla assoluta incapacità di essere soli. Anche la cosiddetta “permalosità” è una fonte della angoscia in quanto “scarta” il rapporto reale per prediligere un rapporto idealizzato. Il permaloso è il soggetto inibito, e in quanto tale portatore del pensiero di essere continuamente “in perdita”, con il desiderio (quello appunto che fa saltare la relazione) che lo vede affamato dell’altro senza sapere o comunque volere dare all’altro.

Più io mi “attacco” all’altro, maggiormente non accetto la regola dell’avvenire delle cose, dell’avvenire del futuro: chiedo e pretendo che le cose vadano… come dico io! Senza sapere reggere la diversificazione che il caso o il destino operano dentro alla mia vita.

Lasciare che le cose accadano come devono accadere costituisce poi un atto economico, di risparmio di energia, di rinuncia al pensiero patologico che devo essere io a controllare “tutto”. La logica del “dovere” non regge. Non regge neppure se io penso che per non perdere l’altro lo devo soddisfare “a tutti i costi”.

Dover soddisfare l’altro è il contrario della passione che invece chiede che l’altro, per ricevere la mia azione di soddisfazione nei suoi confronti, deve essere libero (di riceverla o di rifiutarla). Il Super-io disdice le regole fondamentali della relazione passionale.

Tornando alla questione del peso è tuttavia importante sottolineare come l’eccesso di “osservazione” o di “occupazione”, di “cura” se si vuole, nei confronti dell’altro può portare ad uno stato di pesantezza: l’altro avverte più che il nostro desiderio il nostro bisogno di lui, e allora si tira indietro, in quanto il “peso” che noi rappresentiamo per lui, potrebbe diventare troppo grave da portare. Questo può portare poi alla fine ad una perdita del reale “peso contrattuale” sul quale tutte le relazioni sane si basano. L’altro non si fida più di me come soggetto autonomo che sa stare al suo porto nella logica della indipendenza e della emancipazione del bisogno (dall’altro). Insomma è duro il fatto che l’altro dell’amore ci stia sempre con il fiato sul collo. L’uomo che fa l’uomo e la donna che fa la donna sono soggetti capaci di interessarsi all’altro senza pesare, e soprattutto senza perdere la possibilità della indipendenza e della autonomia (saper stare da soli, coraggio, accettare la perdita, il sapere sulla propria forza, la passione per la vita, la accettazione della morte).

L’uomo che non fa l’uomo e la donna che non fa la donna sono degli annoiati che non hanno forza per amare l’altro ma per amare solo se stessi. Amare se stessi comporta assai meno forza che amare gli altri. Ma amare se stessi indebolisce terribilmente!

L’UOMO DELLA PASSIONE

L’uomo della passione è colui che sa aspettare, sa tenere vivo (ma anche a riposo) tanto l’amore quanto l’odio. La faccia dell’uomo della passione e sempre la faccia di un uomo che sorride. Le parole dell’uomo della passione sono parole che dicono del bene (anche quando bene non è): se sono invitato a cena non dirò mai alla cuoca che alla minestra mancava un pizzico di sale!: questo è l’uomo della passione.

Sono ancora le parole di Giuliana di Norwich “Tutto va bene, tutte le cose andranno bene, malgrado l’incombente”. L’uomo della passione è colui che sa trattare a sa attraversare il dolore, anche se questo significa “arrivare alla fine della propria giornata”. L’uomo della passione è un uomo sereno di fronte alla parola “basta”: basta come momento della affermazione della propria identità (la ammissione del proprio limite); il basta “apocalittico”, ovvero ci si ferma per ricominciare, magari da un’altra parte; basta come frase della capacità di contenimento del proprio desiderio (non si può fare quello che si vuole); basta alle domande inutili (o anche basta alle domande in assoluto: basta il fare).

L’uomo della passione non è un uomo che ha smesso di sognare. Anzi il sogno è uno dei suoi segni in quanto lo fa trovare al suo posto e lui sa di trovarsi al suo posto nel momento in cui sogna. Il sogno serve sempre, in qualche modo, per raggiungere la soddisfazione in quanto il piacere è nel presente, tassativamente nel presente (anche se l’uomo della passione è un uomo che sa programmare il futuro): non posso pensare al piacere che verrà ma a quello che sto vivendo qui e ora. E soprattutto l’uomo della passione non è colui che trae piacere dal semplice oggetto perché sa che con l’andare del tempo potrebbe diventare una collezione.

Guido Savio

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