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NOIA E PASSIONE

OLTRE IL DISORDINE

Il caos è tutto ciò che non è scorrevole, funzionale mentre sappiamo che la “funzionalità” è la condizione della produzione della soddisfazione: dunque ciò che non scorre non può portare a soddisfazione, essendo prigioniero della logica del disordine. Il caos ovviamente non ha un proprio procedere autonomo né un proprio limite (trattandosi per l’appunto di caos). Il caos è l’indistinto e l’indistinto è la angoscia, la determinazione di alcunché.

Il caos è contro il procedere lineare del tempo e quindi anche contro il moto del capire: se non c’è tempo “stabilito” non è possibile il capire.

PER CAPIRE

E questo è un grande salto, perché per capire ci vuole forza. La forza dell’intelletto ma soprattutto la forza della volontà: chi capisce lo vuole, e vuole metterci forza nel suo atto. Questa forza del capire è appannaggio dell’altro: io la metto disposizione dell’altro nel senso che mi metto in ascolto: offro il mio tempo a chi mi dice: a chi mi dice di se stesso, che poi, semplice semplice, è l’unico argomento (di conversazione) che ci interessa: che l’altro dica di sé. Non tanto perché noi siamo “curiosi” della confidenza dell’altro, ma perché l’altro che mi parla di sé diviene un figlio come me, uno che fa delle domande, del tipo: “che cosa ne pensi di quello che io dico?”. O meglio: “visto che te lo dico, che cosa ne pensi di quello che io sono?”.

E allora “io sono quello che sono”, sta a te la presa nei miei confronti o il rifiuto. E’ l’altro che mi conferma la sua identità: lo sappiamo che diversamente non può essere.

LA PASSIONE

Ecco, allora passione è lasciarmi andare a qualcuno che mi chiama nel senso che nella sua chiamata io depongo il mio limite ad essere soddisfatto. Chi mi chiama lo fa per darmi piacere, ma desidera anche il mio abbandono: completo, nelle sue mani, anche se io poi lavoro di giudizio e in qualche modo giustamente mi proteggo dalla stessa mia fede.
>br> Proteggersi dalla stessa nostra fede è uno dei capisaldi della salute psichica: allo stesso modo in cui l’altro non può invadere il mio posto e dettare la mia legge. E poi non è nemmeno vero che io “detto la mia legge” ma semplicemente la “suggerisco” all’interno della dinamica della relazione.

Propongo: ecco il motto. Mi propongo all’altro per avere dall’altro beneficio dalla relazione che io gli propongo. La passione è lasciarmi attrarre dal beneficio che l’altro mi propone, anche se questo beneficio, all’inizio della relazione, tanto chiaro non è.

Passione è “ci credo fino in fondo”, (non è solo “patire l’altro) in qualunque modo mi dovesse andare,anche se strada facendo vedessi che le cose stanno andando male. In fin dei conti dove sta la soddisfazione se non nel lavoro del mio fare il bene che penso bene?. Passione non è oscurantismo o integralismo, né tanto miopia nella logica previsoria degli eventi: passione è andare avanti in quanto l’avanti è il moto della soddisfazione. Il moto della soddisfazione non è il traguardo ma il percorso. Il percorso è contrassegnato dal limite e il limite è sempre guarente l’onnipotenza. Sapendo noi che la fuga (nevrosi) è sempre fuga alla sanzione del limite.

“Salvarsi” è sentirci chiamato (ovvio nelle logiche terribilmente attuali dell’integralismo) a salvarci attraverso l’abbraccio con il limite. Se io mi salvo lo faccio perché ho un pensiero di salvezza attraverso il mio limite: se voglio strafare o stravincere cado irreparabilmente.

ALLORA IL CORPO

Allora il corpo che va alla ricerca della uscita dal proprio pensiero patologico è il corpo che “non si interessa” più a se stesso ma elegge l’altro è l’alterità, fonte prima del proprio bene. Più io riconosco la alterità dell’altro (la differenza del suo desiderio), più io ho ricchezza per riconoscere, accettare e perdonare l’errore dell’altro: io sono ricco se so del mio limite e dunque so del limite dell’altro. Il nostro corpo va sempre alla ricerca dell’esterno, del nno conosciuto, del limite e della frontiera oltre e dentro la quale conoscere se stesso e l’altro,

Chi non intende il limite abbraccia la astrazione, dunque la malinconia. Ad ammalare il gioco della vita è sempre il pensiero di astrazione, che appunto rende evanescenti le regole del gioco stesso e crea caos all’interno delle stesse.

L’ordine non è un sistema ma è una passione, e in ogni caso il pensiero di amore è un pensiero di ordine.

L’amore è un pensiero sul pensiero dell’altro su di noi. Ma questo è sano solo se noi accettiamo che il pensiero dell’altro sia “legge relativa” che solo nella relazione tra due possiamo protocollare.

Caos invece è se io mi “attacco” eccessivamente all’altro, se non gli do fiato, se lo lavoro ai fianchi. L’altro così non mi vuole né io mi faccio volere dall’altro. La leggerezza che costituisce la garanzia della relazione con l’altro è supportata dal superamento della dipendenza.. L’amore è pensiero per l’altro, anche nella versione umanissima che io vorrei che l’altro pensare solo a me. Pensiero questo da curare, ma pensiero in ogni caso umanissimo. Posso riconoscere che limite esiste, ma io, umanamente, faccio ancora tanta fatica ad accettarlo. Chi più si “attacca” all’altro nel senso della relazione, più ne è idealizzato, affabulato, si ammala della sindrome di Stendhal.

SUPERARE IL LIMITE

La relazione è chiamata, dell’uno verso l’altro. Allora all’interno della relazione può essere istituito il binomio Ideale/Patologico? E se noi superiamo il nostro limite, perché ne facciamo tanta ostentazione? Ed è allora la sana protezione del nostro pensiero teso al fare del bene a se stessi il limite sano della nostra esistenza? uscire, essere fuori dalla propria casa dalla propria istituzione di pensiero introflesso?

Ma quanto spesso la questione del limite si interseca con quella dell’irrazionale? Tanto. Lo vediamo in molti fenomeni di massa in cui il singolo si disperde nel gruppo e non ha più limite, neanche quello di proteggere se stesso, nemmeno quello di salvaguardare la propria pelle. “Quello che va fatto va fatto”. Quanto questo costi in termini economici al soggetto poco conta. Quello che conta è andare fino in fondo, e forse è anche questa la natura intima della tragedia: fino alla fine, fino alla distruzione, fino anche all’autodistruzione.. Spesso il superamento del limite ha a che fare con la ostensione del proprio dolore, con il fare vedere fino a che punto l’essere umano può spingersi nella sopportazione del dolore.

Il perdere di senso del proprio essere e del proprio posto esercita una grande attrattiva per l’uomo sano, non solo per il nevrotico. E questa forza è una forza attrattiva in quanto è un grande esercizio di potere: quasi si può oltre il proprio corpo, il proprio corpo potrebbe anche scomparire di fronte alla soddisfazione del suo sacrificio.

Il sacrificio viene richiesto a se stessi e non all’altro. Il questo caso il soggetto fa da altro a se stesso: “non ha bisogno di nessuno” e dunque si costituisce alterità egli stesso, per se stesso. Noi, per la nostra salvezza chiediamo all’altro di stare al proprio posto, e soprattutto di “non pesare troppo su di noi”.. Ma il soggetto sa difendersi anche dal suo stesso peso? Sa costituire sana alterità per se stesso in modo da funzionare come un altro quanto… ha bisogno di se stesso? Ci si salva con l’altro ma anche da soli (se sappiamo essere “altro” per noi stessi).

La frase che sancisce la alterità di se stesso potrebbe essere “io sono quello che sono” (frase del limite). Il contrario della frase “così sono, se vi pare”.

E come può poi il limite essere il nostro vero punto di forza dato che il limite, per essere tale, deve venire “valorizzato” (come un’opera d’arte) dall’altro reale? Come un quadro o un brano musicale o un’opera letteraria è ben poca cosa se non è posto di fronte al giudizio della alterità dell’altro, così anche nella relazione noi siamo ben poca cosa se non abbiamo un altro che ci valorizza a proposito, un altro che ci “conosce” e che intende le corde del nostro cuore.

LA NOIA

La noia (ovvero la perdita di senso della nostra volontà, e dunque la perdita stessa della volontà) è data allora dalla soppressione del limite che altro non è che il desiderio onnipotente del tutto (che equivale al desiderio al grado zero). Il limite consente la soddisfazione in quanto ha a che fare con la dimensione e la accettazione della propria parte. Come il Talmud recita che “felice è chi si accontenta della propria parte”, dove il verbo accontentarsi è tutt’altro che un gioco al ribasso.

ANCORA PASSIONE/NOIA

E a questo punto la domanda: può esistere un pensiero di ristrutturazione della passione all’interno della logica del limite? Meglio: può essere il limite il conduttore della passione nella sua fattibilità? Meglio. Può il limite funzionare come unico dato “contenente” la passione e in quanto tale che permette la soddisfazione? Solo all’interno del limite la passione può divenire fattore produttivo di un bene, anche di un bene superiore. Passione è l’andare “da… a” come forma di un moto che porta ordine e soprattutto conclusione, in opposizione alla inconcludenza della noia e della melanconia.

Passione diviene allora concludenza in quanto tempo di fine di una tensione e di una preparazione, che potremmo intendere anche come giudizio. Se poi ciò avviene all’interno della relazione la soluzione della tensione è la risposta soddisfacente che noi riceviamo dall’altro.

La passione è allora la distinzione della ricerca mentre la noia è l’arroccamento della ricerca e del desiderio.

Sappiamo che la noia è “uguaglianza”. Per chi vive noia tutto è lo stesso e tutto non ha nessun valore, mentre, alla lettera, passione è la scelta di un “oggetto del desiderio” anziché di un altro, e dunque distinzione e rinuncia a tutti gli altri oggetti, rinuncia al desiderio del tutto. La noia mantiene immobile mentre la passione avvia e mantiene il movimento. L’annoiato è il passivizzato dal suo stesso pensiero. Passione è la protezione (nel tempo) del desiderio.

Frase della passione, nella piena accettazione del limite è che “quello che deve finire, finisce: frase della temperanza e della possibilità di attuare realmente quello che sta per finire (nel senso che ha avuto la sua vita).

Il pensiero di accettazione e di passione coesistono nell’atto pratico del pervenire alla soddisfazione. Accettazione del limite che è antidoto alla angoscia che è sempre “angoscia di separazione”. Passione è emancipazione da tutte le forme della dipendenza.

IL PENSIERO DI “LORO”

Molta angoscia trova la sua matrice psicopatologica in un pensiero molto particolare: è il pensiero di “loro”. Avvero esistono i “loro” e poi, dall’altra parte (del muro) esisto “io”. Ovviamente si tratta di un pensiero a sfondo paranoico: io da una parte e tutti gli altri dall’altra pronti all’attacco. Poi è chiaro che se io penso sempre a “loro”, mi annoio, nel senso che non ne trovo la dritta, perché tanto “loro” rimarranno sempre quelli che sono, e se non cambio io, certo “loro” non cambieranno. E mi sentirò continuamente ferito e in pericolo di ferimento: ma a ben guardare questo pensiero di “loro” nemici, mi è alla fine vantaggioso: pensando ad un “loro” come massa o come struttura omologata, io risparmio la fatica di mettermi in relazioni singole e circostanziate, ognuna delle quali mi chiederebbe un lavoro e un progetto singolo. Facendo di ogni erba un fascio io risparmio il lavoro di avere relazioni con singoli e prediligo relazione con una massa indistinta, della quale, in quanto tale, almeno a livello di pensiero, io poso fare quello che voglio.-

E poi sappiamo che dalla noia (angoscia, melanconia, etc.) non ci si salva “tutto di un colpo”. Ma ci si salva “a passettini” ovvero relazione per relazione. La salvezza è un lavoro che ha a che fare con il tempo ma soprattutto con la parcellizzazione della relazione. Non ci si salva nella massa.

La massa mi porta e mi suggerisce la immobilità a partire che se faccio “di ogni erba un fascio” non posso distinguere effettivamente chi mi può portare alla salvezza. Per salvarmi devo uscire dalla omologazione della noia che mi favorisce nel rifiutare le relazioni e mi favorisce nel chiudermi nel mio narcisismo. L’annoiato afferma che o “tutto” o “nulla” gli possono salvare la vita e dunque la inibizione, ovvero l’arresto, è la scelta obbligata.

Ma possiamo noi dire che nella nostra vita è intercorso un fatto, un evento, un accidente che l’ha cambiata radicalmente? Viviamo di piccoli o grandi cambiamenti ai quali ci adattiamo (perché non siamo all’altezza di gestirli) ma poi nulla cambia radicalmente la nostra vita: lutti, separazioni, perdite… nulla. Salvo ovviamente la morte.

Dunque il soggetto della passione è colui che vive tutti i cambiamenti della vita come realtà oggettive, ai quali egli sa adattarsi oppure che cambiano in parte la sua esistenza, ma non totalmente. E dunque la accettazione della morte costituisce la sua forza in quanto, prima di allora, tutto “è vita”.

La quale vita, almeno intesa in questi termini è condizione di una libertà, anche se di una libertà limitata. Il cosiddetto “senso del dovere” caratteristico della noia, è giusto il contrario della libertà e dunque della passione. E qui la questione è liquidabile in due parole: non si ama per forza. E nemmeno si odia. Si ama e si odia per libertà.

SULLA VOLONTA’

Il soggetto della passione “non cede mai” anche se la sua volontà, che può essere ferrea, se vuole volere davvero, deve essere aiutata dall’altro a volere. Se la volontà è la condizione pratica della passione, essa ha bisogno dell’altro che rivolga la chiamata: io voglio dr vedo nells mis esistenza l’altro cvhe “mi chiama” a vollere”, per il mio bene: l’altro che voglia che io voglia il mio bene, o l’altro che ami che io abbia un pensiero di cura nei miei confronti: sono le condizioni del funzionamento dell’amore.

Chi si dimostra precario in queste cose è l’annoiato che non ne vede né la volontà di averle né il rischio di perderle.

“Se stai attaccato alla terra, sai sempre dove andare” recita un proverbio dei natives dell’Alaska: voler cambiare la propria natura è scappare dalla propria terra, anche se non è sempre facile riconoscere e vivere la propria natura. Ma poi la natura è sempre vicina alla nostra volontà. Noia è scappare perché questa condizione può portare insoddisfazione e frustrazione. Noia è sostanzialmente un atto di ribellione alla frustrazione. E la frustrazione avviene quando c’è esorbitanza di domande, quando ci facciamo troppe domande. La questione non è che bisogna trovare la risposta, ma che non ci si deve porre la domanda.

Il “sopra-pensiero”, che noi possiamo identificare come “il fare anziché il pensare” risulta quindi ad essere la modalità della soddisfazione. La quale soddisfazione sappiamo ha la duplice funzione di “soddisfare” il momento e di creare serbatoio a cui attingere nei momenti futuri. Infatti chi “sovrapensa” e non agisce secondo natura, si annoia, divenendo in questo modo malinconico perché posiziona il proprio peso su di una realtà alquanto fittizia (intendiamoci bene, non mentoniera per forza) che appunto è il pensiero. Il soprappensiero mi dice che non devo sovraespormi ma espormi solamente, tanto quanto che l’altro legga, non un millimetro di più, altrimenti diverrei pesante, e l’altro diverrebbe inevitabilmente intrusivo.

BENE E GIUSTO

Allora il bene non è il bene per definizione: non sta scritto da nessuna parte che il bene, e dunque la soddisfazione(personale), io la trovi nel “fare il giusto”. Io per provare soddisfazione possa anche andare dalla parte sbagliata. Poso sapere che sto andando dalla parte sbagliata, ma posso anche ignorarlo. La cosa non è di poco conto: le questioni dell’etica si ribellerebbero di fronte alle questioni della soddisfazione (personale). Ne’ possiamo dire che il bene “è quello che dico io”, né tuttavia a priori posso dire che quello che mi dà piacere (personale) non possa essere il bene.

La nostra vita è talmente fragile, e nello stesso tempo volubile, e breve che noi spesso non possiamo “andare per il sottile” nella ricerca della soddisfazione: certe questioni morali ed etiche la possiamo mettere in tasca (e ne pagheremo le conseguenze). Ma l’atto umano della vita spesso non ha tempo per pensare al bene e al male e scegliere tra essi. Il bene e il male sono commisti assieme molto di più di quanto noi possiamo pensare e … vivere nella nostra pelle.

La soddisfazione che viene dalla strada sbagliata è pur sempre una soddisfazione. Viene dalla strada sbagliata, dall’errore, dalla confusione, dalla perdita di sé, dal frastuono dei nostri pensieri, e da tutte amenità di questo tipo… eppure noi la viviamo come soddisfazione. Anche trasgressione, soddisfazione che va oltre o infrange la regola. La soddisfazione non deve venire a tutti i costi dalla amicizia (grandiosa) con Cristo, ma può anche venire dallo stargli accanto disubbidendo un po’.

CORAGGIO

Tuttavia sappiamo che la soddisfazione è un bene troppo prezioso perché componenti superegoiche ce la sottraggano di sotto le mani. Se la vita è breve e precaria non possiamo perdere tempo. Per dirla in breve e in due parole. La soddisfazione sta nella libertà (e nella volontà) di chi se la prende. Qualcuno avrebbe il coraggio di dire… con il coraggio di prenderla. La soddisfazione è ciò che ci resta nella mano del nostro coraggio.

Il coraggio non comprende paura di “ferita” ma coscienza che ferita ci può essere. Per questo la noia è il cane pauroso che ci porta a fare i conti di quello che ci viene in tasca dalle conseguenze se facciamo questo o quello… quisquiglie. Tutto quello che facciamo è riconoscenza al coraggio che qualcuno (i nostri primi altri) ha infuso in noi.

Nella clinica stretta; il coraggio è il dato tangibile del superamento della inibizione, della paUra, del no essere uomini di fronte agli uomini. La noia è una ferita che non è per noi perdonabile e non condivisibile con nessuno. A volte è il dramma della solitudine che noi non vorremmo tirarci addosso eppure addosso ci viene lo stesso. Nella vita a certi drammi non c’è rimedio. Ma anche a certa banalità.

La mia soddisfazione diviene viatico per la dipendenza nel momento in cui io, dalla mia volontà più profonda affermo: “Come sono condizionabile!”.

Se io sono suddito dell’altro, alla fin fine, non è un dramma. Devo sapere però che sono all’interno della logica hegeliana del “servo-padrone”. Ed è poi ovvio che noi tutti ci chiediamo se queste “cose” sono correggibili. Certo che lo sono: nel senso che è corretto “sapere” quando si è servo e quando si è padrone. Ovvero quando si è uomo della passione (che non teme perdita) e quanto sono uomo (?) della noia, che teme la stessa perdita della sudditanza?

Nella clinica non c’è scoperta più ricorrente di chi non sa rinunciare alla dipendenza più patente, più meschina e subdola. Ma abbiamo anche detto che ognuno la sua soddisfazione: se la cerchi un po’dove meglio crede. Al di là del bene e del male.

Sulla deipendenza sappiamo che la “indole”: non senso che non esiste “innatezza” nella questioni della dipendenza nelle questioni, non esiste. Siamo figli dei nostri padri e delle nostre madri. E soprattutto delle loro “scarse” intelligenze”.

Allora noi “sentiamo” la nostra pelle alla pari della nostra storia: è asettica, infima oppure ricchissima a seconda della nostra posizione. Poi mi sposto e tutto cambia tutto.

“NON CE LA FACCIO”

“Non ce la faccio” è la frase più frequente non tanto della nostra lamentazione quotidiana, quanto sul punto della constatazione logica del nostra esistere. Se credo alla verità della frase: “non ce la faccio”, effettivamrnte posso farmi del male (oppure del bene, nella logica (perversa?) che il bene e il nmale sono sovrapponibili).

Il pensiero che “ce la faccio” è il pensiero che mi dice del mio coraggio e della mia capacità a “chiudere” quando per altri sono chiuse davvero, mentre per me iniziano giusto in quel momento. le cose: ovvero provo soddisfazione anche quando le premesse del mio stesso pensiero non mi direbbero altrettanto .Nessuno può iniziare una cosa nel pensiero che questa “vada male” Nessuno compie scelte nel tremore che le ginocchia gli si pieghino nel momento in cui l’altro “chiede” (rendiconto?). Molti lo fanno ma escono dal seminato, nel senso che entrano nella psicopatologia. Chiudo solo per iniziare daccapo. Sesso non è né chiudere né riaprire. Il chiudere patologico Chiudere è solo l’atto autolesionistico (sic?) che dalla mancanza del coraggio che mi dice che io non ho i requisiti : a- per provare soddisfazione. b- per mettere il mio coraggio a disposizione degli altri. d- per infine dare il piacere all’altro che se lo merita

Fuori da ogni moralismo, l’atto del coraggio non conosce padrone ma solo fruitore. Del mio coraggio hanno soddisfazione gli altri: io vengo dopo.

ASSENZA DI SENSO

Possono esistere anche “vuoti di coraggio”, ovvero il mio coraggio non arriva fino al punto in cui io desidero e forse anche fino al punto in cui l’altro se lo aspetta. Il vuoto non è un dato negativo o della assenza e non necessariamente è un momento della solitudine: il vuoto diventa doloroso quando è portatore della assenza di senso (di cui il coraggio è massimo rappresentante).

Il vuoto non è dispersione, anzi la noia è luogo della dispersione, specie quando è incapacità a reggere il nostro desiderio su di uno stesso oggetto, o sull’altro. La dispersione interviene quando il desiderio vaga senza la ricerca della meta. Il vuoto che ferisce è quello svuotato dal presente e dal futuro.

Esiste poi una nostra certa “ipersensibilità” infantile agli eventi, alle relazioni, ai fatti, ai libri, ai film: siamo colti in pratica da un eccesso di emozione o di eccitazione. Il mondo ci si presenta in un certo modo con i propri fenomeni, che hanno certo una loro valenza. Certa nostra “ipersensibilità” è assimilabile alla “accidia” perché ci blocca nella azione, l’emozione ci inchioda muscoli e cervello. Ci blocchiamo non tanto per timore dell’errore, quanto perché il senso del vuoto è diventato perdita di senso.

La passione invece, in un certo senso, “sbriga la questione” e non si pone tante domande sulla “evitabilità” dell’evento, dell’altro, della relazione. In altre parole “tira avanti” perché il fine ultimo è il fare e non il “sentire”. La passione non tiene conto dei “massimi sistemi” ma porta ad una soluzione pratica. Se la passione comporta e porta in sé dei segni, altrettanto non è per la accidia che dai segni si tiene lontana, non è tanto per interpretarli con un fine vago e astratto, ma li interpreta per il fine pratico a cui essi possono rimandare.

Può accadere che la sublimazione, anche di se stessi, possa portare al superamento di una angoscia iniziale e dunque anche alla “soluzione” della propria esistenza (prendiamo per esempio certe forme di ascetismo). In questo modo il tempo vuoto si riempie di ora in ora, di minuto il minuto, dalla presenza di una certa forma di ricerca, che nell’ascetismo è la divinità. Ma ci chiediamo: questo modo di trattare il tempo vuoto è dato dalla nostra incapacità a vivere la nostra solitudine? La sublimazione è sempre una modalità di fuga dalla angoscia? Le infinite forma di “fuga” dal mondo hanno questa caratteristica?

Sappiamo che la noia è la incapacità di reggere il lavoro del giudizio guidato dalla propria ragione, allora si scende nella sublimazione. E in quanto tale, perché barra che regge il nostro fare, che il giudizio è la massima forma della passione (e anche della sincerità con se stessi e con gli altri.

. Prendiamo ad esempio il cosiddetto “Discorso delle Beatitudini” di Cristo. Alla fin fine che cosa significa? Che se una persona si ritiene beata per un motivo, un’altra per un altro, e un’altra per un altro ancora, significa che la nostra limitatezza diventa spinta al movimento verso la parte dell’altro che le cosiddette beatitudini ce le ha diverse da me. Io sono chiamato dal fatto che l’altro è diverso, anche nella scelta (se di scelta mai si trattasse) della propria soddisfazione. Che l’altro cerchi la soddisfazione in un modo che è diverso dal mio è una garanzia per me che io lo trovi per me con maggiore facilità!

Qui la passione supera il corpo. La passione, se io la vivo, mi lascia intendere che esistono altri infiniti modi per raggiungere la soddisfazione diversi dai miei. E in più che io arrivo alla mia vera soddisfazione solamente se tengo presenti nel mio percorso questi infiniti altri modi.. La passione “va oltre il mio corpo” e si lascia istruire o guidare dal corpo dell’altro alla ricerca della sua propria soddisfazione.

L’atto della passione ha radici profonde perché si pone come questione la comunione della soddisfazione dell’ Io e del Tu. L’atto del male non tiene in considerazione il percorso verso il bene che l’altro fa: questo è “fare del male agli altri”.

IL MALE NON HA RADICI

Il male non ha radici, il bene (la passione di cui stiamo parlando) ha radici nell’atto di intelligenza che mi dice semplicemente che non devo “portare” male all’altro. In quanto il male altro non è che il non evitare “che si potrebbe fare a meno”.

Il male che noi commettiamo lo si intende sempre a posteriori! Che bello sarebbe se nella nostra vita suonasse un campanello di preavviso poco prima che noi facciamo del male all’altro. Sarebbe bello ma anche inumano: in quanto noi siamo fatti “di fare” tanto del bene quanto del male all’altro.

E poi nella nostra striminzita umanità chi dichiarerebbe se stesso, di fronte agli altri, “operatore del male”? A me ha sempre sorpreso il Vangelo che distingue troppo chiaramente i ladri dai benefattori, i bestemmiatori dai pii, gli avari dai munificenti, i buoni dai cattivi insomma. Noi non apparteniamo alla categoria dei buoni o dei cattivi ma apparteniamo a tutte e due. E’ questa l’umanità. E’ questa l’umanità forse per la quale Cristo è venuto. Ma per farne che cosa? Per dividere i buoni dai cattivi? I ladri dai benefattori? I pii dai blasfemi? Compito improbo che Dostoevskij giustamente ha appuntato. Noi uomini possiamo reggere un certo gradiente di libertà: non di più.

LA DISPERAZIONE

E poi noi tutti sappiamo che il male (non occorreva Hanna Arent) è assolutamente banale: lo si fa per niente, per caso (vedi il film “Nella valle di Elah”), senza senso, senza intenzione, nel pentimento già insito, nella colpa già scontata in precedenza: noi siamo portatori di male in quanto siamo portatori di bene. E a volte anche il bene è banale (anche sa Hanna Arent non l’ha mai scritto).

Mi trovo a fare del bene senza volerlo, e se ne ho coscienza, tanto meglio!.

In mezzo a queste questioni la noia gioca un gioco assai povero:: impedisce di fare il bene (inibizione) in quanto non ha fede del bene e soprattutto non ha fede di ciò che il bene possa produrre.

E’ vero che chi è dentro pieno alla angoscia, tanti discorsi non li può fare. Tante cose non le capisce. Tante previsioni gli sono escluse. La parola “disperazione” fa paura a tutti, soprattutto perché non è una parola che definisce ma prelude: prelude alla fine, in qualunque modo la si voglia intendere. Se sono disperato tra poco finirò o mi finirò. Allora anche il corpo di cui si parlava in precedenza non basta più per contenere: diviene un corpo slabbrato di cui noi stessi abbiamo paura. Un corpo che può andare dove vuole e nessuno, nemmeno noi, ha la forza di fermarlo..

La disperazione è il fondo della “banalità” del male, in quanto nel pensiero di “noi sani” basterebbe poco per uscire. Ma chi è dentro alla disperazione non ha respiro e non ha pensieri. A volte non ha respiro per fare una telefonata.

Si può allora “iniettare” passione ad un disperato? Certo no. Il disperato, o l’annoiato, uscirà dalla sua condizione mortifera, soltanto se gli funzioneranno certi pensieri che lo porteranno a capire che tanto il bene, quanto il male, e quanto soprattutto la vita non sono banali. Hanno un senso.

Il disperato non è una vittima. Vuole la prerogativa e anche la esclusiva sulla propria disperazione. Vuole la sovranità sul proprio essere soggetto annoiato, dunque disposto a perdere tutto. E sappiamo che con chi è disposto a perdere tutto… non sono possibili discorsi.

Chi è disperato non è figlio della menzogna ma è figlio della verità: la disperazione ha un limite talmente tangibile di entrata nel nostro corpo che non ci si può sbagliare.

La noia è un continuo autoriferimento a se stessi: non c’è posto per l’altro né noi lo vogliamo tra i piedi.

Per questo chi è disperato fa fatica a “trovarsi”. : la disperazione e la malinconia gli impediscono di dare a se stesso un nome proponibile all’altro.

Ma se io ho, vivo, una passione che mi chiama da qualche parte, vengo chiamato con il mio nome, e il mio nome costituisce la mia stessa identità. Proprio nel senso di “Nomen omen”. Il mio nome è un mio dovere ad essere me stesso di fronte a me stesso e di fronte all’altro con cui ho steso un patto, e non lo posso tradire ritirandomi nella disperazione.

Guido Savio

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