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UN UOMO PIENO DI LIMITI 3

Il rifiuto della rinuncia porta alla angoscia. Ma da punto di vista strettamente umano sappiamo che non possiamo rinunciare a tutto. Quello che è definitivamente perduto, o che noi riteniamo tale, non ci trova sempre presenti alla rassegnazione, e sappiamo che la rassegnazione totale non porta mai da nessun posto. Allora la domanda: è sempre economico rinunciare alla illusione, al sogno, al ricordo, alla fantasia?

Alibi? Alibi è la parola giusta? L’alibi serve in ogni caso per sopravvivere? Non ci rassegniamo mai ad accettare che la realtà è quella che è, anche se sappiamo che il mondo non ci è oggettivamente favorevole o sfavorevole ma è semplicemente neutro, come il dolore è innocente. L’illusione non è un male assoluto: basta che noi ne conosciamo i termini e i limiti. Se si vuole, lo sappiamo anche usare come strumento di cura. <br<
E’ vero che la cosiddetta nostalgia ci porta a voler conservare tutto e non volerci staccare da niente. Ma possiamo noi considerare “cura di sè” il sogno o la fantasia. Possiamo ritenere la cosiddetta nostalgia un atto sano che in qualche modo si oppone ad una perdita, ad una rinuncia? Possiamo accettare questa umanissima presa di posizione davanti al destino che con il tempo ci porta via anche la vita? Perché noi tanto spesso torniamo a pensare a noi stessi, ala nostra vita passata, al nostra dolore pasato quando siamo in presenza del dolore oggettivo dell’altro? Perché di fronte all’altro che soffre noi pensiamo prima di tutto al dolore che ci procura? Non è semplice egoismo ma reale difficoltà a stare al nostro posto, a stare dentro al nostro limite.

Noi sperimentiamo una effettiva difficoltà a intendere il limite nostro e il limite dell’altro: non rinunciamo alla rinuncia e non accettiamo la rassegnazione. Siamo chiamati alla cosiddetta “elaborazione” del nostro dolore, ma altro non facciamo che rigirare i pollici come giriamo i nostri pensieri per “elaborare”, mentre “elaborazione” vera significa sostanzialmente pensare ad altro. Uscire, uscire dal pensiero e formulare un giudizio nuovo.

Uscire dal nostro pensiero significa prima di tutto dire all’altro la propria debolezza (limite) del nostro pensiero come incapace di perdita. Mi fido dell’altro e dunque mi fido di me stesso ma mi è difficile giocare sempre con tanto coraggio all’interno della logica della rinuncia e della ammissione della mancanza. Non mi rassegno a voler essere quello che non voglio essere.

E poi prima o dopo gli altri potranno davvero fare uso contro di noi adoperando lo stesso limite che noi abbiamo permesso che essi vedano? Se l’amico e l’amata mi confidano una loro debolezza io provo un grande piacere? E il motivo è fin troppo semplice da intendere. Si tratta sempre di giudizio: l’altro mi ritiene meritevole di essere depositario di un bene e di una ricchezza. Ma la relazione registra momenti di un tipo e momenti di tipo opposto: è il giudizio che determina il mutamento all’interno delle relazioni. E se il giudizio cambia, cambia il mio giudizio su di te. E non è raro il caso in cui io ricorro al cosiddetto “rinfacciare” all’altro quella che era stata nel passato la sua confessione di debolezza, di limite. Questo perchè la aggressività e l’odio non sono banditi aprioristicamente dalla logica della relazione. Dall’altra faccia della medaglia sta il silenzio: tengo e terrò sempre per me la confessione di limite dell’altro proprio perché ad animarmi è l’amore per il bene dell’altro prima ancora che il bene per me stesso. Rinfacciare all’altro significa perdere la propria faccia, significa calpestare il patto fatto con l’altro, significa tradirlo. Il pensiero malato che sta dietro a tutto ciò è che il mio potere tanto sarà maggiore quanto lo avrà aumentato la debolezza dell’altro (e dunque la sua povertà) . Siamo continuamente in cerca, nella relazione, di nuove carte non tanto da giocare contro l’altro, ma da tenere “di scorta” nel momento del bisogno, e il momento del bisogno è quello in cui noi avvertiamo stato di dipendenza nei confronti dell’altro. Ci ribelliamo e dunque pratichiamo vendetta.

E la questione della dipendenza è sempre la questione della solitudine, meglio, del saper essere soli. E perché poi noi da questo saper essere soli non riusciamo a trarre la nostra stessa salvezza? Perché noi da soli facciamo fatica a cogliere e praticare il nostro limite e assestare su di esso la nostra soddisfazione?

Chi o che cosa ci impedisce di restare da soli per in giorno, due giorni con il nostro passato? Con i nostri ricordi? Con le persone che abbiamo amato e che ci hanno amato e con le quali ora non è più possibile ripetere la stessa esperienza? Perché noi non potremmo avere un “rapporto” con il nostro stesso pensiero, senza la presenza dell’altro reale? Non il pensiero del compiacersi o dall’altra parte del piangersi addosso, ma il sano pensiero di noi viventi, in vita dentro al nostro corpo che è sano e salvo al momento (e questo ci basta). Esiste un “rapporto” con noi stessi che è impenetrabile dall’altro: è forse questo il punto in cui massimamente noi cogliamo il pudore e la dignità del nostro stesso limite, della nostra stessa vita, della nostra stessa natura umana.

A volte l’altro della relazione ci dà un peso, ci fa portare un peso anche gravoso. Allora che cosa c’è di male se noi possiamo riposare, possiamo “riposarci dall’altro” vivendo dentro al nostro stesso pensiero. Perché il pensiero e la pratica del riposarsi dall’altro spesso sono intesi come posizioni psicopatologiche? La frase “lasciatemi stare” è una frase che il Cristo stesso di Jesus Christ Superstar ha pronunciato, assediato dai lebbrosi che gli toglievano l’aria egli ha gridato “lasciatemi solo”.. E se lo ha fatto lui perché noi non potremmo avere umanamente bisogno di “riposarci dall’altro”? Ciò non significa rinunciare alla relazione e scegliere la solitudine. Nessuno sceglie di stare solo deliberatamente pensando di scegliere il proprio bene. Se sappiamo essere in buona relazione con il nostro pensiero, non siamo soli. Non vogliamo stare bene a tutti i costi, ma di questo stare bene ne abbiamo diritto e se questo diritto lo esercitiamo attraverso una certa forma di “ritiro” dall’altro non necessariamente esiste patologia. Anche se è difficile la conservazione del nostro stare bene e facile è il ritorno al nostra stare male. Ma questo è il limite della nostra esistenza, il limite che il fascino del dolore esercita in noi anche quando noi vorremmo farne a meno.

Per questo quando stiamo bene dobbiamo stare fermi, non muoverci. E l’altro ci stanca soprattutto quando noi non possiamo dirgli tutto. Ma dire tutto è impossibile. Come capire e farsi capire. È una delle più grandi illusioni che determina la “recriminazione” di cui si parlava in precedenza: quella della pretesa del tutto rispetto all’altro. <br<
Allora continuiamo a monitorare l’altro dell’amore alla ricerca di una o più possibile pecca, della mancanza, della assenza, della vacanza. E così l’eccesso di attenzione sull’altro ci porta a macroscopizzare inevitabilmente i suoi limiti e a nascondere i nostri. Per questo l’amore fa tanto soffrire; per questo si parla di pene d’amore: perché l’amore, questo tipo di amore, spesso si avvicina alla paranoia, alla persecuzione: l’altro mi è portatore di male e dunque io devo difendermi. Le pene da amore hanno a che fare con l’eccesso di attenzione nei confronti dell’altro nel nostro timore di abbandono e di angoscia.

Nell’eccesso di attenzione verso l’altro noi riproduciamo sicuramente uno schema infantile: quello della ricerca presso la madre dell’amore garantito. Ovvero quello senza limite. Il pensiero di amore garantito non accetta nessun limite, e per questo fa soffrire, fino alla angoscia della dipendenza perché spesso la attenzione si trasforma in pretesa. <br<
La pretesa è la voce dell’amore garantito, e, ovvio, in questo modo la angoscia è garantita come frutto di una frustrazione insopportabile. Angoscia di abbandono perché noi non abbiamo sufficienti forze autonome per tenere l’altro vicino a noi nella logica dell’amore sano. Paura che l’altro, anche con la sua stessa vacanza, ci tradisca. L’altro ci fa paura. Ma chi fa paura è poi anche chi ha paura. E si instaura in questo modo una logica perversa di confusione delle parti per cui non si distinguono più i posti e regna il disordine.

La accettazione del nostro limite indubbiamente ci chiama ad un atto di coraggio: quello di ammettere di fronte all’altro la nostra mancanza (e sappiamo che questo è poi in realtà l’atto di forza a cui ogni essere umano può umanamente accedere)..

Solo se si accetta il proprio limite si può anche difendere la propria posizione, la propria causa, la propria idea, se stessi. Noi dobbiamo difenderci dall’altro che “invade” in nostro posto, difenderci dall’altro che tenta una esautorazione del nostro giudizio. Ma la legge fondamentale afferma che non è bene farci fare del male dall’altro e male all’altro non arrecare. L’altro ha un diritto “limitato” su di noi e non ha completa libertà di transito dentro alla nostra giurisdizione e non può dire e giudicare come vuole.

Accettazione del proprio limite è anche accertamento, attraverso il giudizio, del limite dell’altro e della sua eventuale patogenia.. E’ vero che l’altro mi completa, valorizza i miei talenti, ma deve trattarsi di un altro che ha avuto da noi consenso per occupare tale posto, non se lo può essere preso con la forza. E questa interazione con l’altro poi arriva fino ad un cero punto. Oltre a questo punto, specie dal punto di vista operazionale, ognuno “agisce da solo”. Le scelte le facciamo da soli anche se prima siamo andati in cerca di mille consigli. Agisco da solo anche nel momento in cui formulo il pensiero “chiedi e ti sarà dato” in quanto non mi basta il chiedere, da deve anche “volere” quello che chiedo. Ma voglio “quello”. Non il tutto dell’amore garantito o della domanda narcisistica (che ricaccia poi nella angoscia). Solo se io rinuncio al pensiero di infinito e di tutto posso pervenire alla soddisfazione, e allora davvero l’altro mi darà quello che chiedo, perché vede che ci credo, vede che credo che quello che chiedo sta dentro un limite plausibile, vede che io chiedo solo quello che posso ottenere, vede che chiedo la formulazione sana della risposta.

L’illusione è gratis ma porta a poco di pratico. Può portare ad un “ausilio psicologico” ma a nulla che abbia a che fare con una soddisfazione duratura. Non posso recuperare fantasmaticamente quello che ritengo di avere perduto, anche se il pensiero “melanconico” della perdita di certe porzioni dell’età dell’oro mi può essere di aiuto. Mi può essere di aiuto un mio isolarmi dal mondo presente e immergermi nello mia storia e nella mia memoria anche per non avere a che fare con il dolore che il presente mi porta. Ma devo tuttavia sempre avere coscienza di tale strategia.

Se io “ci credo” veramente che posso recuperare un perduto attraverso i sogni ad occhi aperti, attraverso la fantasia, attraverso il gioco della memoria, posso entrare nella teoria patologica che in questo caso comprende: a – il pensiero di perdita è spesso un pensiero di “perdita del tutto” b – la possibilità di soddisfazione reale si allontana c – prende il sopravvento il pensiero di povertà e incapacità di produrre ricchezza nuova d – manca il pensiero di leggerezza: ovvero che nella vita accade quello che deve accadere e la nostra responsabilità è molto limitata (senza tuttavia pervenire a teorie meccanicistiche o deterministiche) e – se non capisco la aleatorietà di questa tecnica di soddisfazione immaginifica posso entrare nella ingenuità e nella creduloneria, ovvero posso essere in balia completa del giudizio dell’altro.

La nostra capacità di conformare giudizio è la vera cura che noi abbiamo per noi stessi e per l’altro. Amore è amore che l’altro abbia cura per il proprio pensiero, come noi abbiamo cura per il nostro. Anche se poi sappiamo bene che le cose, specie nella relazione, meglio vanno meno ci si pensa: se qualcuno parla troppo di qualcosa significa che lì qualcosa non và.

Ma alla fin fine, nella relazione, forse che tutto si risolve in una questione di potere? E’ vera la famosa frase che “chi meno ama meno soffre”? Ad una prima lettura sembrerebbe che le cose stiano proprio così: se io mi sento “offeso”, in “credito” nei confronti dell’altro, posso assumere una posizione di potere in quanto “sta nel mio diritto” che sia l’altro il primo a muoversi per riparare e per ripagare. Il potere è dunque mettere in atto quelle strategie (di comportamento) per cui deve essere prima l’altro che si mette in moto verso di me in quanto io sono rimasto offeso. Giustizia deve essere fatta! E’ questo un chiaro comportamento isterico, che tuttavia non è del tutto estraneo anche a relazioni sane. L’uso del potere è un dato sano all’interno della relazione, a patto che come è sana la intercambiabilità dei posti S/A esista anche la intercambiabilità dell’esercizio del potere.

Fondamentale è che io sia intercambiabilmente Soggetto e Altro, ovvero che sappia domandare ma anche rispondere, dare ma anche ricevere. Proprio nella logica che “nessuno può tirare la carretta da solo”.

E questo sta nella “onestà” di ogni singolo soggetto: il potere è ben poca cosa, anzi è e nulla se non viene esercitato. La filosofia ha disquisito per millenni su Potenza e Atto. Il potere diviene atto nel momento in cui io chiamo un altro dentro alla mia frase, dentro alla mia sana logica, dentro alla relazione, dentro all’amore.

Il potere, se tale deve essere, deve essere a “disposizione dell’altro”. Non esiste potere a disposizione “mia”. L’io non esiste in queste questioni: il potere è vivo e vigile solo nel momento in cui io lo “applico” . E la applicazione è solo dedizione. Lo faccio per qualcun altro. Da solo non ce la farei. Il potere “ da solo” non esiste”. Esiste solo nella relazione.

E se relazione deve essere, che relazione sia: allora il potere è sia mio che tuo. E’ un potere che io metto a disposizione del Tu, ma che metto, pari pari, a disposizione dell’Io.

Il potere è che io penso all’altro, ma anche ”do da pensare “ all’altro. Il mio pensiero non porta né solo bene all’altro, né solo male: ma li porta entrambi.

In questa logica Io sono per Tu un “altro” e da questo posto posso correggere ma anche mi posso lasciare correggere i miei errori. <br<
Forse qui il mistero dell’uomo? Forte delle propria forza e forte della propria disponibilità a farsi correggere? <br<
Questo potere poi, alla fine della fiera, altro non è che un mio pensiero di “apporto” per l’altro”. Il potere non è mai al di fuori della relazione: quindi è relativo: quindi è limitato: quindi non può essere né onnipotente né narcisistico. Allora in questa logica del potere, se io sono colui che regge il potere, ho anche il potere di farmi correggere gli errori dalla voce dell’altro.

E’ semplice il passaggio finale: il potere, per essere tale, deve essere “potere per l’altro”: ovvero io mi assumo in qualche modo il peso dell’altro. Non totalmente, ma fino al punto in cui io lo riesco a reggere. Non oltre.

Se il potere dovesse essere una questione di “ricchezza” questa starebbe dentro la questione economica: che ha l’ordine come principio giuridico.

Se c’è ordine esiste soddisfazione, se non c’è ordine esiste caos e dunque melanconia. E dunque se c’è ordine esiste relazione, altrimenti no.

Ancora l’ordine è un fatto pratico e non mentale: non è insomma una astrazione. L’ordine è una costruzione che dice che l’io che la costruisce è sovrano laico del suo prodotto.

Nella psicopatologia delle relazioni e del giudizio: chi fotografa l’ordine è sano, mentre chi dall’ordine evade… non esiste soddisfazione.

GUIDO SAVIO

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