La malinconia è il risultato di un pensiero di utopia, di un pensiero di infinito e di potenza infinita che noi pretendiamo sempre di poter esprimere. E’ il pensiero di un “tutto”, di un assoluto di fronte ai quali ci confrontiamo in continuazione, uscendo irrimediabilmente sconfitti. La sconfitta del confronto tra il nostro essere reale e il nostro essere ideale si chiama malinconia. O noia. E’ poi il dato di realtà che ci delude: la constatazione della nostra pochezza e della nostra debolezza, della nostra contraddizione che non ha forza di fronte a nessun “dogma”. E che noi non riusciamo a sopportare né a portare. Molti tentano la fuga dalla malinconia nell’integralismo. Si fa comunità tra chi da solo non riesce a darsi una regola e allora ricorre al libro sacro o all’uomo sacro, o al sacro e basta.
Ogni forma di malinconia è integralismo perché è sottomissione del proprio potere di pensare, di fare e di amare ad un altro astratto ed assoluto, dal quale ci fa comodo essere guidati. L’integralista vuole il tutto e soprattutto che i tutti siano come lui, in uno sforzo tanto patetico quanto melanconico di omologazione.
Un uomo pieno di limiti, così come noi tutti siamo, non necessariamente sceglie di vivere la sofferenza della malinconia. Ma lo sceglie se il limite non lo accetta.
Resta ancora un mistero il fatto che noi ritorniamo in continuazione sulle nostre sofferenze. Torniamo indietro anche quando sappiamo razionalmente e per esperienza che andiamo incontro all’errore che ci porta dolore. Viviamo un po’ tutti un “attaccamento” alla sofferenza. E certo questo attaccamento deve pescare nelle parti più profonde della nostra anima, certo quella che pesca nelle nostre prime esperienze (vere o pensate) di dolore. Forse con la relazione con la madre nella accezione della dipendenza. Probabilmente non esiste dolore maggiore della dipendenza, in quanto riduce da un lato alla impotenza e dall’altro scatena pulsioni aggressive verso l’oggetto da cui dipendiamo.
Allora dipendiamo in un certo qual senso dalla sofferenza come un tempo siamo stati dipendenti dalla madre (perché era una questione di sopravvivenza, e noi eravamo impotenti).
Non si spiegherebbe il fatto che noi figli, per quanto “trattati male” dai nostri genitori, prove alla mano, non riusciamo a separarci quasi mai definitivamente da loro, anzi, a volte ci attacchiamo con maggiore morbosità di quando eravamo bambini. E’ il richiamo del sangue. E’ il richiamo della sofferenza che tanto poi ci fa sanguinare. Forse è lo stesso motivo perché quasi tutti i figli adottati vanno sempre alla ricerca del genitore naturale?. E’ una semplice curiosità? Un bisogno di affetto primario? Un attacco al genitore autore dell’abbandono? Forse tutto questo e molte altre motivazioni assieme. Sta di fatto che con molta probabilità sta nella dipendenza “reale” del bambino dalla madre il luogo che Freud definisce “ritorno del rimosso”: l’attaccamento alla nostra sofferenza come attaccamento alla madre o a quel tipo di rapporto: l’essere risucchiati dalla sofferenza anche quando ne conosciamo la causa e la natura, forse anche quando ne conosciamo il nome, e malgrado ne conosciamo le modalità di soluzione.
La sofferenza ingigantisce se noi non vogliamo ammettere la nostra pochezza. Che significa anche la accettazione e la sopportazione della sofferenza stessa. E’ questo il limite per noi invalicabile e che noi vogliamo in continuazione valicare: l’onnipotenza e il pensiero centrato su noi stessi. La sofferenza diventa maggiore se si ascolta solo l’emozione e non anche la ragione.
La razionalità ci aiuta a cogliere il limite e la formula di pensiero per un programma di vita.
Per il fatto che abbiamo costantemente “bisogno” di stare con l’altro (da soli non si può vivere e perché l’altro è il vero principio di realtà), così è esperienza normale e naturale che il bambino si leghi alla madre nel senso della dipendenza. E questo ci provoca esperienza di dolore “a causa” della madre, ed è con questo pensiero in ogni caso malato (“a causa della madre”) che noi poi ritorniamo a soffrire le stesse pene e lo stesso richiamo. Se c’è bisogno non c’è domanda. Chi poi saprà domandare saprà più dare.
Il limite dell’uomo è la sua stessa infanzia. Ma nella infanzia questo limite è una esperienza irrinunciabile. Nel nevrotico un pensiero di battaglia continua contro la dipendenza che lui vede maligna in ogni sua altra relazione.
E’ l’altro che mi fa pensare. A volte può farmi fare “cattivi pensieri”. Anche la madre mi fa fare “cattivi pensieri”, ma in ogni caso io, “da solo” (ovvero senza l’altro) ne farei di peggio in quanto sarebbero solo pensieri di autoriferimento, pensieri che si accartocciano sulla mia pelle e la feriscono.
E la questione della dipendenza dalla madre è la intera questione del piacere.
Il nostro limite è quello di non accettare il pensiero che qualcun altro (diverso da noi) procura alla persona che noi amiamo, il piacere: sembra (a noi) che accettando tale piacere ci ami meno o ci tradisca. La questione della gelosia è tanto vicina all’odio quanto alla malinconia. Diventiamo melanconici perché ci sentiamo privati dal potere di dare noi soli piacere all’altro e per lo stesso motivo questo altro lo odiamo: ci ha ricacciato nella condizione di dipendenza. Il bambino vuole sempre essere “nel pensiero” della madre, come se volesse stare sempre dentro il liquido amniotico. Ma il bambino, che non ha ancora “ragione” del proprio piacere, può anche vivere sanamente questa condizione. Il che non accade per il nevrotico che invece del proprio piacer “dovrebbe” aver ragione: ovvero sapere che viene dall’altro.
La questione della dipendenza è diversa nel bambino e nel nevrotico: la dipendenza del nevtorico (e qui la sua guarigione) può essere metabolizzata in pensieri positivi quali la imitazione, la ammirazione, il rispetto, la accettazione appunto del proprio limite. Al bambino questa metabolizzazione non riesce. Lui la vive sulla pelle e a volte la questione è una questione di vita o di morte.
La nostra affezione dunque alla nostra stessa sofferenza è una ossessione/ripetizione di uno stesso schema di dipendenza che non è stato metabolizzato nel senso della accettazione del limite, e dunque anche della dipendenza stessa.
La domanda che l’uomo continua a farsi guardandosi dietro alle spalle, e che spesso resta senza risposta, è in merito alla fondazione della propria identità: “Come sono stato trattato per essere diventato quello che sono?”. A partire dai “primi altri” (e qui è fondamentale la questione del perdono dei nostri primi altri come accettazione che la fondazione della nostra identità è determinata da limiti).
Il ritorno alla sofferenza avviene attraverso l’atto manipolatorio del pensiero su di una esperienza dolorosa passata, e quindi tornare sulla nostra sofferenza è la nostra stessa incapacità al perdono, dell’altro e con l’altro di noi stessi.
Tornare sulla sofferenza è la nostra incapacità di porre la questione del perdono come limite massimo a cui noi possiamo arrivare. Perdonare implica da una parte in giudizio (il perdono è un atto giudiziale) e dall’altro il dimenticare.
E il tempo è sempre maturo, sia per dimenticare che per perdonare. Il giudizio nostro che il tempo è maturo significa uscire dalla nevrosi; si esce da dove si era prima e si entra in quello che c’è dopo. La frase “E’ ora” significa la pratica del futuro. “E’ ora” significa pronunciare un giudizio del nostro essere nel mondo, essere “svegli” al mondo. Non a caso alla base di tutte le psicopatologie c’è l’ingenuità, per non dire di peggio, del giudizio stesso.
Proprio come afferma Eraclito che da svegli siamo in un pensiero comune di mondo, il che non capita quando ci appartiamo nel sonno (che non è quello delle otto ore nel nostro letto ma quello del nostro intelletto che si fa colpevolmente pigri.
Platone inventa il “mezzo “ (metaxy) e la “categoria” (katà) e il simbolo che è il modo per fare categoria proprio per definire il nostro “essere svegli” nel mondo reale, come frutto dell’abbandono del “mondo possibile”, quello della malinconia da dove siamo partiti, quello del desiderio del tutto senza limite, quello degli ideali. Mentre il mondo reale è la accettazione. Il seguire un “mondo possibile” anzichè un “mondo reale” è andare in bocca all’angoscia, e in fin dei conti tutta la nostra vita è improntata sulla questione della soluzione della angoscia, e l’angoscia è la assenza della legge del giudizio che l’altro ci porta.
Per questo la salvezza, che è il moto continuo della nostra esistenza, non è uno status che si raggiunge alla fine della fiera ma un metodo da metterci le mani tutti i giorni. La prova scritta della salvezza non esiste.
Alla ricerca della nostra salvezza noi muoviamo appunto le mani, tese al bene nostro e al bene dell’altro. Ma va da sé che muovendo le mani mentre facciamo del bene a qualcuno possiamo fare del male a qualcun altro: per questo la logica, il metodo del perdono caratterizza la nostra strada verso la salvezza. Non può infatti esistere relazione al di fuori della logica del perdono.
Se invece la mia logica è quella del “pagamento” (ovvero ho subito una offesa e il qualche modo devo essere risarcito), io non riuscirò mai a vivere una relazione in maniera indolore. Tuttavia è possibile anche vivere delle relazioni dolorose, ma in qualche modo viverle. Allora se un “pagamento” deve esserci (se io non riesco ad uscire da questa teoria patologica), almeno che questo pagamento serva a qualcosa o a qualcuno, che vada a beneficio delle persone che più mi sono vicine e che più amo.
Forse il ritorno alla sofferenza ha a che fare anche con un fondo di aggressività che permane sempre dentro di noi e che noi poi, nel corso della vita, rivolgiamo contro noi stessi. Questa aggressività ha sempre in fondo a che fare con la dipendenza materna.
Quando l’altro mi “manca”, prima di provare un sentimento di abbandono, io provo un sentimento di “odio” nei suoi confronti. Un “normale” attacco verso l’altro che mi fa sperimentare il dolore della mancanza.
A questo punto entra in ballo la nostra difficoltà a conservare il desiderio per superare lo stato o il tempo della mancanza, e raggiungere la soddisfazione. Non a caso la nostra reale forza di uomini è quella di saper sopportare il dolore e soprattutto la frustrazione (al nostro desiderio). Questo è limite, limite scritto nelle pagine della vita di tutti noi.
Infatti per vivere noi dobbiamo adattarci ad una infinità di situazioni che di primo acchito vorremmo rifiutare. Per vivere dobbiamo adattarci ad una infinità di persone che vorremmo evitare. Per sopravvivere ancora peggio: il conto raddoppia perché la differenza tra il vivere è il sopravvivere è la dipendenza. Maggiore è il nostro bisogno e la nostra dipendenza, e maggiore è il quoziente di adattamento che ci è richiesto.
L’adattamento dipende dal giudizio. Dalla nostra “forza di giudizio”: più sicuro e sano è il nostro giudizio sulla nostra e altrui salute e patologia, meno noi ci dobbiamo difendere dall’altro. Più io esercito giudizio sul mondo esterno (lo conosco, lo capisco, lo comprendo) e meno devo difendermi.
Per vivere e sopravvivere è necessaria la attuazione di un pensiero che riesca sempre a vedere il “bene maggiore”, cioè la assenza della angoscia. Allora se io non ho risorse autonome per me stesso e in qualche modo mi appoggio all’altro, allo stesso modo devo accettare che non posso essere “completamente sicuro” nei confronti dell’altro (e qui entra il giudizio).
La paura che ci prende è quella di perderlo l’altro e che la sua perdita comporti angoscia: è il nostro spirito di sopravvivenza che deve avere la meglio, non il nostro orgoglio. In questo senso ci è richiesta la ragione: importante è conservare la vita per noi stessi e per le persone che amiamo. Mantenere la relazione è fondamentale per evitare l’angoscia, quasi fino al punto in cui la relazione è impossibile a sostenersi.
A volte dire all’altro quello che noi riteniamo giusto “non serve a nulla”, in quanto le nostre parole, come diceva il filosofo, scalfiscono l’altro come un’unghia può scalfire un continente. Ma quello che conta è che noi la relazione la manteniamo attraverso il giudizio sull’altro. Giudizio civile, mai penale.
E tale giudizio non deve necessariamente essere un giudizio “detto”. Ha valore anche nel suo “taciuto”. Il tacere all’altro a volte è un aiuto a fargli capire da solo. E lo stesso può essere fatto dall’altro con noi. In ogni caso tacere è un atto di rispetto e di intelligenza. A torto viene scambiato per debolezza. Tacere il giudizio è un atto di forza: il tacere è sempre un “discorso” anche se non usa necessariamente la “parola”. Il discorso è il senso della relazione, la sua continuità e la sua linfa. Portare avanti un discorso infatti non significa necessariamente parlare, ma significa vivere la relazione.
Infatti a voler “ragionare” con l’altro, non si arriva mai ad una conclusione, non si arriva ad un chiarimento. Anzi spesso in alcuni rapporti dove si vuole chiarire tutto per forza attraverso il “ragionamento” altro non si fa che trasmettere all’altro la propria insicurezza e la propria debolezza negativa: quasi se il voler “chiarire” a tutti i costi nascondesse un recondito senso di colpa. Come dire che se tutto è chiarito… allora tutto va bene. Ma le cose nel mondo, nel mondo dell’uomo pieno di limiti, non stanno proprio così.
Tacere può poi essere una delle modalità di protezione di se stessi. Ben lontano dalla ricerca della solitudine. Mi proteggo da solo se so stare da solo.
GUIDO SAVIO