La angoscia è la trappola – META’ – Gli HAIKU di Basho, Buson – Qohelet ha scritto mille HAIKU – Gli altri che popolano la nostra esistenza sono TU
E molti sono presi dalla angoscia di conoscenza. Conoscenza è “senso”. Una delle domande della angoscia può essere queste: “A che cosa serve tutto ciò?”. A questa domanda non esiste nessuna risposta, anche se si trattasse della vita.
La angoscia è la coazione verso la risposta sensata. Per fortuna di noi vivi non tutto ha senso. Non tutto esaurisce. Anzi, l’esaurimento non esiste affatto.
La angoscia è la trappola. E’ la indecidibilità di cui parla E. Morin. Indecidibilità tra la realtà e la nostra rappresentazione della realtà.
La uscita potrebbe essere la accettazione del relativismo conoscitivo su se stessi. La accettazione del relativismo del “sentire noi stessi: ovvero ci cogliamo nella indecidibilità. Anche nella indecidibilità del nostro giudizio su se stessi. “Chi sono in realtà?” è una domanda alla quale non c’è risposta se non nel relativismo. Ovvero nella relazione con un altro.
La indecidibilità è data dal portare la nostra risposta più verso il nostro giudizio o più verso il sentirci dell’altro.
L’idealismo in questo caso non paga. Non paga fermarsi sulla realtà come rappresentazione.
La nostra realtà avviene attraverso un allineamento della nostra realtà alla Realtà. Allineamento che in ogni caso significa “dentro” alla Realtà. In quanto fuori non si può vivere. Fuori delle sue leggi è morte. Siamo chiamati ad un continuo compromesso con la Realtà ma da “dentro” alla Realtà stessa. Si entra nella realtà come si entra nel Diritto: alsciando fuori qualcosa di noi stessi.
E’ da dentro al Diritto (potremmo parlare anche di sottomissione) che esiste Padre. Anzi il pensiero di Padre è proprio il moto della entrata nel diritto. Non c’è Padre che “dice” il Diritto. C’è Padre che parla il diritto da dentro la capacità di compromesso nella relazione con l’altro. Il Padre stesso è compromesso dal diritto in quanto ha accettato la relazione. Ha accettato la relazione con il figlio.
I giorni che pasano postano sempre da qualche parte. E il tristo del giorno può diventare per l’uomo intelligente la sveglia che lo sveglia al mattino.
Il giorno ha la bocca cucita e non ci dice niente se noi non parliamo la nostra voce. Si arriva a sera senza avere udito una parola che abbia il sapote, l’odore e il calore di un senso.
Il Diritto dentro alla realtà altro non è che un senso che abbia calore. Ovvero la vivibilità per noi umani.
Si può arrivare a sera senza che ci sia stata scoperta durante il giorno. E allora quello è un giorno triste. Non inutile ma solo triste. Si può anche arrivare a sera senza sospesi. Tra le parole semplici che abbiamo udito e le parole complicate che hanno parlato i nostri pensieri.
Nulla di più scivoloso del pensiero che pone la domanda. La domanda dovrebbe essere fatta da dentro la realtà. Il nostro pensiero non sempre si trova in questo luogo. Certe risposte non esistono perchè sono state posta dal “fuori” e non dal di dentro.
E allora esiste solo il giorno dopo che arriva senza che la Nostra Ragione abbia ragione su di esso.
Esiste la forza che mi sento dentro improvvisamente. E la sento realmente. Esiste poi il vuoto terribile che ci chiama. E ci chiama a gran voce. E mi chiama sempre con una domanda. E risposta non c’è.
La nostra massima consolazione sta nelle parole degli altri. In quelle che gli altri lasciano nell’aria o nella carta. Allora ci scopriamo frettolosi di idee. Affamati di idee. Affamati di averne di proprie.
Molte persone ci rivolgono molte domande e ben presto ci accorgiamo che le più sincere non passano per la bocca. E se mai io dessi risposte certo per la mia bocca non passarebbero. Passerebbero semmai per i pori della pelle.
META’. Tutto quello che di serio e vitale avviene nel mondo è META’. Oltre l’apparire. Oltre il suono della voce, oltre lo sguardo che guarda.
META’ è nello sguardo che cerca e nello sguardo che si perde, sapendo che si sta perdendo.
E il mio pedermi è in un “prima eterno”. Tutto ciò che avviene ora ha avuto un prima eterno. Cacciari parla di AIONICO. Un prima in cui giace il senso che però resta velato nel poi. L’amore ha senso nel primo amore. La gioia ha senso nella prima esperienza di gioia. Il dolore fa tanto male perché ci riporta al nostro primo dolore. Noi soffriamo o proviamo piacere in quanto siamo riportati dalla storia nostra in una esperienza della quale non avevamo ragione. Non ne capivamo il senso. Il senso può essere intercorso più tardi. Con la cosiddetta ragione. Ma il segno dell’esperienza “prima” non possedeva ragione. Il nostro è un continuo salto all’indietro.
“E quante ombre risalgono/ simili ad una antica, quasi perduta saga;/ tornano il primo amore e l’amicizia/” (W. Goethe).
Il “prima” è il “primo”. E nel primo il perdersi.
E il vento trasporta. Si pensa sempre da dove viene e dove vada. Eppure esso trasposta soltanto anche se ha un punto di inizio e un punto di estinzione. Infatti è chiamato da un vuoto, da una assenza, da una mancanza. Va sempre a riempire qualcosa.
Il vento non porta mai niente “dentro” all’uomo ma porta il suo “freddo/caldo” sulla pelle dell’uomo. E dalla pelle scorre via con il suo “sapore/dolore”. Tutti ne parlano ma nessuno può dire di conoscere il vento. Tutti ne parlano perché noi siamo attratti da ciò che viene e che va. Non siamo attratti da ciò che si ferma nella nostra casa.
Gli HAIKU di Basho, Buson, Issa dei sesoli XVII e XVIII sono parole lasciate al vento. Sono versi di 5, 7 e 5 sillabe che si mescolano senza tuttavia mescolarsi. Nessun HAIKU dice niente ma suscita soltanto. Come il vento.
La funzione fàtica della poesia è la stessa funzione del vento.
Inverso secco/ Brucia il rimpianto/ Mani minute
Capelli freddi/ Odore di melissa/ E una fiamma
Dolce attesa/ Cani che abbaiano/ Sotto la luna
Qohelet ha scritto mille HAIKU per dire che non c’è “sentire”. Sentire è solo voler sentire. Il vuoto avviene quando non si sente. E spesso per sentire i vuole il dolore.
Sentire è che il vento mi porti, oltre al dolore, anche l’odore di me, del quale tanto sono innamorato. E spesso ci poniamo la domanda se il vento porterà il nostro odore alle narici di chi vogliamo oppure verso il nulla e basta.
Sento sempre: non esiste sentire di non sentire. Soprattutto sento quello che perdo. Sento il piacere in quanto lo posso perdere. Non sentirei se non perdessi.
Porta aperta/ Sopra alla cenere/ Tutto mi hai dato
E’ così. Gli altri che popolanola nostra esistenza sono TU.
“Chi sei tu che vivi sotto tutte queste forme? E’ un TU universale che si presenta per noi sotto forme infinite. E’ il TU del “fuori”, del Besorge (“aver cura”) di Heidegger. Un TU universale si prende cura di noi, anche senza che noi ce ne accorgiamo. Perché la conoscenza avviene fuori. Noi siamo “già” fuori. Siamo nati fuori. Siamo dei “provenienti”. Noi siamo il nostro “da”: la provenienza
Cambia forse il bordo della nuvola?/ Cambiano forse le sillabe della tua lingua?/ Ciò che finisce abbraccia tutto/ E lo fa vivere di vita limpida
Passi: La mano – Nominare è dare vita – Non esiste amore della coppia Bene/Male
La mano è prima di tutto uno strumento prensile. Prima di essere una parte del corpo.
Noi pensiamo alla mano. Forse è la parte del nostro corpo che noi vediamo più esterna, più fuori, la propaggine ultima e più sofisticata del contatto con il mondo esterno. La mano ha quattro protagoniste e una antagonista: il pollice. Il tutto permette il funzionamento.
La mano è alla ricerca dell’altro nel senso della soluzione, ma la mano è anche la cavità vuota che l’altro riempie: dentro alla cavità della mano avviene l’incontro. Tra protagonista e antagonista. Tra pieno e vuoto. Tra dentro e fuori.
Noi conosciamo con la mano perchè di essa abbiamo una rappresentazione di esternità. Di un fuori da noi.
Lavorare, qualsiasi sia il noatro lavoro, è guardare che cosa fanno le nostre mani. Ha ragione Robert Bresson a dire che “L’anima ama la mano”.
Nominare significa attribuire un posto: dare vita all’altro attraverso la attribuzione di un confine. Il Padre nomina: “Conoscerai il padre dal figlio”. Questa è la nominazione del Padre. Il figlio stesso altro non è che la nominazione del padre.
Nominare è dare vita. Parola è vita.
Nominare è l’esposizione, come si presenta il figlio alla comunità. All’altro. Nominare è tragedia: tirare fuori, trahere. Chiamare fuori da un dentro perché la vita è fuori.
La parola è la mano che ti prende il dentro (anima) e la presenta (nomina) al di fuori, nel mondo.
Parlare/Nominare è l’arte del non sapere. Si sa (quando si sa) solamente quando le parole attraversano la bocca.
Il taciuto è un saputo che in qualche modo viene nominato ma non viene parlato.
Dal nominato non si torna indietro. Il nominato è sanzione: se confesso racconto una storia, metto sopra al tavolo un ricordo, non posso più tornare indietro. Non posso che andare avanti anche se mi manca la sicurezza del beneficio che mi aspetta.
Ma l’ipotesi di beneficio c’è: nominare è già godere di un beneficio.
Il beneficio sta sempre fuori, in quanto solo fuori avviene la relazione.
Penso. Peso. Do corpo. Chiamo. Domando.
Il corpo è la sede deputata della nominazione perché si danno nomi solo ai moti del corpo. Non si nomina la stasi. Si nomina l’altro che si muove e che va verso un posto in cui può godere di beneficio. Questa è la salute: nominare il moto della relazione.
Non si chiama “per nome” ma si chiama il Nome dell’altro, ovvero i moti del corpo, il desiderio dell’altro stesso, l’altro come desiderio, come pulsione.
Molte relazioni psicopatologiche hanno come segno contraddistintivo quello della inibizione, della impossibilità a chiamare l‘altro per nome: significa che lo si tace nel corpo, nel corpo del suo desideiro, non lo si fa desiderare.
E’ questa una opposizione al rapporto: “Perché dovrei io? Perché non tu?” E allora il silenzio patologico regna sul suo regno.
Nominare singifica che dò corpo al tuo corpo attraverso la mia pulsione fonica.
Nominare nel Fedone di Platone: i nomi non sono casuali, nel senso che quando si ama si chiama l’altro nel nome. Il desiderio allora diventa pensiero pratico nella nominazione del nome dell’altro amato. Pensare al nome allora diviene pensare al corpo dell’altro.
L’altro nel momento in cui lo si nomina lo si prende in tutto il suo corpo, non in parti. Lo si prende nella totalità dell’essere “chi” è. Il nome è il tutto del desiderio con cui io mi lego all’altro essendo il nome indivisibile.
“Fare per amore”. Si tratta di un fare che presuppone una norma esterna alla relazione? Io faccio per te, a cui sono legato dall’amore ma non faccio il tuo bene in nome dell’amore, lo faccio nel nome tuo. Lo faccio appunto nominandoti.
Alcesti si sacrifica per lo sposo Admeto. Si sacrifica perché il suo corpo viva. Ma non il nome dell’amore. Il nome chiamato a vivere è quello di Admeto. L’amore dell’amore è chiara patologia.
Dare la vita per l’altro significa che la parola “amore” viene seconda al Tu. Prima vieni Tu. Dopo viene l’amore che ci lega. E’ normativo il Tu della relazione non il concetto di amore.
Non esiste amore senza il Tu. L’amore come astrazione può essere certo amore cortese o romantico. E l’amore diviene astrazione nel momento in cui il Tu viene sorpassato come agente normativo.
E’ amore quello di Dante? Esiste Alcesti di Euripide che vuole vivo il Tu del proprio Admeto, scopo della propria vita e della propria morte.
Non esiste amore della coppia Bene/Male. La parola Bene in amore non è prelevata dalla coppia Bene/Male. E’ un Bene che non conosce male.
Mito dell’androgino nel Convivio di Platone: l’amore è ri-congiungersi. Amore è un ri-sperimentare, un ri-costruire. La partenza è il “primo amore”, che equivale al nostro “primo pensiero”. Il bambino nasce nel momento del suo primo pensare e in quanto tale diviene normato, normale in funzione e per merito dell’atto del suo corpo che è il pensiero.
Il pensiero è normativo non per definizine o per ontologia ma in quanto è il “sistema”della relazione: è il modo primo in cui la relazione si struttura come pensiero. La normatività è data dal rapporto con l’altro, coniugata nei due tempi del giudizio: a- la soddisfazione viene dall’altro b- l’altro è sessuato.
Passi: Il bambino – “Chi amiamo noi?” – La memoria dei fatti e degli atti è sfuggente – Obbligo e amore
Il bambino ha esperienza di essere amato in quanto “pensa” di essere pensato. Il “ri” dell’amore, il ri-tornare, il ri-sperimentare sta detro alla esperienza del primo cogito.
Il pensiero-esperienza di amore è un pensiero di “assoluzione dal pensiero di colpa inconscio”.
Il senso di colpa è per l’appunto la negativa del pensiero, è la negativa della assoluzione. Assoluzione è per l’appunto “soluzione” ovvero ucita dalla crisi. Da una parte o dall’altra la crrisi porta sempre ad una soluzione, come insegna Ippocrate. O positivo o negativo. Il negativo è sempre la negazione della possibilità di uscita, negazione del potere di uscire. Dunque della libertà.
Il bambino nasce libero nel pensiero ma non ha ancora “ragione del proprio pensiero” quindi è particolarmente esposto alla offesa dell’altro proprio al suo pensiero. L’altro patogeno patologizza solo il pensiero del bambino.
La domanda nasce subdola e improvvisa. Nasce sempre in merito alla soddisfazione. Nasce dopo la soddisfazione: “E dopo?”. Il tempo non può dare soddisfazione a questa domanda. Il tempo non è fatto dalla pienezza. Il tempo è fatto per “l’allenamento a perderlo”. Passando ci insegna a perderlo. Perdere tempo significa perdere i giorni della vita, e nello stesso tempo la vita è questa “piena” consumazione.
“Chi amiamo noi?” (S. Freud, Contributi alla Psicologia della vita quotidiana).
Amiamo chi l’altro ama. Il desiderio è il desiderio dell’altro. A volte inafferrabile.
Ricordo, memoria, atto passato, condizione relazionale: se io vivo questa esperienza “scendo nei particolari”, vedo un volto, sento delle parole, ho una immagine di un corpo in movimento. Ma tutto è in movimento, a volte per l’appunto inafferrabile, a volte anche indicibile, indecidibile come i numeri di Godel.
Avere ricordo, memoria…. Di una persona è averne la superficie: senza domande e senza perché. Sembra che ci sia una “facilitazione” del contatto, che ci sia una pacificazione. Ricordare i bei momenti e i brutti momenti assieme ad una persona spesso risulta difficile: la memoria salta sempre di palo in frasca!!
Avere il pensiero di una persona significa averne il sentire, possedere per un istante il pensiero su di noi della persona pensata: lo specimen.
La memoria dei fatti e degli atti è sfuggente e può portare dolore proprio perché porta tensione. La vaghezza del pensiero che ci porta ad una persona, alla persona amata, ne esalta la motilità, ne esalta la duttilità. La persona amata è duttile tra le nostra dita nel gioco della memoria proprio perché il pensiero è tanto circostanziato quanto vago. Il pensiero è la presenza. Anche la presenza della assenza.
L’unica arte che esiste è quella di muovere le mani per gli altri.
Più noi pensiamo di dare all’altro e che questi conosca ciò che noi diamo come noi pretendiamo ci conoscerlo, più andiamo incontro a delusioni. La conoscenza di noi stessi è poca cosa. Cosa un po’ maggiore è la conoscenza che gli altri hanno di noi. Soffriamo di più quando gli altri non ci capiscono che quando a non capirci siamo noi. Ma è difficile “conoscere” la conoscenza che gli altri hanno di noi. Essa non viene espressa da parole ma giace nel cuore dell’altro. E nemmeno lui è sicuro della conoscenza che ha di noi.
Siamo in difficoltà anche sulla conoscenza dei nostri ricordi e del nostro passato: esso parla una voce sempre diversa, con parole sempre diverse. E questa parole sono (anche) le parole del nostro presente, le parole del giorno e dell’ora in cui viviamo.
Così la nostra storia è una continua rinarrazione che una sia le perole del nostro passato che quelle del nostro presente: le mescola.
La conoscenza (ma si può parlare di conoscenza?) è una mescolanza di tempi.
>br> Forse chiedere all’altro di capirci equivale a chiedergli di non mescolare questi tempi, di chiudere le partite, di darci le indicazioni di dove noi dobbiamo andare per capirci. O che ci capisca egli stesso, ma con le nostre parole.
Obbligo e amore: “L’obbligo è rispetto all’amore ciò che per i religiosi sono le ore fisse degli uffizi rispetto alla preghiera. E’ una necessità per fare violenza al male che è in noi”. (S. Weil, Quaderno III)
L’amore è libertà. La conservazione ne usurpa il diritto. Il diritto è il desiderio, non la stabilità.
Tuttavia il nostro desiderio di amare si dirige sempre verso la stabilità pur sapendo noi che il moto del desiderio si dirige verso la precarietà.
Ma è difficile anche la conciliazione di desiderio e precarietà. Il mio stare con l’altro è limitato al tempo. Il tempo è breve. Poi la mia corsa al non pensiero, alla solitudine, alla assenza dell’altro perché in qualche modo venga fuori il mio Io assieme alla mia rappresentazione degli altri che popolano la mia vita. Dall’altro fuggo per rifugiarmi nel pensiero degli altri (molti) che popolano la mia vita. Mi disperdo in tutti per non stare con il pensiero su di uno.
Meno altro reale equivale a più altri (solo pensati nella relazione).
Il pensiero degli altri, di quello che farò dopo, spesso salva lo stare con un altro reale.
Nel rapporto ci si distrae anche per poterlo sostenere. Io/Tu si saturano con una certa facilità e velocità. C’è bisogno di altri (pensiero di altri) per tenere in vita il rapporto Io/Tu.
Come nel mito dell’Androgino nel Simposio di Platone le due parti divise di noi si cercano in continuazione, così avviene anche al nostro interno. Ma le parti restano divise. Noi siamo Amore e Odio ma mai la mescolanza delle due istanze. Non siamo acqua calda e acqua fredda che si mescola in acqua tiepida. Qui sta la contraddizione e la divisione dell’uomo. Non si mescola odio e amore come acqua fredda e acqua calda.
Figli dell’amore. L’amore degli altri è venuto prima del nostro essere. Noi secondo atto, figli di un primo atto che recita “rapporto Io/Tu”. Usciamo alla vita uscendo dall’altro.
“Chi ama esce dalla morte” (Giovanni)
Sistema binario. Non è applicabile all’uomo il sistema binario. La scientificità 0-1 è ristretta all’oggetto. Le variabili dell’essere umano la rendono impraticabile come scienza. La scienza della natura non è applicabile all’uomo. Freud lo sapeva?
Continuità della specie. Schopenhauer afferma che quando due si amano dietro di loro si muove la Volontà che usa il loro amore per la “perpetuazione della specie”. Ma il piacere in realtà è una deliberazione della volontà.
Sono o dentro agli altri che con il loro sguardo e il loro giudizio mi definiscono? Paltone nel Simposio voleva dire questo con il mito del’Andrigino?
Guido Savio