Passi : Pattern/Matrix – Figlio è figlio /Padre è Padre in quanto ha un figlio – L’ “Io penso” cartesiano – C’è sempre un oltre – Il massimo dolore è il disonore – Perdonare l’altro – Il lavoro che “ha successo” è un pensiero fisico – “Ama il prossimo tuo come te stesso”
Pattern/Matrix. Pattern è il METAXY, mezzo-Padre che manda il figlio in giro per il mondo. Il tramite. Matrix è matrice. Stampo che riproduce nella fedeltà e nella continuità.
La volontà. “La metafisica dell’amore sessuale” di Schopenhauer è la dimostrazione di come la volontà (pensiero di volontà dell’altro su di noi?) si serva dell’amore tra gli uomini per perpetuare se stessa.
L’uomo è raggirato. Mezzo e non fine della volontà.
Sin-ballo/Dia-ballo.
Il simbolo è il pezzo di sigillo che deve combaciare con quello che l’altro ha in mano affinchè ci sia incontro/rapporto. Se prima non c’è stata divisione (secare), distacco, non ci può essere l’incontro.
Prima avviene la divisione (Padre). Poi viene il rapporto. La scienza è solo sull’oggettivo, non sull’uomo: questo significa che la divisione interna dell’uomo, la sua divisione nel rapporto con l’altro rende impossibile la applicazione della misurazione cartesiana (ascisse e coordinate). La somma delle parti non equivale mai all’intero.
Figlio è figlio /Padre è Padre in quanto ha un figlio. Il posto che noi accupiamo è sempre “secondo” al posto occupato da un altro. Potremmo anche dire che “dipende” dall’altro. Adamo ed Eva sono nudi in quanto uno è visto dall’altro, il secondo viene dopo il primo.
“Tanto per capirci”. E’ questa l’espressione del rapporto. Le parole, il mito, la filosofia, anche la scienza, non sono esaustive di per sé. Sono strumenti “tanto per capirci”, tanto per avere rapporto.
Rapporto/Amore che io ho a disposizione per poi potermi capire.
I miti sono strumenti per rappresentare l’inesplicabile. Non hanno un fondo di verità in sé ma… servono per… (simbolo) mettere insieme la conoscenza dell’uomo.
L’ineffabile. L’indicibile diviene anche indecidibile. Non potendolo dividere dentro noi stessi non lo si può comunicare completamente all’altro. Ma l’ineffabile non è detto che impedisca o comprometta il rapporto.
Digitale/Analogico. Digitale: Cartesio nella suddivisione dell’uomo (Trattato delle Passioni dell’anima). Analogico: l’uomo nel suo essere intero, non sezionato. Probabilmente meno conosciuto ma più “unitario”.
“Io penso” cartesiano. L’errore è partire dall’io penso. Fare mettere assieme il Corpo e l’Anima dalla ghiandola pineale (“io penso”). Da questo errore di partenza è conseguita la “Scientificità” della scienza. Specie la medicina che è un’ arte e non una scienza avendo a che fare per l’appunto con l’uomo in toto (Anima e Corpo).
C’è sempre un “oltre”. Oltre il corpo c’è il bello come meta dell’amore. Il bello è ciò che chiama nella sua universalità l’amore.
Universale: io attraverso l’altro nell’amore per arrivare all’Universale (Bello/Buono). Se mi fermassi sull’altro nella mia azione di amore correrei il rischio di ucciderlo.
C’è sempre un oltre. Oltre l’altro: lui è il rappresentante dell’Universo, Legge, Bello, Buono, Dio. Se mi fermo sull’altro non arriverò mai alla salvezza.
E’ il nuovo che ci chiama in continuazione. Ancora di più se questo nuovo è “il veccchio che ritorna”. Il vecchio che ritorna è il nuovo per eccellenza.
L’”oltre ancora” non è la catena infinita dei significanti di Lacan ma è la trascendenza pura. Trascendere significa spostare il punto di incontro “dall’” altro a “con” l’altro in un luogo che sta oltre l’Io e oltre il Tu.
L’amore è anche sapere entrare nell’altro come un aratro. Tracciarlo (darne traccia) nel corpo ma per oltre-passarlo. Non sempre è facile capire dove l’altro ci consente o ci impedisce l’oltre. Forse non esiste nemmeno questo dove.
L’”oltre” non è nemmeno un “dove” e nemmeno un “quando”.
Quello che conta è l’”intanto” tra il pensiero di vacuità della vita da una parte e l’ineluttabile dall’altra. Quello che conta è ciò che avviene nel particolare. Il particolare che avviene.
La vacuità della vita è tale se paragonata al “tutto”, al un “tutto” della fantasia. Il tutto è il pensiero infantile della realizzabilità. Tutto non esiste, esiste l’universale.
Se io guardo una persona, o la foto di una persona, e fisso gli occhi in modo da non fissare la bocca contemporaneamente, o la bocca distinta dagli occhi… non vedrò mai questa persona sorridere. E’ l’insieme di bocca ed occhi che permette di cogliere l’emozione, la globalità dell’altro, il suo sentire, il suo sentirsi nel momento.
Nelle “Tuscolane” Cicerone si chiede quale potere abbia la sapienza nei confronti del dolore. Parla di Epicuro il quale da dentro il toro di Falaride “avrebbe usato lo stesso linguaggio che se fosse stato nel suo lettuccio” Cicerone non attribuisce grande potere alla sapienza come antidoto al dolore.
Il massimo dolore è il disonore. Non portare a termine. Fare “spigassi”: questo è il dolore e portare dolore all’altro. Il disonore è fare soffrire gli altri. Questo è vero ma non del tutto. Se si ama l’altro lo si fa anche soffrire. Come se si ama se stessi si fa anche soffrire l’altro ma… così è.
“Così è” è la accettazione della necessità e del’ineluttabile, non nel senso tuttavia di “è finita così” (“vanitas vanitatum” del Qoelet), bensì nel senso: “può cominciare tutto da qui”.
“Così è” è anche la accettazione del dolore. Anche il massimo dolore che è il disonore: il non avere portato a termine quello che era da portare a termine.
Il dolore poi non è misurabile dalla natura del dolore stesso (durata, intensità, etc.) ma dal pensiero che noi ci faccciamo sul nostro dolore e su di noi che siamo chiamatia sopportarlo.
La sopportazione del dolore è molto legata all’abitudine e alla educazione che altri ci hanno dato in merito alla sua sopportazione.
Il disonore è il conrtrario del BELLO MORALE.
Tamperanza (SOPHROSYNE) è la sobrietà dell’uomo. In greco sobrietà è KHRESIMOS.
Il tempo è certo un buon medico: il suo passare porta alla accettazione del dolore, porta anche alla consolazione. La conoscenza del dolore in questo senso può aiutare. Un dolore nuovo spaventa, uno vecchio può anche rassicurare. Il tempo è un buon medico per i grandi dolori.
La morte di una persona cara è il più grande dei dolori.
L’essere in trappola è la condizione pirandelliana che la morte dell’altro fa provare. La morte dell’altro inevitabilmente diventa un pezzo della propria morte: questa è la trappola. Ogni spostamento crea una inevitabile reazione. La morte dell’altro è il massimo degli spostamenti. E più si teme la reazione dentro di noi è maggiormente ci si sente in trappola.
Perdonare l’altro per la sua morte “nei nostri confronti” è uno dei modi per uscire dalla trappola, o per lo meno viverla in maniera meno angosciosa.
Perdonare l’altro non significa inglobarlo in noi, abbracciarlo, fare un atto di coalizione, una “pax romana”. Perdonare è un atto di separazione: perdonando l’altro lo lascio nella sua giusta solitudine, nella solitudine del suo pensiero. Non tanto perché io sia assurto a giudice ma in quando offro amore all’altro allontanandomi da lui affinchè abbia esperienza di solitudine.
La assoluzione è la soluzione. Assolvere l’altro significa liberarlo (se questa fosse mai una esperienza possibile) sciogliendolo dai vincoli patologici che lui stesso si è creato rinunciando del tutto o in parte alla soddisfazione. La rinuncia alla soddisfazione è la inibizione. La inibizione è l’unica patologia.
Il pensiero di non assoluzione, che non necessariamente si sovrappone alla condanna, è un pensiero di vincolo al senso di colpa senza passare attraverso la ammissione della colpa reale.
La differenza tra la colpa reale e il senso di colpa è la assoluzione. La differenza si traccia dopo.
La ammissione della colpa reale è successiva alla assoluzione. La assoluzione la dà il soggetto a se stesso o l’altro al soggetto. Capire l’altro a volte è facile, ma farli capire a volte è impossibile.
La accettazione dell’errore, dunque della nostra humanitas, non è misurabile su di una scala di valori. Non esistono errori che possono essere perdonati ed errori che non possono essere perdonati, altrimenti si torna nel pensiero che l’errore deve per forza essere evitato. L’errore esiste in quanto componente della humanitas. Niente errore niente humanitas. Relegarne alcuni nel novero della inamissibilità significa lottare contro la propria humanitas: e questo è il senso di colpa.
Noi, come afferma Massimo Cacciari, siamo dei “possibili”, nel senso che tutto è possibile, nel senso che… ”mai dire mai”.
Quanto piccolo/ Deve diventare il tuo piede/ E quanto esile la tua mano/ Per passare attraverso i miei baci?
Il pensiero di colpa è frutto della civiltà giudaico-cristiana. Ciò è avvenuto con la introduzione del pensiero di ESKATON. La civiltà greca, la sua storia prevedevano l’avvenire, non il fine. Quella cristiana vive sulla finalità. Sul rapporto causa effetto indispensabile nella regolamentazione della storia.
Qui si insinua il senso di colpa. Nella logica… tanto mi dà tanto. Nella logica… se… allora.
Il senso di colpa è un compromesso in riferimento alla angoscia. Individuare la colpa o il colpavole preserva dalla angoscia (dal capro espiatorio di giudaica memoria alle famiglie moderne nelle quali, se nasce un figlio down, si va immediatamente alla ricerca del … colpevole).
Il cosiddetto senso delle cose e dei fenomeni sta dentro alle cose e ai fenomeni. Così pure la nostra colpa. Il senso della nostra colpa. A noi la forza di andare a vedere. E’ questa la fede?
Non è “fede” il pensiero che qualcuno ha messo il senso dentro alle cose. Fede è che il senso viva pure la propria oscurità dentro alle cose, tanto quanto può vivere la sua stessa assenza.
Se mai si potesse parlare di soluzione, e la attribuzione di senso potrebbe rappresentarne un capitolo, questa sta nella domanda, nel movimento del corpo che domanda, non nella risposta. E’ ancora una volta il viaggio l’unica realtà che può stare “dentro” al tempo. Il viaggio popola il tempo. Non la meta, non la conclusione, non il risultato.
Così come il lavoro è un lavorare “di viaggio” e “di tempo”, non è un ottenere un risultato o un obiettivo.
Poi lavoro è solo “lavoro per”. O il lavoro è un pensiero di essere parte di un tutto che è in relazione con il mondo, o è alienazione, o diventa un castigo.
Il lavoro che “ha successo” è un pensiero fisico che l’avvenire del tempo nel lavoro è l’avvenire del proprio tempo nella relazione con l’altro. Con il mondo.
Questa è forse la parte di storia che ci spetta e alla quale siamo chiamati. Questa è forse la Beruf weberiana: il “pensiero fisico” che il lavoro è chiamata di qualcuno, e la chiamata di questo qualcuno non è pretesa.
Non rientra in questa logica la storiella dell’ operaio che spacca le pietre per la costruzione della cattedrale. Qui non è pensiero fisico ma pensiero metafisico. Sublimazione in quanto l’operaio non ha relazione ma sublimazione. Sublimazione in quanto c’è “elevazione “ al di sopra della relazione. La storiella sarebbe valida semmai se l’operaio non avesse il pensiero che il proprio lavoro di spaccare le pietre va “ad majorem gloriam Dei”, ma che altri entreranno nella cattedrale costruita con le pietre che lui ha spaccato per trovare sollievo al proprio dolore, per ringraziare Dio, per riposare lo spirito, per stare bene in qualche modo.
Deve intercorrere in ogni caso reciprocità. Le pietre da lui spaccate sono sono la relazione che egli mette in atto per dare beneficio all’altro che vorrà goderne. Non le pietre del proprio Super-Io.
Il buon operaio, il buon lavoratore è colui che fa le cose bene anche dove non si vedono.
Nello “stare dentro al tempo” la soddisfazione sta al momento, è viva nel momento. Non alla fine. In quanto tale la soddisfazione avviene solo se la si pensa perdibile.
Il vero investitore è colui che investe (nel tempo) intendendo la possibilità della perdita come componente economica irrinunciabible per la riuscita dell’investimento.
In merito ancora al lavoro, il nevrotico non si chiede se sta facendo per l’altro. Non si chiede nemmeno se sta lavorando per se stesso. Il guarito è guarito in quanto si pone la domanda del senso del proprio lavorare. Si pone la domanda sulla reciprocità.
“Ama il prossimo tuo come te stesso”.
1- Se ami te stesso ami anche il prossimo tuo 2- Se ami il prossimo tuo ami anche te stesso
L’amore è la comunione spaziale e temporale di 1 e 2.
L’altro è il “ritorno”. Occasione sempre presente che noi abbiamo per ritornare alla prima esperienza di soddisfazione, per ritornare al primo amore.
Ogni esperienza di amore è un oltre in quanto rimanda ad “altro” già sperimentato nella nostra storia. Che poi esista una specie di Ur-esperienza (esperienza originaria) è altrettanto dubitabile. La prima esperienza molto probabilmente altro non è che un fantasma. Probabilmente Laplance e Pontalis nel loro libro “Fantasma originario / Origine del fantasma” è di questo che parlano.
Il valore simbolico del fantasma originario funziona in quanto ogni altra esperienza va ad incastrarsi dentro questa matrice.
Guido Savio