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MOLESKINE: APPUNTI DI VIAGGIO 0

Passi: KOAN – METAXY – Il gallo di Pietro

Sarà poi valido il KOAN? Se io fisso il mio pensiero su di una parte del mio corpo il KOAN non vale. Il pensiero. Perchè il pensiero non sia una “fissa” praticato su di una parte del proprio corpo lo devo esportare. Il KOAN è valido solo su di un oggetto “esterno”. Se io tocco la mia mano destra con la mano sinistra non tocco un oggetto perché la mano sinistra “sente” che la mano destra la tocca. E risponde. Passa il tempo. I numeri cambiano, il tempo si muove e si vuota, il pensiero è distratto.

Il PHAINOMAI di Heidegger non può sposare il KOAN: appare ed è apparenza e si nasconde. Sarà pure un nascosto da qualche parte il coraggio di pensare il pensabile, senza paura che dal pensarlo non si possa più tornare indietro? Che il pensato sia timbro indelebile. Non si può né scrivere, ne dire, nè pensare tutto il pensato: ci si annegherebbe. Questo è il punto di non ritorno: quando si ha dato corpo al pensiero il peso è solo tuo.

METAXY predica da i suoi quaderni in continuazione Simone Weil: il punto tramite, passaggio. Ma da dove a dove?

Il tempo sarà mai passaggio. Quando il tempo poi è dolore nel suo passare e nel suo non passare.

Se il METAXY fosse un trasporto, anzi un passaggio, una mediazione. Ma anche nell’aspettare il tempo passa. La sospensione è fittizia perché tutto avviene sempre. Davvero la EPOCHE’ è lunga un’epoca, non si scappa dall’esserne vissuti.

È il gallo del mattino. Dopo le 5.05. Il gallo di Pietro ha detto: non c’è ritorno, quello che hai pensato , hai pensato, quello che hai detto hai detto.

Passi : Contraddizione – La condizione indispensabile della alterità – Salvarsi è un atto di intelligenza – Il tempo

In-essere, afferma Heidegger. In, hah, abitare. Chissà mai chi abita dentro di noi se manca il coraggio. Ma quanto è sacro (il fuori, il non abitato) il non detto, quelle parole che restano in gola, poi pensieri che restano in testa pallidi e timidi, quelle parole che restano nell’inchiostro dentro alle penne.
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Sacer è dentro, non fuori. Non dire sapendo di non dire, che il dolore è per sé e per gli laltri. Anche se noi siamo “fuori”.

Del pensare non è possibile fare a meno. Dell’altro non è possibile fare a meno. Pensare è tenere viva la alterità parlando a se stessi. Si pensa il pensiero. Chi sia poi il “se stesso” a cui si parla? (Gilbert Ryle). E’ impensabile la non relazione.

Dentro e fuori: da verificare la conciliazione poi del pensiero che è sempre portato a “risolvere”.

Il principio di realtà in Freud: “Esame di realtà: processo postulato da Freud che consente al soggetto di impedire la possibile confusione tra ciò che il soggetto percepisce e ciò che rappresenta soltanto” (Laplanche e Pontalis, Enciclopedia).

Non esiste statica ma solo dinamica. E la dinamica tra dentro e fuori e fuori e dentro. Seconda via è la questione della veritabilità del giudizio.

La cipolla di Peer Gynt e il lamento di Qoelet: il senso è pur sempre nello s-coprire.

“Ma il mondo è la alienazione estrema, è cioè l’infinitamente distante da ciò che in verità è. Il mondo non è. È il contenuto di una volontà destinata a rimanere intenzione (…). La alienazione estrama è divantata non nel sneso che la volontà di potenza riesce a-far-sì che l’ente non sia, ma nel senso che ormai tutto ciò che viene pensato e operato nella civiltà occidentale è ciò che si pensa si oprra in relazione alla perduasione nascosta ma dominante che l’ente non sia, cioè sia un niente” (E. Severino, Il Destino della Necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 37).

Più che l’ente a non essere è il senso che il pensiero dà all’ente che non esiste. La mancanza vera è sempre una mancanza di senso. Mentre il senso, se c’è, quando c’è, è il passaggio verso l’esistenza “morale” dell’ente.

Anche con il non-essere del Mondo c’è relazione nella inevitabilità esperienziale della presenza della assenza.

“Una profonda conoscenza della Torah può essere raggiunta solo contemplandola” (G. W. Leibniz, Monadologia).

“Come se non fosse inevitabile che qualunque cosa che tu voglia indicare, come ora hai fatto, contenesse in sé l’idea di esistenza e di non esistenza” (M. T. Cicerone, Tusculane).

Esiste contemporaneità dell’essere e del non essere: fondamento della salutare contraddizione. Esiste allora in noi il fondamentale dialogo interno tra il nostro essere e il nostro non essere? La alterità è il vero passaggio da una condizione all’altra?

La presenza della assenza è la condizione che consente il dialogo interiore, ma consente anche la respirazione e la vita, il moto e la penetrazione del mondo. La casa è una cavità dove si entra senza che lo spazio sia vuoto. La mano è una cavità ma nello stesso tempo è anche una propaggine. Le quattro dita sono la cavità. Il pollice (antagonista) è la propaggine. Il protagonista non può esistere senza l’antagonista: la mano ne è l’insegnamento.

“Io sono questo. Ma se ciò avvenisse più ostentatamente proprio quando ‘non’ è questo ente? E se la costituzione dell’Esserci, che è sempre mio, fosse il fondamento del fatto che l’Esserci innanzitutto, e per lo più, non è se stesso? (M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, p. 151).

La condizione indispensabile della alterità nel dialogo interno. E del dialogo esterno. “’Gli altri’, in questo caso, non sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto. Gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e tra i quali quindi, si è anche. Questo anche-esserci-con- essi, non ha il carattere ontologico di un essere-semplicemente-presente’con’ dentro un mondo. Il ‘con’ è un ‘con’ conforme all’E e l’’anche’ esprime l’identità di essere quale essere-nel-mondo prendente cura esserci prendente cura e preveggente ambientalmente. ‘Con’ e ‘anche’ sono da intendersi esistenzialmente, non categorialmente” (M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, p. 153)”.

“Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo veramente un mondo, dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo” (Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione, Bompiani, p. 25)

Salvarsi è un atto di intelligenza. Cioè fermarsi al momento in cui il proprio corpo trova piacere-pace-armonia. Quando cogliamo che c’è cessazione di dolore, come Socrate nel Fedone, sciolto dalle catene, allora ci fermiamo a affermiamo: UBI SUM, IBI PATRIA. Dove sono, là c’è il piacere.

E la mancanza di piacere è preparatoria al dopo, che in quanto piacere andrà perduto a sua volta.

Cogliere la propria potenza è cogliere la possibilità di fermare il proprio corpo in pace sopra al materasso e poter dire:” Io sono solo in quanto sorretto dal materaso”.

Tutto ciò che avviene avviene al di fuori della regola dell’obbligo e del dispositivo. Dispositivo è on-off, senza possibilità di scarto o di grigi.

Se la castità è poi offerta, poi compensata da… cagnolini, donazioni, adozioni a distanza, opere di bene… non è castità, non è servita a nulla perché si trattava di un obbligo. E chi sperava di salvarsi in questo modo… non sappiamo se si è salvato!

BESTMIT, ERLEUCHTETES SU SEHEN NICHT DAS LICHT (destinato a vedere ciò che è illuminato, non luce)

Chi ci assolve, chi ci riabilita?

L’angoscia è il nemico.: è solo legata al tempo. Forse tutti gli affetti e le passioni sono legate al tempo.. L’angoscia è l’ora che non ha possibilità nel futuro. Ora e non prima e non dopo. Ma ora. L’angoscia è sempre ora. L’angoscia è il futuro che non c’è.

Tempo è la massima categoria perché sposta in continuazione tutte le altre categorie, sposta i sensi e i fini.

Il tempo è la massima categoria perché è sempre una domanda. E domanda è sempre futuro. La domanda nasce dalla mancanza e dunque nasce per davvero. Inizia. E’ un ‘chi’ sempre che inizia. E chi inizia, chi domanda, comanda sempre verso la pacificazione.

Esiste tempo solo come tensione a concludere? Concludere significa rispondere alla domanda sul proprio fare. Anche nel senso di “avere fatto abbastanza”.

Abbastanza. Significa “il facibile”. Il facibile è l’istanza morale. Nella sua risposta che non sarà mai una risposta oggettiva. Massimo della sovranità. Risposta significa saper mettere un punto alla fine della propria frase.

“Abbastanza” è il punto.

E’ anche gravoso ma anche gioioso sentire le Necessità che incombe: questo s’ha da fare!

Passi : Quello che l’altro può fare è per noi imperscrutabile – L’anima è il nostro corpo – Noi siamo solo “dentro” all’altro

Quello che l’altro può fare è per noi imperscrutabile. L’altro anche ti dà la vita, cioè il pensiero che l’altro….

Il pensiero che noi abbiamo dell’altro fa vivere con maggiore profondità anche il pensiero che noi abbiamo di noi stessi. Noi traiamo vita nel pensare all’altro. Nel senso di averne cura ma soprattutto nel senso di trattarlo bene.
>br> La comunione è sempre: è il tempo che due consumano assieme. Ogni evento, ogni accidente, ogni vita, ogni relazione si incontrano e si incastrano sempre. Non perfettamente ma sempre.

Se qualcuno si dà a me è come si desse a se stesso. Rinuncia non è perdere ma guadagnare: “Ci si perde per ritrovarsi”.

Il perdere non è mai perdere il bene. Si perde sempre il male, la inibizione, la malattia, fosse anche questa la nostra stessa vita.

Dandosi all’altro si perde la propria patologia.

Noi siamo solo “dentro” all’altro. Amore e rapporto sessuale altro non sono che questo. Il “dentro” all’altro è la nostra identità. Se mi perdo è per ritrovarmi. Cioè mi ritrovo se prima mi perdo.

In questo senso “perdo” significa guadagno, cioè ho soddisfazione proprio per il fatto che sono “dentro” all’altro. Il vivere è solo dentro all’altro nel senso della libertà che l’altro ci dà conferendoci i nostri confini.

Ma a perdersi è sempre il corpo: “Chi vuol salvare la propria vita la perderà. Chi è disposto a perderla la salverà.”

L’anima è il nostro corpo. Non c’è contraddizione in questa frase. L’anima è il desiderio come il corpo è il movimento che il desiderio mette in atto. La perdibilità del corpo è la perdibilità della propria patologia, della propria opposizione al rapporto. Chi vive l’inibizione infatti teme come angoscia la perdita. E teme anche come angoscia la possibilità stessa del fare. Il fare è l’opportunoità che l’angosciato fugge perche vede la possibilità della perdita. Perdere qui equivale all’essere.

Ma stare dentro all’altro come agente, formatore della mia identità non sempre è semplice. Trattandosi di una questione di fede da un lato e di giudizio (su se stessi) dall’altro. Noi viviamo tra la fede nell’altro e il nostro giudizio su noi stessi e sull’altro. La maggiore difficoltà (e qui può annidarsi anche il sospetto) è quando fede e giudizio entrano in contraddizione o il conflitto.

Fede è entrare nell’altro. Giudizio è uscire dall’altro. Ma fede e giudizio costituiscono anche la nostra forza. Essendo la nostra forza la capacità di accettare la nostra contraddizione. La nostra “internità” è la nostra stessa contraddizione.

Forza è la parola del compromesso, della mediazione, del rapporto, della relazione, del sesso inteso come atto giuridico che fonda i due che lo compiono.

Coraggio è la forza messa in atto. Il coraggio è quello di sapersi perdere. “Sapere” che qui non ha a che fare con la conoscenza ma con la passione..

Non si sa quello che si sa nel senso della conoscenza ma nel senso della passione. Nel senso che lo si sente, lo si sente nel corpo: il corpo dice sempre la verità.

POESIS è la passione dell’anima.

Passione nel senso di agitazione. Sia agitazione che mi viene dall’altro ma agitazione che mi viene dal fatto che sono dentro all’altro. Passione non della passività ma della domanda e della ricerca. Io cerco me stesso dentro all’altro. Ne scruto le parole e i movimenti per sentire, per capire.

“Dentro” non è contenzione (ambito della madre), ma libertà (ambito del padre). Padre infatti è colui che non contiene l’altro ma lo libera.

Io sono agitato in quanto la domanda sottostante è una domanda o di “confine” o di “identità”. Che poi può essere la stessa cosa. Solo le “sponde dell’altro mi possono dare una risposta.

Confine è uguale a identità. La traccia è nella pelle, in ciò che tocca l’esterno e l’altro del nostro dentro.

In questo senso Nietzsche afferma:”Non esiste maggiore profondità che la superficie”.

E’ l’altro che mi agita. La agitazione è sempre centrifuga. Non può essere centripeta: non mi porterà mai verso me stesso, verso il mio interno. Ma verso il mondo, il fuori, l’altro.

Dare e avere nella relazione avviene infatti sulla pelle. Ci si mette la pelle e si perde o si salva la pelle nel dare giusto e nel ricevere giusto. Dare e ricevere cura. Limite e confine. Li si conoscono le rispettive identità, anche se poi queste dovessero rimanere misteri. Reciproci misteri.

Guido Savio

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