INTRODUZIONE
Ritengo che non esista una realtà più difficile da definire, una istanza più ardua a cui attribuire un significato di ciò che è contenuto nella frase “essere se stessi”.
“Sii te stesso”. Bisogna essere se stessi”, “Comportati come se fossi te stesso” sono frasi che sotto certi aspetti noi tutti abbiamo sentito migliaia di volte. Frasi che ci vengono suggerite dall’altro che desidera che noi “risolviamo” una nostra questione o “la” nostra questione. L’altro ci dice che nella nostra “naturalità” noi possiamo superare il nostro problema.
Sta di fatto che l’espressione “essere se stessi” richiama ad una sovrapposizione, ad una coincidenza che da un lato prevede essere/dover essere, dall’altro essere/naturalità. Lasciamo perdere per ovvii motivi la questione del dover essere che ci porterebbe troppo lontano verso i lidi del rapporto tra Io e Super-Io e occupiamoci invece della questione del rapporto tra noi stessi (corpo e mente) e naturalità che ci chiama ad essere tali.
Sembra come già detto che la cosa sia tutto sommato facile, ovvero che essendo “se stessi” il nostro rapporto con noi stessi e con il mondo sia più semplice e in fin dei conti, moralmente più congruo. Tuttavia per essere se stessi è necessaria la conoscenza. E’ necessario che noi abbiamo in testa per lo meno un abbozzo della nostra identità. La quale nostra identità verrà poi giocata e spartita con l’altro all’insegna della onestà e della naturalezza.
E’ evidente che se io mi comporto in modo naturale con me stesso e con l’altro non posso che provarne beneficio e salute; tuttavia resta irrisolta la questione del “chi” sia io nella mia naturalezza. E qui entra la Filosofia.
FILOSOFIA (SUL NUOVO)
Non ci soccorre il “vivi secondo natura” degli stoici perché lascia ancora aperta la questione della conoscenza e del sentire “chi” in realtà noi siamo. D’altra parte non possiamo nemmeno restare fissati sulla questione della difficoltà della conoscenza, della conoscenza razionale della nostra naturalità, altrimenti, come si dice volgarmente, non ne diamo più fuori.
Si cominci allora. La nostra esistenza è esistenza di soggetti “che iniziano”. Noi siamo “Chi” inizia. Lo dice a chiare lettere Massimo Cacciari nel suo “Sull’inizio”: “ Inizio è il verbum per il quale il mondo è fatto”. Più chiara di così non si può: chi inizia qualche cosa imprime in se stesso e alla cosa il massimo della determinatezza dell’esserci. Ovvero si catapulta nel mondo con un proprio nome e con un proprio progetto. Progetto che viene da una mancanza. Io mi butto a coprire quello che coperto non è, mi butto a fare quello che altri ancora non hanno fatto ( e questa azione può essere benissimo una parte della mia stessa identità, del mio “essere me stesso”).
A iniziare non siamo obbligati: l’inizio è solo una possibilità. Potremmo iniziare noi stessi in altro modo o potremmo anche non iniziare affatto. In ogni caso l’Inizio è l’ek-sistere. E’ la rivelazione di me stesso al mondo. E’ un atto in cui io compio me stesso rivelandomi per quello che sono. Mi svelo al mondo portando la mia nudità, il mio essere, come atto iniziale della mia vita stessa.
Purtuttavia il nostro essere “Chi” inizia ci offre ancora scarse garanzie sulla nostra naturalità, sul nostro essere noi stessi. Noi non siamo noi stessi nel senso di essere stati naturalmente infanti e dunque appellarci a quella identità. Afferma in proposito Agostino che va abbandonata alla sua cara Lethe l’età del fanciullo. “Sed hanc aetatem omittamus, quae nec interrogari potest, quid in se agatur, et nos ipsi eius valde obliti sumus ( Agostino, “De Trinitate, 14, 5, 8). Come dire che la mia stessa memoria non mi può sorreggere nel pensiero della mia naturalità. Infatti noi nella nostra vita procediamo più dimenticando le cose che ricordandole, e dunque anche la nostra, per il momento in formazione, naturalità, non può tanto basarsi sulla “natura” dell’infanzia o della adolescenza.
Saremmo soggetti troppo “fissati” se la nostra naturalità coincidesse con i pensieri o con le azioni della nostra infanzia. L’infanzia non è uno stampo, e per primo Freud ne mise in dubbio la “veridicità”. Anche se la nostra infanzia ci insegna, e non potrebbe essere altrimenti la “Elpis”, la speranza proprio verso il lavoro più grande che è quello di essere noi stessi, non può trattarsi di speranza della conoscenza “esatta” di noi stessi, della nostra natura più intima.
E su Agostino resta Roberta de Monticelli quando, partendo dal formidabile assioma shakespearisno che “ci sono tante più cose tra cielo e terra di quante ne comprenda la filosofia”, afferma che, sempre parlando di inizio e citando ancora Agostino: (“Initium ergo esset creatus est homo, ante quem nullus fuit. La Città di Dio, XII, 20) “Fu creato, dunque l’uomo, perché fosse un inizio. Ci fosse un inizio, ci fossero inizi. Insomma, perché ci fosse il nuovo”.
Vedrei dunque in questo “nuovo” la prima istanza caratterizzante l’essere se stessi. Il pensiero che noi possiamo avere di essere nuovi, una novità nel mondo, una unicità, una irripetibilità. La ricaduta principale dell’esperienza del nostro spirito è quella di “divenire” sé attraverso l’essere nuovo in questo mondo, oltre quello che si sapeva.
“Non cercare che le cose vadano come vuoi tu, ma cerca di volere che vadano come vanno, e la tua esistenza scorrerà felice”. Questo afferma Epiteto nel suo “Manuale”. Ovvero l’adattamento al corso delle cose e al corso della vita. E anche qui vedrei la novità, nella accettazione di se stessi nuovi al mondo, se stessi introdotti alle regole del mondo e capaci di adattarci ad esse. Il nuovo non cambia le regole del gioco. Il nuovo se ne fa carico e le amministra nella sua saggezza. Essere se stessi è qui il principio di accettazione che esiste un prima e che esiste un dopo. Il nuovo di cui io sono portatore non deve stravolgere tale equilibrio.
Nuovo come afferma Lao Tzi quando afferma che chi entra nel mondo non può stravolgerlo con la sua nuova presenza, o come affermano le Upanisad che la verità di cui ognuno di noi è portatore si cela dietro ogni cosa che noi viviamo nella vita e ne costituisce l’essenza (atman). O come afferma Seneca nei suoi Dialoghi: “La vita è felice se è consona con la propria natura, ma a tanto non si puù giungere se, in primo luogo, la mente non è sana, anzi, se non è in continuo possesso della propria sanità, poi se non è forte e volitiva, inoltre, capace di adeguarsi alle singole situazioni, interessata, ma senza ansie, al proprio corpo e a quanto lo concerne, ed anche amante di tutte le altre cose che ornano la vita, senza entusiasmi di sorta, pronta infine ad usare i doni della fortuna, senza farsene schiava”.
Due punti allora ci vengono offerti. Il nostro “essere noi stessi” ha a che fare con un pensiero di essere un “nuovo” che entra nel mondo. E in secondo luogo questo “nuovo” che entra nel mondo, sa stare al mondo, sa adattarsi alle sue regole.
PRATICA (ORDINE E AMORE)
Un altro punto sull’essere noi stessi. “L’amore instaura una esperienza di realtà che non ci sarebbe altrimenti, la progressiva cognizione di una essenza individuale, insieme con la sua promozione,” scrive Roberta de Monticelli nel suo “L’ordine del cuore”. Un passo oltre. Vale a dire che il nostro essere noi stessi ha strettamente a che fare con una esperienza empirica: quella dell’essere amati o meno. Allora essere se stessi è limite, posto per l’altro che mi ama; oppure è vuoto, posto dall’altro che non mi ama. Tra questi due poli esistono infinite sfumature ma che viaggiano tutte più o meno nella logica del confronto. Io mi confronto con l’altro per sapere se sono amato o meno e dunque se posso lasciarmi andare all’essere me stesso, posso lasciarmi andare ai miei limiti. E per l’uomo moderno la questione è sempre più difficile in quanto è costretto a misurarsi con agenzie e entità esterne che lo chiamano alla massa, al gruppo, alla omologazione.
Ma forse c’è una questione che può tagliare la testa al toro nella constatazione della coincidenza tra il proprio io e la propria natura: il benessere del corpo. Ovvero se il mio corpo sta bene significa che io sono in armonia con me stesso e dunque “sono me stesso”. Altrimenti no. Potrebbe essere una cartina di tornasole che regge. In fin dei conti il corpo dice sempre la verità e non mente mai, soprattutto quando si tratta di salute e malattia: se il mio corpo sta bene significa che sono in armonia con me stesso e con il mondo che mi circonda.
Altra cartina di tornasole potrebbe essere l’ordine (o il disordine) che regna dentro di noi e ci fa “sentire” la maggiore o minore vicinanza con noi stessi.
E sappiamo come “Il disordine dell’Io –nozione questa che corrisponde ad una ricchissima fenomenologia dell’angoscia in tutta la sua gamma – impedisce di vivere, conoscere, amare”. Scrive ancora la de Monticelli in “L’Allegria della Mente”. Dunque nell’ essere se stessi è meglio essere il figliol prodigo che almeno pecca alla grande, ma con passione, piuttosto che essere l’altro fratello che è sempre rimasto a casa a pascere le vacche.
D’altra parte Agostino è ancora chiaro: il non essere se stessi è il disordine (“In te ipsum rede”). Agostino afferma che una volta che noi ci siamo accorti del disordine del mondo, possiamo capire il nostro disordine interno. Così come ha fatto il figliol prodigo.
Siamo internamente angosciati (e dunque disordinati) perché siamo distratti da tutto quello che il mondo ci propone. La angoscia provoca la cosiddetta “fuga da se stessi” che come affermava Pascal mi porta per l’appunto fuori dalla mia stessa giurisdizione, ed io non solo non mi riconosco più ma non sono neppure più me stesso.
I richiami del mondo non sono le sirene di Ulisse, ben inteso, ognuno ha orecchie da intendere, purtuttavia una esorbitante offerta di “soluzioni facili” mi può allettare nel tralasciare il mio lavoro interno di costruzione di una mia identità e di un mio essere che trova nell’amare e nell’essere amato la “pratica” della propria istituzione.
Il figliol prodigo è un inquieto. “Inquietum cor nostrum, quoniam nos ad te fecisti” afferma Agostino nelle “Confessioni”. Siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio in quanto anche egli è “curioso” e nello stesso tempo “inquieto”. Solo comprendendo che cosa sta a cuore al nostro cuore noi possiamo comprendere veramente chi siamo. Solo sentendo “chi” amo non ignoro chi sono.
La questione dell’amore è portante nella conoscenza: io mi riduco a me stesso (e qui il poeta Mario Luzi è maestro) nel momento in cui mi do completamente all’altro, eleggo l’altro il fine e non più il mezzo non solo dei miei pensieri ma anche della mia pratica.
E anche il libero arbitrio può trovare qui una pacificazione, io sono io nel momento in cui posso agire conformemente al mio volere, comunque questo volere sia determinato.
Essere se stessi, in poche parole, significa “voler volere qualcosa”.
E questo agire è visto da Agostino come non tanto il fare il proprio essere secondo la propria volontà, ma farlo “volentieri” (Agostino introduce in capitolo del piacere nell’essere se stessi). La volontà diventa un “volentieri”. Come se Freud avesse capito da qui l’importanza del “Principio di Piacere” nella fondazione della salute dell’individuo: è sano “chi” vuole (essere se stesso).
La nostra singola storia allora si declina nella storia degli altri, come affermano Madera e Vero Tarca in “Filosofia come stile di vita”. Intendendo pure che il vero e falso che esistono nel sentire noi stessi “autentici” ha a che fare con la libertà , la quale si riconosce come tale nel momento in cui noi sappiamo dare un senso alla nostra vita.
Altro punto. Essere se stessi è saper dare senso alla propria esistenza. Non il senso “esatto”, ma “il nostro senso” alla nostra capacità di amare ed essere amati.
“Renditi abituale il pensiero che la morte per noi non è nulla: giacchè ogni bene e ogni male è nel senso, e la morte è privazione di senso”. Questo recita Epicuro nella Lettera a Meneceo. Tutto sta nel senso che noi diamo alla vita che è frutto da una parte della volontà (il volentieri di Agostino) e dall’altro del senso che noi sappiamo imprimere alle nostre esperienze. Volontà e senso sono i binari sui quali corre il nostro “essere se stessi”.
SPERANZA E PUDORE
Torna la questione della speranza.E la voglia è sempre voglia di esistere, quella che Natoli sintetizza benissimo nel suo “Dizionario dei vizi e delle virtù”: “La speranza scaturisce dunque dalla voglia di esistere (…) In greco speranza di dica “elpis” (…) da cui il termine latino “voluptas”, che vuol dire voglia, piacere. La speranza è dunque in primo luogo voglia. Essa scaturisce dalla voglia di esistere proprio ad ogni ente”.
Questa speranza è ineliminabile nell’uomo e rappresenta la nostra fedeltà alla terra, alla natura, alla fin fine a… “chi siamo realmente” anche se noi non abbiamo piena conoscenza del nostro essere. Ed essere noi stessi è anche essere diverso dall’altro. Allora il pudore diviene la parola della divisione tra noi e gli altri, come scrive Monique Selz in “Il Pudore”: “In questo senso Rousseau considera che la comunione non va confusa con la fusione, e l’amore non ha prezzo solo a condizione che rispetti l’indipendenza, ossia ‘tutto ciò che ci rende noi stessi’”.
La funzione del pudore è allora proprio quella di circoscrivere un nostro spazio privato, e quindi di mantenere una certa distanza rispetto agli altri. Una distanza che garantisce vita e amore.
E’ chiaro allora che per amare bisogna sapersi separare, e che bisogna saper nello stesso tempo sapere “perdere se stessi nell’altro, senza però che tale perdita sia totale, per amare e per vivere “ scrive ancora la Selz.
Il pudore aiuta a trovare il nostro equilibrio che tuttavia non è mai del tutto sicuro, grazie alla nostra capacità di tenerci uniti all’altro e nello stesso tempo separati.
E’ poi questa separazione che ci consente, questo nostro spazio circoscritto, che ci consente di creare, di conferire uno spazio per l’altro. Il pudore allora determina uno spazio proprio a ciascuno proprio nel fatto di garantire i limiti, e di proteggerlo anche dalle intrusioni dell’altro che non sempre è “voluto”.
VIRTU’
“Nella antichità classica il bene era evidente per sé. Di fatto che lo si faceva coincidere con l’andamento stesso della natura. ‘Agisci secondo natura’, dicevano come già visto infatti gli stoici. Nel medioevo cristiano, poi, essere e bene erano il medesimo: “’ens et bonum conventurtur’”. Questo scrive ancora Natoli nel suo “Dizionario dei vizi e delle virtù” alla voce “Virtù”. E d’altra parte anche nella modernità virtuoso non è colui che si conforma ad una legge prestabilita, ma colui che sa divenire norma a se stesso, che sa assumere su di sé, e anche in maniera consapevole, la propria stessa finitudine.
La finitudine della nostra vita ci porta a ricercarne il senso, proprio come affermava Socrate quando era alla ricerca del pensiero che giustifica la vita, che ne chiede ragione, che ne chiede un senso: e questo senso non solo per me, per te, ma per tutti. Il nostro vivere è un continuo prendere posizione: avere credenze, opinioni, convinzioni, fare scelte e sapere agire, per noi stessi e per tutti quelli che attorno a noi vivono.
La pienezza del vivere avviene infatti solo dentro ai limiti. E questa pienezza si sperimenta anche nella sofferenza. E ancora una volta agostinianamente, come afferma Bodei nel suo “Ordo amoris”, avviene nella cosiddetta “trinità umana” che è composta di intelletto, volontà e amore, per l’appunto. Esiste poi anche la trinità divina, ma a noi piace leggere questa citazione di Bodei intendendola come fede dell’uomo che crede in se stesso, in questa vita prima che in quella ultramondana, e nello stesso tempo è conscio del proprio limite: “…che la resurrezione è possibile dopo ogni rovinosa caduta, che la vittoria verrà assicurata dopo ogni umiliante sconfitta, che la memoria delle passioni resterà fissata senza che il loro peso schiacci l’animo come un macigno”. Conscio del proprio limite forse è l’espressione che maggiormente si avvicina alla nostra questione, l’”essere se stessi”.
CONCLUSIONE
Ma perché allora se l’essere se stessi è così fondamentale per la nostra vita, ci risulta così difficile esserlo? Una delle cause come abbiamo visto, è senza dubbio la conoscenza, in quanto conoscere se stessi implica una sovrapposizione tra il soggetto che vuole conoscere e l’oggetto che deve essere conosciuto. Ma non credo che la difficoltà si esaurisca tutta qui. Essere se stessi è difficile perché ci richiama sempre ad una professione, come una professione di fede. E tale professione è il superamento del pensiero che gli altri possano farmi del male nel momento in cui io mi manifesto me stesso. Noi ci sveliamo agli altri mano a mano nel tempo, con lentezza. Allora può nascere una confidenza che appunto fede è. Confidenza che la mia intimità non verrà violata.
Eppure io non mi dico mai completamente all’altro; e questo è un bene. E’ un bene perché in questa maniera faccio esercizio del mio pudore: non dico tutto all’altro non per reticenza, ma per rispetto nei confronti dell’altro, forse per non scaricare tutto il mio peso su di lui. Afferma Nietzsche: “Bisogna parlare solo quando non è lecito tacere”. Pudore dunque, che significa che chiamo in causa l’altro solo quando ce ne è assoluta necessità. Si tratta di una “giusta difesa” per me ma anche per l’altro. Io sono me stesso nel momento in cui so anche tacere me stesso, nel momento in cui so essere centrato su me stesso, nel momento in cui io sono sovrano di me stesso, ovvero sono autosufficiente, so stare da solo come momento preparatorio poi per l’avere relazione con l’altro.
GUIDO SAVIO