AGIRE NELL’UTILITA’
Temperanza
L’amore è la giusta ricerca di soluzione, se vogliamo anche di pacificazione rispetto ad una esperienza passionale e dunque fortemente mobile che viene in precedenza. La soluzione è dunque una esperienza che tanto sarà facile risperimentare quanto maggiore sarà stato il “risparmio” che noi avremmo saputo operare nelle occasioni precedenti. Non si predica qui la politica del risparmio delle energie in amore ma un “saperci fare nel tempo”: la solita questione di saper porre tempo tra il momento della eccitazione (chiamata) e il momento della soddisfazione. E qui potremmo anche riferirci al tempo di saper aspettare l’altro. Il tempo dell’amore è la frase: “Io ti aspettavo e allora tu sei venuto”: è sempre il tempo dell’avvento che porta alla soluzione. La temperanza è l’azione alternata di timone e attenzione di Simone Weil, il prendersi cura di Heidegger, il METAXY di Platone (“l’amore non è il mezzo, ma la via di mezzo” che diviene allora strada praticabile). Temperanza è delicatezza e leggerezza nel rapporto con l’altro. Con un linguaggio colloquiale potremmo dire non passare davanti all’altro, non parlargli sopra, non coprirlo insomma con la nostra presenza.
Ma la temperanza non è la intoccabilità, né mia né dell’altro; temperanza non è la nicchia nella quale rifugiarsi e dalla quale giudicare il mondo da assenti il mondo stesso: il mondo lo si capisce solo da dentro.
Temperanza è anche la relativa passività della frase “Tempo al tempo”: ogni evento ha bisono del suo tempo per maturare le cose, soprattutto il rapporto.
La temperanza è una virtù umana, come pure la fortezza mentre la prudenza a la giustizia (permettendoci una disanima semiseria tra la quattro virtù cardinali) stanno più nel versante del dover-essere, che in quello dell’essere.
La prudenza che trattiamo qui non è quella dell’ottemperare ad un compito, ad un dovere, un sottostare al dispositivo, ma è un atto della passione, come si tempera una spada, come Dio prova l’Uomo attraverso il dolore per stimarlo poi degno o meno degno.
La temperanza è il limite di ognuno di noi, conosciuto e sconosciuto.
Temperanza può anche contemplare una certa forma di previsione, di attesa calcolata. Senza tuttavia eccedere nella prevenzione, che altro non è che una delle forme di patologia del pensiero. Come annota Galimberti parlando della capacità di “visione” dell’uomo a differenza dell’animale. Temperanza è il tempo che on mi diviene nemico; neppure amico per forza. La temperanza è il “seguire” e nello stesso tempo il “sentire” il tempo che passa e passando detta le sue regole. “All’edificio provvede la mano che, libera nel cammino, consente al corpo di liberarsi nella manipolazione del mondo scrive Galimberti -, ma, a guidare la mano, nella serie dei rimandi e dei collegamenti, è la ‘pre-visione’, quel correlato della visione che, insieme alla mano, è il tratto che qualifica la postura eretta del corpo. A differenza dell’animale, il cui sguardo è circoscritto alla terra, l’uomo è visione, e ben persuasi che qui fosse la differenza, i greci antichi avevano adottato una unica parola: ‘idein’ per dire ‘idea’ e per dire ‘visione’.
Pensare alle parole dell’altro tuttavia può passare dalla previsione alla prevenzione e allora si tratta di una difesa, il voler pre – venire il giudizio dell’altro. E a volte diventaanche ricerca della “neutralità”, del desiderio di non toccare né di essere toccato (fase fallica). Spesso dietro a tutto questo si nasconde una ingiunzione, un dover essere, il Super-Io insomma. Come se nel pensiero “ama il prossimo tuo come te stesso” fosse preminente non tanto l’atto di amore, quanto l’obbligo, l’ingiunzione, che presto farebbe a tramutarsi in una ossessione. Una ossessione che poi va a fissarsi sul “te stesso” come conclamata ed egoistica meta di tutto il movimento. E l’amore, lo sappiamo, non accetta dispositivi. La sua legge di attuazione è appunto il codice di libertà. Libertà anche tra significante e significato. E’ pura illusione infatti, specie in amore “capire” ed “essere capiti” nella concomitanza tra il nostro pensiero di amore e le parole che usiamo per dirlo. Temperanza sta anche nella accettazione di questa mancanza, di questa misura che sarà sempre una misura imperfetta, come rileva Cacciari:
“Il pensiero non risulta mai integralmente trasferibile nel vero e proprio linguaggio – scrive il filosofo -, non è mai depositabile in esso, come un ‘bene’ da luogo a luogo, poiché la comunicazione linguistica dipende non solo dalla forma delle sue tradizioni, ma anche dall’atto dell’interpretazione. Un pensiero viene linguisticamente espresso, cioè discorsivamente comunicato, solo mediante l’assunzione, esplicita o implicita, consapevole o inconsapevole, del già-detto e della sua interpretazione. Il linguaggio cioè mai comunicherà le forme costruttive in atto della conoscenza razionale, ma queste forme ‘alienate’ nel già-detto e nella intepretazione”.
E quante volte noi, nella nostra storia, non abbiamo utilizzato solo il “già detto” nostro, ma anche il “già detto” dell’altro senza che la nostra comunicazione sia mai stata soddisfacente. E’ la “pretesa della comunicazione” che ci manda direttamente in bocca alla frustrazione. Io ti dico il mio dire senza pensare che tra il mio dire e il tuo ascoltare c’è di mezzo il tuo “sentire”. Ovvero la imponderabilità della comunicazione che si fa atto, il sentire per l’appunto. Noi del nostro sentire ( a torto o a ragione) ci fidiamo anche, ma ci fidiamo molto meno del sentire dell’altro, al quale spesso opponiamo dubbi, incredulità, a volte accuse. Lo stato che noi sentiamo “sul “sentire” dell’altro è quello della “indecidibilità”. Non sappiamo decidere sul vero/falso delle parole dell’altro. Come annota Preta:
“Mi sembra che l’aspetto centrale – scrive il filosofo -, antico e moderno al tempo stesso, del problema della conoscenza sia ciò che von Foerster ha chiamato ‘indecidibilità’ tra realtà come costruzione e come rappresentazione di un mondo dato” (…) la direzione in cui credo si possa avanzare è il concetto di ‘co-definizione’ tra soggetto che conosce e oggetto conosciuto.” La questione del ‘sentire’ non può comprendere la co-definizione. Lo iato tra me e l’altro, se si tratta di parole, è sempre presente, ma è presente anche il volonteroso desiderio di cucitura. La cucitura del senso.
Qualche riflessione su tempo e morte
Il corpo, in Freud, non può non pensare, che poi è la stessa posizione di Spinoza. E quando il corpo pensa non può che pensare alla economia (a meno che non stia pensando alla propria psicopatologia). Il pensiero è il tempo (storia) impiegato dal bambino a pensare (“c’è un tempo… c’è un tempo…”) e c’è anche il tempo che finisce. E il tempo che finisce determina che cambia anche tutto il tempo che è stato prima. Quello che è stato prima non sarà mai più quello di prima. Proprio perché il tempo è finito. Proprio perché il tempo è morto. Questo lo si sperimenta nelle occasioni del lutto, della morte di una persona amata: la sua morte cambia tutto il tempo che noi abbiamo passato con quella persona e cambia anche il nostro stesso pensiero delle nostra morte ( una pagina struggente su questo tema la offre Xavier Marias ne “L’uomo sentimentale”). Il tempo che finisce determina un tempo nuovo. La morte getta sulla vita che è stata prima il nuovo. In questa angoscia che il tempo non ci perdona, l’unica salvezza è l’amore nella sua più alta accezione: il perdono. Non perdonare ma essere perdonati. Amore è riceverlo nel senso di essere perdonati.
L’amore è, in fin dei conti, essere perdonati. Non viviamo per lasciare “segni” del nostro passaggio, anzi, viviamo meglio se non ci interessiamo di lasciare segni, senza la presunzione di “indicare” ad altri, ma con la sola passione di amarli gli altri. Anche la morte, pur nel dramma che sempre costituisce, corre il rischio di “perdersi” se non è sostenuta dal perdono. Anche la morte può “normalizzarsi” se non è sorretta nel tempo dall’amore.
La morte può addirittura apparire banale, ci si chiede: “Tutto qui?” quasi con un fondo di delusione, come se la eccezionalità fosse tutto d’un tratto diventata normalità. Il “momento” della morte appare perfino “facile” rispetto ai pensieri che ci eravamo per anni fatti in merito alla sua consistenza (visto che di essa non possiamo avere “esperienza”. Ma sappiamo anche che l’unica possibilità che noi abbiamo di entrare a contatto con la morte è relativa alla morte dell’altro (come bene sostiene Derrida in “Del tutto unica. La fine del mondo”).
La risposta alla morte non può essere data nel “tempo” in cui viviamo l’esperienza della morte. Certo che la morte è un “in-essere” come afferma Heidegger. Essere dentro. E la morte è un tornare dentro a ciò (chi) da cui siamo usciti, magari accompagnati dalla angoscia che è l’ora che non ha possibilità di futuro. Futuro che non c’è.
Per questo uscire dalla angoscia (ora non più quella che può accompagnare la esperienza di morte ma di vita) ha a che fare con l’amore e il perdono nei confronti del Padre. E il perdurare della angoscia ha a che fare con il perdurare della accusa rivolta al Padre.
Padre e economia
Infatti il pensiero padre di tutte le patologie è quello rivolto al padre nel senso della accusa inappellabile. “Mio padre (o chi per esso) ha determinato la mia patologia, e non esiste appello”, questo è il pensiero patologico, proprio perché in esso è implicita una ulteriore accusa che più o meno suona così: “Mio padre dovrebbe conoscermi… ed invece…”. Ovvero: mio padre mi ha deluso proprio sul piano in cui io avevo più di bisogno, quello della conoscenza di me. Il figlio è eccitato in attesa della riposta del padre in merito a “chi sono io” ed invece il padre delude in quanto non ha conoscenza. Il pensiero del figlio viene interrotto prima della soddisfazione e resta la eccitazione. Eccitazione da ex-citare.
Il pensiero serve al figlio, dunque serve a tutti noi, in quanto il pensiero è solamente futuro, è tutto proteso al futuro. Non aveva dubbi lo stesso Spinoza in merito: “La mente si sforza di immaginare soltanto quelle cose che pongono la sua potenza di agire”.
Il pensiero ancorato alla dimensione del futuro può comportare un rischio: trattandosi di economia il rischio è quello che valutare “al momento, per il vantaggio momentaneo” il pensiero senza appunto aspettare nel tempo, o vederlo a lunga gittata nel tempo futuro. Bruciarlo, in sostanza.
A volte invece il pensiero, e anche il pensiero d’amore, è la pietra scartata, quello che al momento sembra non servire a nulla, quello addirittura del quale si farebbe addirittura a meno. Tutto serve invece in amore, male e dolore compresi. Dunque a maggior ragione il pensiero minuto, le “minimalia”, le cose semplici, le banalità.
Tanta salute sarebbe acquisibile se noi sapessimo trattare bene, anzichè scartare, la quotidiana banalità del nostro pensiero.
Pensiero che a volte, proprio nella sua banalità è un è “amen”, “così sia”. Sia nella accettazione che… tutto finisce lì, sia nella accezione più propositiva dell’”amen”, che tutto comincia da lì. Che perché qualcosa inizi davvero, davvero qualcosa deve finire. E’ indubbio tuttavia che noi siamo attratti dal pensiero che ci porta da qualche parte, dal pensiero operativo, da quello pratico (nella salute, perché nella malattia siamo attratti dal pensiero teorico, dalle teorie, e là ci facciamo del male). E la maggioranza dei nostri pensieri va nella direzione di dirimere un unico dubbio: vale o non vale? (compresa la accezione: vale o non vale la pena?). Lo sforzo che noi applichiamo al pensiero, quello che è il conatus di Spinoza, sta tutto qui.
“Questo nesso – scrive Galimberti – è stato evidenziato da Spinoza, per il quale l’essenza di ogni esistenza è da ricercarsi nel ‘conatus’ o sforzo per esistere, per cui non si dà ‘verità’ o ‘valore’ che non siano generati dalla continua ricerca delle condizioni dell’esistenza. (Proposizione 6: Ogni cosa, per quanto è in essa, si aforza di perseverare nel suo essere) Per Spinoza dunque è il conatus lo sforzo per esistere a decidere ciò che vale e ciò che non vale. I valori, anche se appaiono o tendono a presentarsi come principi, in realtà sono i risultati delle azioni riuscite, tenuti validi perché favorevoli all’esistenza e finchè sono favorevoli all’esistenza”.
Ma sappiamo che il pensiero solitario a nulla serve; non serve se non è alimentato da qualcuno o da qualche cosa di esterno, da un altro che ce lo chiama, che ce lo tira fuori dalla testa, che ce lo induce, addirittura che ce lo “produce” senza che noi facciamo più di tanta fatica (e ritorna la “attività dalla passività”). E l’esterno ci mette anche in ordine il nostro pensiero. Da soli non lo sapremmo fare, come sostiene Von Foerster:
“Perché l’auto organizzazione ha bisogno – scrive ancora Petra – di un minimo di energia esterna che le permetta di svolgere il proprio lavoro, altrimenti si disintegrerebbe. Von Foerster dice anche che dall’ambiente esterno non viene presa solo l’energia ma anche l’ordine”.
La ricchezza è il nostro pensiero che va a formularsi in un giudizio, e che per questo diviene dunque il massimo della praticità decisionale (il sovrappiù della ricchezza è dato dall’apporto dell’altro). E solo nel rapporto con l’altro, e massimamente nel rapporto d’amore, la ricchezza diviene l’”utile” ovvero, una ricchezza che si può usare, una ricchezza che può essere lanciata nel futuro, una ricchezza che mi serve domani, e domani, e domani, senza esaurisri mai in quanto è data dalla possibilità che due persone che si amano si danno reciprocamente: quasi come le risorse petrolifere che non si sa se siano infinite, ma intanto ci si comporta come se tali fossero! Utile è la conservazione di quello che si ha.
Per questo anche nel percorso analitico si pone moltissimo l’accento sulla ricchezza del soggetto e non tanto sulla sua povertà, come annota Locke:
“Poiché la ragione nulla esige contro la natura, essa esige dunque che ciascuno ami se stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che è veramenre utile, e appetisca ciò che conduce veramente l’uomo ad una perfeziona maggiore, e, assolutamente parlando, che ciascuno si sforzi di conservare il proprio essere, per quanto dipende da lui”.
Anche l’avaro ha profitto, ma non lavora per averlo, apparentemente lavora per il domani ed invece non consumando l’oggi, perde anche l’accumulo del proprio profitto.
Agire e utile
L’agire in amore è il primo comandamento: agire con i fatti, agire con le parole, agire con i sentimenti, agire con il pensiero. In amore è fondamentale andare “da… a”. Avere un percorso non necessariamente preordinato che comprenda l’altro nella “mia” dimensione. Io sono “dimensionato” positivamente dall’altro, la sanzione delle mie dimensioni spetta a lui. Agire l’amore è “agire anche la propria passività”, e questo evita di essere agiti in modo svantaggioso per noi, antieconomico, potremmo dire; evita la passività pericolosa, come scrive Spinoza:
“Proposizione 40. Quanto più perfezione una cosa ha, tanto più agisce e tanto meno patisce, e, viceversa, quanto più agisce, tanto più è perfetta “.
Il corpo è l’agente del moto, e il corpo è anche l’al di là del moto, va “oltre” in un luogo che potremmo anche definire Spirito. Il corpo è destinato è fin dall’inizio a partire dalla natura e finire oltre essa. E fin dall’inizio è destinato, nel dolore e nel piacere, a lasciare dei segni attraverso la visione dei quali noi possiamo conoscerlo. Ci conosciamo attraverso un batticuore, una tristezza improvvisa, un rammarico, una agitazione che ci toglie il sonno. Noi ci conosciamo perché i segni del nostro corpo sono sempre frutto di un rapporto, sono resti sempre presenti di due presenze in continuo moto: il Tu e l’Io. Ma soprattutto i nostri segni “vengono da soli”, non compiamo sforzo per tracciarli e soprattutto non ci sentiamo in dovere de renderli al futuro.
“La mente – scrive Spinoza – non conosce lo stesso corpo umano, né sa che esso esiste, se non mediante le idee delle affezioni da cui il corpo è affetto”.
Come si dice colloquialmente “farsi una idea”. Noi ci facciamo una idea di noi stessi attraverso il “sentire” ciò da cui il nostro corpo è affetto. E l’affetto è quello che l’altro lascia su di noi ma anche quello che noi dal nostro corpo lasciamo uscire verso l’altro.
L’affetto è per definizione merce di scambio, come pure la conoscenza del nostro corpo è luogo di scambio tra un Tu e un Io che hanno un rapporto tra di loro. Il rapporto privilegiato per la conoscenza è l’amore in quanto nell’amore noi siamo chiamati, più che in ogni altro sentimento, ad uscire da noi stessi per lavorare al fine del bene dell’altro. Uscendo da noi stessi ci vediamo meglio e l’amore è il sentimento che più di tutti ci chiama fuori di casa nostra.
Ancora una volta è il “fare” il momento privilegiato. In questo caso, nel caso dell’amore, il fare per l’altro (e facendo per l’altro si fa anche per noi stessi) è il “topos” per eccellenza dove ancorarci: il luogo che sembra il più rischioso (nelle mani dell’altro) poi alla fin fine si rivela il più sicuro. Pensare all’altro è già agire per lui.
Sul fare e sulla possibile sovrapposizione tra il pensare e l’agire Kant scrive: “Non si dà conoscenza della natura se non accordandone lo studio a ciò che possiamo sottoporre alla nostra osservazione e ai nostri esperimenti, in modo che possiamo ‘produrre’ noi stessi come la natura, o almeno in analogia con le sue leggi; perché si comprende perfettamente solo quello che si può ‘fare’ da sé e realizzare secondo concetti” – Critica del giudizio- Il pensiero che il pensiero equivale alla azione è già presente in Aristotele, Vico e Hobbes.
Da Kant non c’era da aspettarsi un elogio all’amore nella accezione che “è l’altro che mi fa”, ma teniamo per buono il suo pensiero sulla importanza del “fare” e sulla importanza del vedere lo stesso pensiero come un fare; il vedere un pensiero eminentemente produttivo, che mi porta sempre da qualche parte, e non ripetitivo che è quello più pernicioso per la relazione e anche per il singolo individuo.
Non si perde tempo, ma tutto il tempo si perde. Potrebbe essere questa la massima economica per eccellenza: sapere che non stiamo perdendo tempo ma che tutto il tempo andrà perduto. E’ la vecchia idea di consumazione. Si accetta di guadagnare solo se si concepisce la perdita, anche quella totale. Io amo l’altro se accetto che mi posso staccare da lui o che l’abbandono è possibile. Altrimenti un cordone ombelicale saprofitico ci unirà per tutta la vita. Ma in questo caso non ci sarà guadagno. Per nessuno. Ma morte per tutti e due è garantita. E l’antidoto è allora il pensiero di perdita, di fare per perdere, di fare anche al fine che tutto vada perduto, fuori da ogni pretesa di conservazione.
“ Nella società eroica un uomo è ciò che fa – scrive A. McIntyre -. Hermann Frankel scrisse dell’uomo omerico che un uomo si identifica con le proprie azioni, e si lascia risolvere completamente e adeguatamente in esse. Non possiede profondità nascoste… nel resoconto empirioc (dell’epica) di coè che gli uomini fanno e dicono, si esprime tutto quello che gli uomini sono, poiche essi non sono altro che quello che fanno, dicono e subiscono (Frankl 1969) Giudicare un uomo significa dunque giudicare le sue azioni. Compiendo azioni di una specie particolare in una situazione particolare, un uomo fornisce una base per il giudizio delle sue virtù e dei suoi vizi: infatti le virtù sono semplicemente quelle qualità che sostengono un uomo libero nel suo ruolo e che si manifestano nelle azioni richieste dal suo ruolo. E quello che Frankel dice e ipotizza circa l’uomo omerico vale anche per l’uomo di altre descrizioni eroiche”.
Alla parola “ruolo”, usata da Mc Intyre, noi ci permettiamo di sostituire la parola “posto” (parola già incontrata), che per l’appunto ci sembra molto più libera e liberatoria. Il nostro posto è la naturalezza con cui stiamo dove gli altri ci chiamano: nulla di più e nulla di meno. Il posto è un luogo libero se il nostro pensare lo libera, e lo libera soprattutto dalla non accettazione dell’errore.
Come se l’altro chiedesse a noi di tutto fuorché di sbagliare. Ma sappiamo che l’errore è inevitabile e solo vivendo questa realtà noi potremmo semmai ce ne fosse di bisogno, ridurre la nostra… percentuale di errore. E’ un errore pensare che si deve “per forza” rispondere dei propri atti. E anche dei propri pensieri. Imputazione (ovvero responsabilità) verso l’altro non potrà in alcun caso equivalere ad un “dover-essere”.
E la virtù, anche quella di cui parla Mc Intyre legata alla civiltà omerica ha un solo criterio: l’economia data dal fare.
“Si dà il caso che adesso siamo in grado di formulare una prima definizione di virtù sia pure parziale e provvisoria: ‘Una virtù è una qualità umana acquisita il cui possesso ed esercizio tende a consentirci di raggiungere quei valori che sono interni alle pratiche, e la cui mancanza ci impedisce effettivamente di raggiungere qualsiasi valore del genere”.
Occupare il posto significa occupare il proprio pensiero per farlo un banco di lavoro. Non un banco di lavoro produttivo per forza, o peggio ancora un banco di prova dove dare dimostrazione a noi stessi o agli altri, ma un banco dove “provare”, per quello che ci può concedere la nostra limitata natura umana, la soddisfazione e il piacere. Restando salvo il fatto che su questo banco di prova ci si sale sempre in due. Nessuno da solo prova nulla a nessuno, nemmeno a se stesso, checchè ne dica Kant.
E’ stato Freud che ha detto per primo che nella storia dell’uomo c’è stato un primo pensiero che è frutto di un lavoro individuale (Il primo pensiero è stato un pensiero corretto, mosso da una urgenza: evitare il pericolo / raggiungere uno scopo). La psicoanalisi ha poi capito che quello scopo che Freud aveva lasciato relativamente indefinito, è l’altro del rapporto. Egli scrive:
“ Un’idea, considerata da sola, può essere del tutto insignificante, ma diventerà forse importante grazie ad una idea successiva; forse se unita in un certo modo ad altre – che possono sembrare altrettanto insignificanti – si potrà costruire una concatenazione funzionale. Tutto ciò non può essere giudicato dall’intelletto, se esso non trattiene l’idea fino a vederla unita alle altre. In una mente creatrice invece, l’intelletto ha ritirato le sue guardie dalle porte e le idee irrompono pele-mele e solo allora le può vedere nel loro insieme.
L’idea successiva di cui parla Freud certo può essere un frutto del percorso del soggetto, ma noi sappiamo quanto le nostre idee abbiano un percorso lineare, ricco e soddisfacente quando vengono prodotte “da” idee di un altro, dal confronto, dalla interconnessione del dire idee e giudizi. Anche quando vengono “interrotte” dalle idee di un altro. Quando è l’altro a offrirci l’occasione per la formulazione della nostra prossima idea: in fin dei conti parlare d’amore è dire all’altro una nostra idea che ne “segua” emotivamente, oltre che logicamente, una delle sue.
Il pensiero patologico invece afferma che la espressione delle idee avviene per sopraffazione e non già per successione affettiva ed emotiva. Io mi vado ad ammalare se penso che le idee dell’altro rappresentino un dolore (o un furto) per le mie. Allora si instaura il perverso meccanismo del “voler avere ragione” o “voler avere l’ultima parola”, ovvero il voler evitare che dalle tue parole me ne venga un dolore che dopo io sono costretto a gestirmi (grattarmi?) nel mio silenzio. Per evitare questo “continuo” non tanto a formulare idee, o a dire parole, ma a ripetere.
E’ la ripetizione il segno che tra due le idee non transitano ma hanno trovato un ostacolo insormontabile. In Freud ci sono quattro tipi di pensiero: conoscitivo – mnemonico – critico – pratico. Il pensiero pratico è quello che regola il piacere Il pensiero critico soddisfa la attività del pensiero Il pensiero conoscitivo è l’economia del giudizio.
Nel normale parlare tra due che si amano, o che vogliono andare da qualche parte insieme con i loro discorsi, dovrebbe trovare spazio almeno uno dei tipi di pensiero descritti da Freud: il dialogo e il lavoro forse non sarebbero assicurati ma di sicuro procederebbero con molta ma molta minor fatica.
Guido Savio