PADRE E FIGLIO NELLA RELAZIONE (PARTE TERZA)
Figlio e colpa
Proprio così. E’ il riconoscimento della “storicità” della propria colpa il omento in cui il soggetto diventa figlio (avvero assume in pieno il proprio posto di soggetto imputabile), cioè di un soggetto in moto verso qualcosa al quale si arriva non senza prima aver commesso colpa reale (errore), senza tuttavia “astrattizzarla” in un “senso di colpa”, figlio in moto anche nel tentativo sempre vano di colmare la colpa storica, dunque reale, nella relazione (a partire da quella con il Padre). A stare al mondo si commettono colpe reali, si fa per davvero del male ad altri, anche nella pratica dell’amore, che sembrerebbe sentimento che tiene a riparo più di altri da tale evenienza. Nel momento della assunzione del principio di imputazione, la colpa sarà passata dallo stato patologico del “senso (di colpa)” alla condizione realistica della ammissione e della conseguente remissione della colpa realmente commessa): il soggetto impara così a perdonarsi a partire dalla differenza che egli saprà rinvenire nel rapporto con il Padre.
Si sdogana la colpa rinunciando al “senso” cioè rinunciando alla teoria (o astrazione) che la aveva sorretta fino a quel momento impedendo qualsiasi lavoro su di essa. Si esce dal senso di colpa, in fin dei conti, perdonandoci le nostre colpe (dopo averle riconosciute) e soprattutto perdonando quelle degli altri.
Essere figli equivale dunque ad un pensiero di crescita nel senso di fare e essere fatti anche nel proprio diritto alla “passività” (l’essere perdonati). In quanto il pensiero di Padre è anche un pensiero che recita “qualcuno lavora per me”, per cui la “passività” diviene sana: “Che l’altro faccia in vece mia” fidandomi io di lui, solo allora posso mettermi nel posto della passività. Eredità si diceva: se si toglie il pensiero di Padre resta la eredità materiale, mentre la eredità del Padre è il traghettare se stesso, oltre il senso di colpa, da parte del figlio, ponendosi egli davanti la questione della colpa reale (ovvero del limite e dell’errore), e nello stesso tempo offrendosi opportunità, offrendosi ”potenza”. Allora l’”Ubi bene, ibi Patria” può benissimo trasformarsi in “ Ubi bene, ibi Pater”.
E il posto del Padre sappiamo che è il posto del sesso in quanto sancisce la differenza che, per l’appunto, prima di tutto è sessuale. La nostra Patria è una Patria di figli. Cioè di soggetti capaci di “concepire” il sesso come “strumento” della loro capacità tanto di unione quanto di separazione dall’altro.
E il sesso, quello che andiamo definendo come sesso (pensiero/divisione), viene ben prima dei rapporti sessuali proprio perchè ha a che fare, ma sarebbe meglio dire “si regola” sul corpo pulsionale e non sul corpo biologico. E pulsionale significa, freudianamente, “che sta a metà tra lo psichico e il somatico” Ovvero desiderio. Noi siamo la nostra competenza a desiderare, il nostro “saperci fare” con il nostro stesso desiderio. Il sesso sta nel pensiero di esso. Bella e nello stesso tempo inquietante, cartina di tornasole della fragilità umana, sono queste riflessioni di Simone Weil sull’amare ed essere amata, sul desiderare ed essere desiderata:
“Amore. Vorrei che colui che amo mi ami. Ma se è interamente dedito a me, non esiste più. Io smetto di amarlo. Sazietà. E finchè non è interamente dedito a me, non mi ama abbastanza. Oppure: io vorrei il suo bene. Ma quale bene? Quello che io mi raffiguro come il suo bene? Ma lui non lo vuole (Se invece è completamente docile non lo amo più” 12.
Simone Weil dimostra proprio come sia il pensiero di Padre che non funziona in queste sue pur umanissime riflessioni. Manca il concetto di separazione e di limite. Meglio, questi concetti vengono intesi solo razionalmente, ma evidentemente questo non basta per mettere a tacere la angoscia della filosofa francese che vorrebbe il tutto dell’amore dell’altro e nello stesso tempo lo rifiuta. Quello che rifiuta in realtà è il sesso come sanzione della divisione dei due desideri. Il desiderio del tutto è il contrario del desiderio sessuale che recita che alla soddisfazione (umana) ce ne manca sempre un pezzo.
Il Padre inizia questi discorsi proprio a partire dal discorso della divisione del desiderio (dei due desideri dei due che si amano). Ma divisione anche interna allo stesso desiderio. Per questo il sesso viene prima dei rapporti sessuali, in quanto divisione del desiderio stesso, ovvero “il mio desiderio non sarà mai sovrapponibile al tuo desiderio” Se così fosse ci sarebbe un solo sesso. Ma anche il mio desiderio non è univoco e chiaro dentro di me, è diviso anche là.
Un solo sesso, un solo desiderio: allora niente sesso. In quanto destino del desiderio è una parziale insoddisfazione: l’altro non mi soddisferà mai del tutto e qui sta la separazione sana, la divisione del desiderio. (Weil 3°, p. 191)
“Ciò che hai ereditato dal padre… conquistalo” scrive Goethe nel suo Faust.
Il concetto di Padre si pone come “conciliatore” (metaxy di S. Weil) tra i sessi proprio perché ne pone la questione della possibilità (Cacciari) e della libertà nella loro (allora diviene tale) pratica. Il Padre è conciliatore in quanto consente l’appuntamento, proprio perché è conoscitore dell’inizio e nello stesso tempo “indicatore” della speranza.
Il regime giuridico dell’”appuntamento” è una ulteriore voce del concetto di Padre (Dio Padre ad esempio ci ama nel non intervenire, lasciandoci liberi, nelle nostre questioni di esseri umani). “L’amore è sul versante della non-azione – scrive ancora la Weil – , dell’impotenza. L’amore, che consiste nell’amare che qualcosa sia, nel non volere intervenire. Dio ci ama così; altrimenti cesseremmo immediatamente di esistere. Saremmo annientati. Acconsentire per amore a non essere più, ed è questo che dobbiamo fare, non significa annientamento, ma trasporto verticale nella realtà superiore dell’essere” 13. S. Weil, 3°, p. 253)
Accedendo ad un linguaggio colloquiale potremmo intravvedere un certo passaggio da Bambino a Figlio in questo scambio di battute tra Bambino e Padre. Domanda del Bambino: “Sono ancora privilegiato?” Risposta del Padre: “Ce n’è un po’ per ciascuno”. E tale risposta è sempre una risposta paterna, e questo dimostra che il Padre è autonomo e funzionante prima ancora dell’Edipo, ovvero ancora prima della comparsa nella scena dell’attaccamento del bambino o della bambina nei confronti della madre e del successivo e sanatore intervento del Padre che rompe la patologia dell’attaccamento.
E’ patologico dissociare il pensiero d’amore e il pensiero di conoscenza in riferimento al Padre, ne andrebbe della formazione della intelligenza del figlio. Il connubio tra amore e conoscenza lo potremmo anche rinvenire nell’adagio “Chi sa dorme”, nel senso che non esiste alcuna necessità di “dimostrare” la propria conoscenza in merito all’amore. L’amore è solo se è tenuto lontano dalla presunzione e dal presupposto. Il pensiero d’”amore presupposto” (cioè quello che mi sarebbe dovuto per forza) è un pensiero poco intelligente in quanto è antieconomico. Pensare che esiste da qualche parte un amore che mi è dovuto di certo non mi fa lavorare. Mentre il lavoro accende la categoria del merito, e dunque del sesso. Intendere l’altro come “partnership”, socio in affari: quelli reciproci che solo l’amore rende possibili.
Il figlio pensa al Padre non come ad un “ente” ma come ad una partnership. Il Padre come “ente” potrebbe anch’ esso costituire una forma di elargizione una forma di “amore garantito”, quello che non comprende domanda. Invece nella salute, per avere salute… “basta chiedere”, “ basta lavorare”. Ma non lavorare per me (per il mio egoismo immaturo), bensì, per il tuo bene, il mio bene lo faccio passare attraverso di me, passando attraverso il mio concetto di Padre. E’ in questa espressione “passare attraverso il Padre” che si può vedere quella che Freud, ma non solo lui, ha visto come la cosiddetta uccisione del Padre, il parricidio. Oltrepassare il Padre per essere Figli, farlo morire per vivere.
Salvare il Padre
Freud nel Mosè afferma che gli uomini hanno sempre saputo di avere un figlio (fratello) primigenio, che essi stessi hanno ucciso. Appare quasi nella economia della analisi freudiana, un allucinato tentativo, da parte dell’orda dei figli, di conquistare una propria identità, un proprio posto, sopprimendo l’Altro che ha imposto loro la migrazione, la dislocazione, la vacanza. In “Totem e Tabù” Freud parla chiaramente della uccisione del padre da parte dell’orda dei figli. In qualche modo anche questa è una questione di eredità. Tuttavia è l’uccisione del Padre che fa pensare: il parricidio è un chiaro atto (simbolico o reale) di sostituzione del figlio nei confronti del padre. Ma non è questa la questione della eredità.
Il pensiero di Padre che qui elaboriamo è un pensiero di vita. Il Padre dà la vita. Il pensiero di Padre come lo intendiamo qui, è il pensiero di colui che in quanto Altro, non va ucciso. Il pensiero di Padre è il pensiero di un Altro che in quanto Altro va salvato perché salva noi.
Sta qui il connubio tra amore e intelligenza di cui si parlava in precedenza: salvo l’altro in quanto salva me. In quanto da solo non mi salvo ma ci si salva sempre in due. E’ questa anche la voce della speranza: “Salva me, fons pietatis”.
“La religione del Padre si fonda sulla ri-mozione della soppressione (estrema dislocazione) dell’Altro che ci ha guidato-costretto all’esodo” scrive Massimo Cacciari. Ma nemmeno questo è il nostro pensiero di Padre. Non è il pensiero di colui che ha errato inizialmente e del quale gesto noi ora noi figli paghiamo le conseguenze.14 L’assassinio del Padre(assassinio del padre, Cacciari (I.d.l.), p. 146
Certo il Padre è stato un errante e certo noi possiamo anche pagare la conseguenze dell’iniziale errore paterno (vedi “Gli Spettri” di Ibsen), e certo anche che la Religione del Padre ne comprende la rimozione, tuttavia la soluzione non può essere la rimozione in toto, ne cadrebbe la formulazione statutaria di Padre come Inizio e concessore dell’”inizio” al figlio.
La rimozione dell’errore del Padre fermerebbe (o avrebbe fermato) anche il percorso di civiltà (di salute di ciascun individuo che non può avvenire al di fuori del processo di civiltà).
Nemmeno come uccisore del figlio il Padre è proponibile in quando l’uccisione del figlio è la forma della antieconomia, in quanto, si sa, i figli portano danaro ( sia per il Padre che per il Figlio, che potrebbe essere anche la morte definitiva per tutti e due) e poi perché sarebbe uccisione del singolo, dell’individuo che poi conferirebbe nome, esistenza e posto al Padre stesso. Sarebbe uccisione del futuro e della speranza. Allora che il Padre “attraversi” il figlio nel suo errore e nel suo dolore e che il figlio “attraversi” il Padre nella sua volontà di affermazione e nel suo pensiero di futuro. L’attraversamento è l’andare “oltre” che provvisoriamente potrebbe essere inteso anche come “perdono”.
Parlando di Francesco di Assisi e del suo rifiuto verso il Padre (Da un testo di Ernesto Balducci) scrive lo stesso: “All’Ordine del Padre si sostituisce l’Ordine dei Fratelli e al patrimonio, che come dice l’etimologia è il vero fondamento dell’Ordine del Padre, si sostituisce “sorella povertà”. ‘Il gioco si fa serio, – continua Balducci – è la fraternità che prende il posto della paternità, è il disordine che si pone come nuovo ordine in cui non c’è più rapporto servo-padrone, ma ognuno è, nel contempo, servo e padrone dell’altro, la fraternità si fa paterna e la paternità si fa fraterna”15 (Gal. Idee, p. 190)
E la servitù diventa allora la servitù nobile di Platone che vede il “comes” come forma più appropriata di relazione.
La legge non è paterna in quanto il Padre la fonda ma è tale in quanto introduce il concetto di eredità. E la eredità diviene eredità nel momento in cui la paternità diventa fraternità (con Padre e Figlio vivi). Ciò avviene esclusivamente e squisitamente nella accettazione dell’errore reciproco in quanto correggibile. Tu Padre nel tuo errore diventi mio fratello.
Eredità è una vera e propria “condizione di forma” come lo può essere lo stato di un atleta, un investimento che recita: “Si comincia da lì a fare fruttare i talenti”. La eredità tuttavia non è una acquisizione “a babbo morto”, ma l’inizio di un investimento su se stessi quando la vita arride ad entrambe le parti.
Freud in “Il Disagio della Civiltà” compie un percorso che procede da uno stato di guerra (indetta dai figli contro lo strapotere paterno) senza tuttavia pervenire, nel suo percorso, alla conquista di un ordinamento che sani la guerra stessa. Egli passa dal disagio alla risoluzione del disagio stesso, senza passare attraverso l’ordinamento. L’ordinamento è fondamentale in quanto è un ordinamento che noi compiamo nel corpo “dentro” la esperienza della relazione, durante la relazione, meglio sarebbe dire “durante l’atto di amore” in cui “amarsi” significa intendere il nostro corpo come “altro” da noi stessi, e “farsi amare” significa intendere il nostro corpo “amabile” dall’altro, ma ancora una volta “altro” da noi. L’”altro” del nostro corpo è il Padre stesso. La alterità e la diversità (che consente la pratica sessuale, è il Padre) Tutto ciò presuppone un sapere pratico sul corpo e una volontà di fare e di ricevere, come esplicita Galimberti citando Platone:
“Questo passaggio è ben descritto da Platone per il quale fare qualcosa (tèchne) presuppone la possibilità di poterlo fare (dynamis), ma questa possibilità si dà solo se si ha la scienza (episteme) della cosa che si intende fare, per cui la tecnica, a parere di Platone, risulta indissolubilmente connessa a scienza e a potenza, a episteme e a dynamis:’ Si potrebbe fare qualcosa che né si sa, né si ha potenza alcuna per farla’ domanda Socrate a Ippia. ‘In nessun modo’ risponde Ippia ‘ Come si farebbe quello che non si sa e non si può fare? (Platone, Ippia minore, 296b)’”16 (Potere, Platone, in Gal, t. e p., p. 61
Qui allora sta il connubio tra intelligenza e speranza, ovvero nasce il pensiero di “possibilità” di fare quello che si pensa, anche se è difficile pensare all’amore come ad una conoscenza scientifica. Sapere e potenza sono due componenti che nella relazione non possono escludersi, pena il peccato di ingenuità, che è uno dei peccati che in amore… non si perdonano.
GUIDO SAVIO