PADRE E FIGLIO NELLA RELAZIONE (PARTE SECONDA)
Padre e inizio
Cacciari parla chiaramente del Padre nella sua accezione di Soggetto “che inizia”. Soggetto, attraverso il quale il figlio, dunque tutti noi, nel nostro essere singoli e nel nostro essere relazionati con l’altro, situiamo l’Inizio del nostro Io. Il Padre, per il solo fatto di essere Padre “inizia alla vita il figlio”. Ma anche qui torna, come già visto all’inizio di questo capitolo, la reciprocità: non esiste Padre senza Figlio e non esiste Figlio senza Padre. Questo nella dominazione pura. Nella sostanza pura della questione è il Figlio che poi “segue” il Padre. Lo segue nella logica che ad un “iniziante”, affinché vita e continuità ci sia, consegue un “continuatore”: la salute del figlio sta anche nel pensiero di essere continuatore (non emulatore o successore) del Padre. Il Figlio rivela sempre qualcosa di nuovo del Padre attraverso la sua stessa esistenza.
“ La nostra età è la età della ‘perfetta natività del Padre – scrive Cacciari -. Il logos del Padre è infinitamente più del suo ‘eikòn’, è proprio il suo nome, il suo ‘unico’ nome, il suo unico Figlio, e nel manifestarsi pieno, nella reale nascita di questo Figlio, nasce il Padre stesso in quanto Padre (…) Egli si chiama così. Il Padre è intero in questo suo rivelarsi. Il rivelarsi, il dire, il comunicarsi dell’Inizio è perciò l’Inizio, senza riserva, senza oblio (…) L’Inizio è : ‘Che l’ek-sistere è’. L’Inizio è rivelazione” 7(Cacciari, Dell’Inizio p. 167-8)
Il padre “si chiama” figlio, “Il Padre ‘si chiama’ Figlio; questo è il suo nome, che Egli si è dato, ha concepito per sé dall’Inizio (Cacciari , idem,p. 168). Come d’altra parte sostiene anche Agostino: “Il Padre è il principio, e il Padre, non essendo mai senza dirsi, non è mai senza Figlio: Agostino In Ioh. Ev., 19, 13)
Figlio è passato/presente/futuro del Padre stesso. “ Il Futuro è visibile – continua Cacciari -, ma solo nella Facies del Presente che ne è essenzialmente distinto. Neppure il Figlio, appunto, può sapere l’Ultimo (il Futuro aionico), ma anela ad esso profeticamente, nella sua attuale viva presenza. Così egli articola il Futuro al proprio Presente e al Passato. Nel suo istante le tre dimensioni si mostrano, si esprimono, esattamente come nel Figlio si esprime, ‘nasce’ finalmente, l’intera vita intradivina.” 8. (Cacciari , idem,p. 511)
Tutto il tempo che il Figlio rappresenta sta nella divisione tra la dimensione del presente e la dimensione del passato. Ma la chiamata del Figlio è il futuro. Il nostro pensiero, soprattutto il nostro pensiero all’interno della relazione, è un pensiero di futuro: progetto, speranza, fede, tempo, etc. sono tutte declinazioni del futuro delle quali il Figlio è il primo portatore. Si potrebbe dire qui “portatore sano” se ha sanamente saputo usufruire della eredità paterna (che è il pensiero di avere diritto ad avere diritto). E la prima eredità paterna è stata il suo iniziare alla vita. Ma se il futuro è il luogo del pensiero del Figlio è certamente il presente il suo luogo del farsi, del fare se stesso nella dimensione del proprio corpo, del proprio desiderio come continua Cacciari:
“Il Presente, metaxy, articolazione, snodo dell’intero; il Futuro, unità escatologica mai ‘vorhanden’, sempre profetizzabile, in cui l’amore, charitas, raccoglie la nostalgia del passato e la gioia del presente.” 9. (Cacciari , idem, p. 511)
E’ la charitas la istanza attraverso la quale il figlio esplica la massima aspirazione al suo essere con l’altro, ovvero ad occupare un ruolo esplicabile nella cura dell’altro che passa attraverso la cura di se stesso. L’amore (che è cura per l’altro e per sé) lo porta ad imparare, l’avere imparato l’amore per il Padre. Carità come mano protesa tanto a dare quanto a prendere. Carità del fare il proprio presente e il farsi stesso del presente.
Il figlio impara, il figlio impara perché è bello e perché c’è piacere nell’imparare. Imparare in quanto si impara “da” noi e “tra”di noi ma soprattutto “attraverso” noi tutti fratelli, in quanto “essere uomini è essere figli”. E noi impariamo attraverso l’avere imparato a imparare del Padre. Questa è la vera eredità che noi cogliamo dal Padre (cogliere più il metodo che la sostanza, più lo strumento che il contenuto, per poi da soli potersi arrangiare).
Imparare in quanto, per farlo realmente, si ammette prima la propria mancanza e la presenza da qualche parte di qualcuno in grado di riempirla: questo è pensiero di sesso, e in quanto tali ci possiamo riconoscere figli in quanto tutti “ce lo abbiamo” uguale se pensiamo al genere umano, diverso se pensiamo ad Uomo e Donna. Imparare in quanto c’è lavoro: “si va da… a”, cioè dal un prima a un dopo, si va avanti, ci si muove. Vivere è solo guardare il futuro, l’avanti, l’oltre (a partire dal più possibile adattamento al principio di realtà, a partire dunque dal presente). Imparare in quanto si diventa più svegli, il che non significa più furbi, ma solo più attenti, più presenti, più capienti nei confronti della propria e della altrui debolezza, più capienti anche verso la ricchezza, in quanto per certi aspetti a volte è più impervio il percorso di amare la propria ricchezza (e quella altrui) rispetto che la propria e altrui povertà.
Sembra del tutto plausibile che la pratica dell’amore mentre da un lato “sveglia” chi ama, dall’altro ne acuisca oltre che la sensibilità anche la intelligenza. Intelligere è sempre rivolto a cogliere una istanza che sta fuori di noi e, una volta colta, ci alleggerisce il peso che la vita ci chiede di portare. Mi sveglio se “intelligo” meglio l’altro della relazione, ma anche se faccio questo con gli oggetti reali. Imparo se imparo a trattare meglio di prima gli oggetti che popolano la mia scrivania. E’ l’uscire da se stessi, appunto la charitas, per dirigerci verso Altro, che ci porta alla veglia. Il sonno è il nostro pensiero non operativo introflesso. Nel sonno le mani rimangono ferme.
“Allora Gesù andò con loro in un podere chiamato Getzemani e disse ai discepoli:’ sedetevi qui mentre io vado a pregare là. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo disse loro: la mia anima è triste fino alla morte. Restate qui a vegliare con me.’. E avanzatosi un poco si prostrò con la faccia per terra e pregava dicendo:’ Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice, però non come voglio io ma come vuoi tu’ Poi tornò dai discepoli e trovò che dormivano e disse a Pietro:’ Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me. Pregate e vegliate e così non cadrete in tentazione. Lo spirito è pronto ma la carne è debole.”. E di nuovo allontanatosi pregava dicendo: padre mio se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. E tornato di nuovo trovò i suoi che dormivano perché gli occhi loro si erano appesantiti. Si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta ripetendo di nuovo le stesse parole”. (Matteo).
Perché Cristo veglia? Perché aspetta qualcosa. Più che ad aspettare qualcuno che arrivi, che potrebbe essere uno dei capitoli della veglia, Cristo aspetta che arrivi l’’avvenire’ che comprende l’essere “continuatore” e nello stesso tempo “rinominatore” del Padre stesso. Avvenire sul suo corpo di Figlio in quanto questo è il patto di relazione con la parola del Padre, come abbiamo già incontrato Levinas: ’Io non definisco l’altro per mezzo dell’avvenire, ma l’avvenire per mezzo dell’altro, poiché lo stesso avvenire della morte lo abbiamo visto consistere nella sua alterità totale.” 10. (Emmanuel Levinas, Il tempo e l’altro, p. 53) p. 43
Figlio
Figlio, il concetto di figlio, il pensiero di figlio è il prodotto, ottenuto con il fare delle mani, di quel soggetto che sta sveglio, che veglia, che si dà da fare ma soprattutto che accetta la finitezza del proprio posto, e che nello stesso tempo ne vede la potenzialità (avere il potere di…). Portatore di desiderio, insomma. Il figlio ha nella propria testa, nel proprio cuore e nelle proprie gambe la parola “scopo”, senza essere un forzato della programmazione. In quanto soggetto dello scopo il figlio è il soggetto della salute. Colui che ha pensiero di meritarsela (il diritto di avere diritto), come di meritarsi il piacere e la salvezza. Il figlio è il soggetto della intraprendenza. Quello che si muove per primo verso l’avvenire e quello che ad esso è più disponibile. E’ il soggetto che non ci pensa tanto in quanto ha “sentire” di futuro, non programmazione di futuro. Il suo “metaxy” è il passaggio continuo dal presente al futuro inteso come veglia. Accettazione del fine come accettazione della fine: questo è figlio. p. 151-55s
“Tutto mi è stato dato dal padre mio. Nessuno conosce il figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il figlio lo voglia rivelare” (Matteo, 8, 27).
Queste parole di Cristo indicano come la “questione” del Figlio sia la stessa “questione” del Padre: fare e agire, il metaxy tra presente e futuro. : chi è l’uno… l’altro è. E ciò nella esperienza reale ma nella favorevolezza del pensiero. Il pensiero favorevole, ovvero il pensiero di qualcuno che, sempre, anche in questo momento, ha piacere che io provi piacere. Pensiero di ricchezza, di amore, di eredità e di perdono. Nell’essere uno passato attraverso la nascita dell’altro. Essendo il Padre passato attraverso la nascita del Figlio.
Se io mi penso figlio mi penso un… “chi inizia”. Il figlio è tale in quanto iniziatore, in quanto portatore di un pensiero di inizio, anche quando il viaggio fosse già cominciato, anche strada facendo. Sempre pronto a cominciare qualcosa. Il nostro amore per noi stessi è un pensiero di “capacità”, la capacità di essere capaci di iniziare qualcosa di nuovo, anche in corso d’opera. Ma figlio è anche colui che sa produrre un pensiero molto pratico: che se ci va male da una parte… da un’altra ci andrà bene. Il Figlio è allora l’artefice della Speranza in quanto sveglio nella sua esperienza di iniziatore e di continuatore (non soltanto della esperienza paterna) soprattutto nel momento in cui l’opera diviene difficile o non sortisce soddisfazione. Figlio in questo senso è produttore di alternativa laddove la soddisfazione al momento non è ottenibile. Figlio in quanto sa amarsi.
L’amore di noi stessi, l’”egoismo maturo” convivono nel pensiero che c’è sempre la possibilità di ri-cominciare. Qui sta l’ umanità dell’uomo e la forza del figlio: posso iniziare in quanto ho saputo dimostrare che già ho iniziato una volta, che sono stato iniziato una volta. Figlio è quel “tipo” che, per quanto esauribili, si dà sempre diritto a ulteriori opportunità.
Possiamo dire che noi figli abbiamo questo salvifico pensiero nel momento in cui “Abbiamo il pensiero di essere contenuti nella volontà di un Padre – come scrive Giacomo Contri – , quando anche non esistesse tale padre” 11. (Giacomo Contri, Il Pensiero di Natura, p…..)
Pensarci figli non ha assolutamente nulla a che fare con il pensiero di avere uno o cinque padri reali. Si tratta solo di un pensiero produttivo, quello di essere contenuto nella “volontà” di un altro che vuole il nostro bene, e questo altro svolge una funzione paterna nel senso… “Nessuno conosce il figlio se non il Padre e nessuno conosce il padre se non il figlio e colui al quale il figlio lo vuol rivelare”.
Eredità
Eredità significa il pensiero del figlio in riferimento al Padre: “Porta avanti tu il mio desiderio verso di te perchè questa è la mia volontà su di te”, e qui Padre e Figlio si ritrovano nella reciprocità del loro pensiero di desiderio reciproco. Il pensiero di figlio significa che esiste un pensiero che c’è qualcuno (non uno qualunque) che prova piacere per il piacere che provo io, e dolore per il dolore. Piacere per piacere dell’altro. Dolore per il dolore dell’altro. Questa è la legge del piacere (anche quando comprende il dolore). La legge del piacere è la legge che sorregge sia la condizione di lavoro sia del senso della vita stesso.
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“L’iniziare del figlio consiste nell’approcciare un moto che è mosso da una illuminazione – scrive Giacomo Contri – , quella della convenienza data dal fatto che qualcuno lavora per lui” (G. B.Contri, il pensiero di Natura) Non al posto mio, ma “pro” me. Nella auspicabile ipotesi che padre e figlio lavorino assieme: così come assieme vengono conosciuti e riconosciuti. p. 157
Il concetto di figlio può benissimo essere sovrapposto al pensiero di eredità (attraverso la pratica della intelligenza e della speranza).
Figlio è sempre pronto a cominciare qualcosa. O qualcuno. Anche se stesso; il figlio infatti è l’iniziatore di se stesso. Inizio che non è una esperienza “una tantum” ma, se si vuole, una ripetizione, come abbiamo avuto modo di vedere. Il nostro amore per noi stessi è il pensiero di essere sempre capaci di iniziare qualcosa di nuovo. Non tanto una avventura, una idea, un lavoro. Ma iniziare noi stessi, rilanciarsi ogni volta, alzarci in piedi, se è possibile, dopo ogni caduta: almeno il tentativo.
Iniziare non è “iniziazione”, lo abbiamo già visto in altra occasione. Iniziazione è “mistero negativo” in quanto si vuol nascondere per forza quando non c’è niente da scoprire. Iniziare invece significa potenza. Pensiero di essere il più possibile “capaci” di “altro”. Ma badiamo bene che non si tratta di cercare il conforto di una esperienza: questo altro può anche non esistere (e in realtà spesso si nasconde). Ma si tratta di un pensiero: cioè attività normativa che il soggetto decide per se stesso nel momento in cui si ama: mi amo in quanto qualcuno mi ama (senza che questo “qualcuno” esista necessariamente). Allora la mia capacità di “altro” sarà per me una fonte inesauribile.
“Sono nato attraverso il piacere” non è una frase fatta ma un dato esperienziale. Se non c’è il piacere… non ci si mette! Non si nasce nemmeno! E le esperienze di piacere di Uomo/Donna non si verificherebbero se prima non fosse stata sgombrata la strada dal pensiero: il mio piacere piace a qualcun altro, a partire dal Padre. Onora il Padre significa onorarlo attraverso il lavoro verso il piacere. Non verso l’obbligo o la colpa.
“Il rapporto tra due amanti è sempre asimmetrico” afferma Levinas. Inserita questa regola nel rapporto con il pensiero di Padre equivale a porre la questione della meta, dello scopo: da un lato per raggiungere l’altro (Padre); dall’altro perché di per sé la differenza chiama al fare. Non allo strafare.. p. 153-166
GUIDO SAVIO