Riflessioni sul SENSO (della vita?) a partire da una lettura di un saggio di Romano Màdera.
SENSO
A chiedersi il senso di…. da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo… non se ne dà fuori. La questione del senso non è una questione facile, da qualsiasi parte la si voglia prendere: o il senso è “dentro” alle cose che noi sperimentiamo, viviamo, tastiamo, palpiamo, viviamo come relazione… e allora basta leggere dentro (e la lettura non è, garantito, per niente pervia) sulla spinta della oggettività del reale e… quello che viene viene: il senso è quello che noi troviamo dentro alle cose.
Oppure il senso delle cose lo determiniamo noi, in assoluta e libera indipendenza di giudizio: ovvero il senso lo mettiamo noi dentro alle cose (nella nostra liceità) e ci accontentiamo che esso corrisponda alla nostra indole, alla nostra esperienza, alla nostra soggettività, alla nostra particolarità.
Qualunque delle due strade si segua la questione non è semplice. Non è semplice dal momento in cui, quando io mi chiedo… “ma che senso ha?” sono sicuro che alla mia domanda non esiste risposta. E nello stesso tempo il fatto che mi ponga tale domanda può portarmi a dolori e angosce.
Un libro bello ma non semplice si intitola “La filosofia come stile di vita”. Gli autori sono Romano Màdera e Luigi Vero Tarca. Edito da Bruno Mondadori. Il libro è bello perché ha un fine fine: quello di ripostare la filosofia alla pratica e “usarla” come cura dell’anima, o cura delle nostre ambasce. Il libro illustra anche alcuni motivi teorici di come la filosofia possa essere “pratica di vita”. Gli autori parlano di “pratica autobiografica” o di “filosofia biografica”, intendendo che la filosofia, qualora volesse diventare cura dell’anima, dovrebbe essere il libero dire (o scrivere) di se stessi.
Il discorso non si scosta poi molto dalla psicoanalisi (detta o scritta), come evento che mette in luce la priorità unica e irripetibile del soggetto che riporta sopra alla propria storia reale una storia narrata che ne costituisce la evoluzione, e in quanto tale ne piò costituire la cura.
A noi questo discorso interessa in modo limitare. Interessa molto di più il come Romano Màdera, nel suo saggio, tratti la questione del “senso”.
Tre definizioni allora:
a) “Una saggezza tramandata in un detto degli indiani americani dice che con tutti gli esseri e con tutte le cose noi saremo fratelli”. b) “Il bene è in prima istanza il mantenere aperte le possibilità alternative, cioè la perpetuazione stessa della vita, che è ‘vita’ per natura culturale”. c) “Il fine rimane il medesimo attraverso i tempi: conoscere le vie che conducono a contemplare la comunione di tutto con tutti (prima e dopo e dentro) ogni gesto e ogni parole.
Siamo una parte del tutto e solo in quanto tali abbiamo vita e senso (anche se il senso ci sfugge); il senso ha sempre a che fare con il futuro, la possibilità che noi ci teniamo aperta quando le altre si sono tutte chiuse o si stanno chiudendo. Senso non tanto in quanto progetto/programma, ma senso della nostra vita come alternativa al presente, che è poi la speranza nel futuro.
Ogni gesto e ogni parola hanno un senso: certo, ma ogni parola e ogni gesto hanno un senso che sono la cifra del desiderio, della passione: questo nel privato della relazione con l’altro, ma questo anche nel pubblico della relazione con le tecniche, con le scienze e con le arti del mondo.
E’ ovvio afferma Màdera che la domanda di senso (quella che ognuno di noi pone a se stesso) è destinata alla elusione: perché è frutto del desiderio che è la parte meno conosciuta e meno programmata e meno programmabile di noi stessi. Il desiderio stesso pensa al contrario di quello che ogni giorno si prefigge (questo ce lo insegna Paolo e non solo lui): vivi contro i tuoi ideali, vuoi giustizia e produci ingiustizia, deridi il giusto, ti pieghi al più forte, approfitti del debole. Cancelliamo l’angoscia facendo finta di non vederla. E noi tutti in questo ci riconosciamo: queste sono le controtavole della legge: la lecitazione secondo la quale è da seguire i desiderio, qualunque esso sia. Qui la nostra debolezza ma qui anche la nostra natura. E qui anche il nostro senso? Il desiderio che va per la sua strada? Il non essere l’Io padrone in casa propria di Freud? La passione che sorpassa la legge? Ma questi sono quesiti e al momento lasciamoli solo quesiti.
Certo è una cosa. Che noi ci difendiamo dal senso obnubilandoci dentro una società individualizzata perché costituita da legami impersonali. Il senso chiama allo schieramento, alla scelta, alla rinuncia, alla imputazione. E questo costa dolore e sacrificio. Per cui a volte è più semplice la omologazione dei “legami impersonali”. Legame impersonale significa che io mi posso tirare indietro in ogni momento. E questo è il contrario del “senso” che mi dice “se hai deciso, stai dove stai”. Il senso è il bollo, il timbro che mi “dice” all’altro. Anche se sulla continuità del timbro, sappiamo, molte cose possono essere dette. Il tempo prima di tutto. Il tempo di oggi non sarà il tempo di domani e il senso di oggi non sarà il senso di domani.
In ogni caso ognuno, ogni moderno, si trova davanti alla questione del tempo e alla questione del senso dovendo rispondere. E risponde biograficamente: con la propria vita. La cura dell’anima è la risposta alla domanda dell’altro attraverso la propria vita. Non nel senso truce “o la borsa o la vita” ma nel senso che “te lo dico con le mie azioni, errori compresi”.
Ognuno di noi, moderno, si trova di fronte al proprio compito biografico: fare la propria vita e nello stesso tempo renderla narrabile all’altro. La cura della vita sta nella narrazione, nella risposta, nell’insegnamento attraverso la propria vita di quello che è stato il quesito fondamentale: che senso ha?.
La cura dell’anima è l’unica istanza che interessa il moderno, come interessava l’antico. Allora dell’antica cura dell’anima, che tendeva alla risposta sul senso della vita, si potevano forse seguirre le piste della mistica e dei cosiddetti “esercizi spirituali, “itinerarium mentis in deum”. Alla filosofia non è mai spettata una produzione talmente”alta” sul senso del… senso. La filosofia si limita al “che”, se si vuole è descrittiva. La mistica si dedica al “perché”, assurge alla domanda fondamentale. Poi la filosofia aveva talmente a che fare con la unificazione dei saperi che la “pruderie” gnostica sul senso della vita la interessava non più di tanto.
Ma torniamo al senso. Sembra che tutti i nomi e tutte le immagini debbano uniformarsi ad un qualche cosa. Ma questo qualche cosa non sta nello spettro della ragione bensì alberga il mistero ultimo e ineffabile: l’essere indicibile del divino. Il senso della nostra vita starebbe dentro alla indicibilità del divino, che dovrebbe mettere a tacere tutti i nomi e tutte le immagini (nostri prodotti).
Invece il pensiero moderno arriva come un aratro: il senso sta nel “qui e ora”, che è fortemente impregnato dalla autobiografia. Siamo i biografi di noi stessi e in questo lavoro sta il senso della nostra vita. Tutte le volte che pensiamo con lo sguardo al muro, o alla siepe, o alla nuvola, o ai nostri figli che giocano, lì, in quel momento, noi siamo i biografi di noi stessi in quanto abbiamo pensiero delle nostra esperienza. Gli animali non hanno pensiero della propria esperienza, infatti, sostiene anche Màdera, gli animali sanno sempre che cosa fare. Noi umani non sappiamo mai che cosa fare, e da qui emana la nostra angoscia: figlia della inconcludenza e della indecidibilità.
Allora viene fuori la relazione, allora nasce la psicoanalisi: in questa esperienza si rinfranca il sentimento reciproco di appartenenza al comune limite umano e nello stesso tempo si afferma con forza la accettazione della dimensione della nostra unicità e singolarità: il senso è la singolarità, che è pur dura da portare. Tutto il nostro presente viene risucchiato dal nostro passato, dalla nostra narrazione.
“Questa morsa – scrive Màdera – tra un futuro sbarrato e un passato irredento che ne sembra contenere ancora le cause efficienti, è la gabbia che ci imprigiona” nel momento in cui dobbiamo sperimentare il senso della nostra esistenza.
Allora la domanda di senso diviene una domanda di relazione, anche se si trattasse di una domanda analitica. La domanda terapeutica nasce da un blocco delle prospettive di vita. Il presente non collima più con il pensiero di futuro. Allora è l’angoscia: il dubbio tra due “soluzioni” che si elidono a vicenda. Mentre “senso” è sostanzialmente orientamento vitale che ci posta da qualche parte. L’angoscia non ci porta da alcuna parte.
Màdera parla di un modo mitobiografico: ci si racconta all’altro nella speranza che l’altro abbia parola (sonore o mute) di rimandarci la nostra biografia “guarita”. Guarita nel senso. Che quello che prima non aveva senso adesso almeno abbia una continuità. Noi facciamo parte di una Storia più grande e la nostra storia sta dentro al tutto. Ora che questo sia elemento di pacificazione lo lascio giudicare al lettore. Sta di fatto che il “peso” che noi sopportiamo nella nostra società occidentale per portare il “senso” della nostra esistenza sarebbe molto inferiore se non ci fosse la domanda, o se la nostra domanda fosse una domanda universale, di tutti, a cui tutti assieme diamo una risposta o una non risposta.
La difficoltà per noi è rinvenire nel senso la soddisfazione, che è la istanza che lo rende tale. Senso è soddisfazione nella sua perdibilità e nella sua caducità. Senso è fuori dalla domanda proprio perché nel momento in cui io mi chiedo se sto provando soddisfazione sono sicuro che soddisfazione non sto provando.
La domanda diventa non la domanda filosofica sul senso della vita ma un trabocchetto che mi fa inciampare nel momento in cui io ri-fletto su me stesso. Riflettere è diverso dal narrare. Narrare è la storia: quello che è stato è stato. La storia personale che si declina nelle Storie di tutti.
Socrate affermava che la somma virtù era la ricerca, nella indagine del senso. E noi moderni spesso poniamo nel capitale la “soddisfazione” del senso della vita. Mentre invece in desiderio, che tutti ci anima e che tutti ci tiene in vita, è la dimensione siderale che rimane velata e ispira il nome stesso di “desiderio”. Non capitale concluso, ma desiderio inconcluso (e se si vuole anche inconcludente).
Noi aspiriamo alla liberazione, alla liberazione dalla “necessità”, ma per percorrere questo cammino dobbiamo anche accettare la intollerabilità della frustrazione, che tutto ci sfugga, che tutto sia vago, che tutto possa perdere anche il proprio senso.
Màdera parla di “anima-gola-nephesh”: la oralità che vorrebbe spingerci ad avere e mangiare tutto. Invece il senso non è divorabile al momento ma si dipana giorno dopo giorno.
L’Io di Freud, che non è padrone in casa propria, altro non è che l’ingenuo amor proprio, l’orgoglio umano, il narcisismo, che allontana in maniera forzosa dalla aspirazione al senso, che invece è perdita e precarietà (della vita stessa).
L’antico trovava il senso nella vita del santo. Il moderno trova il senso nella vita del “modello”. Ma in ogni caso di imitazioni si tratta. Quello che manca è la produttività della interiorizzazione e del sacrificio. Sacrificio non imposto ma capacità di rinuncia come “dimostrazione di forza” in merito alla propria mancanza.
Nel linguaggio biblico l’appeso al legno è maledetto da Dio, e solo attraverso questo passaggio, che riscatta ogni maledizione, nel sovrapporre la figura del Messia alla porta degli Inferi, è concepibile una vita diversa. Il sacrificio per l’altro come fonte di senso. Senso è dare all’altro nella relazione con l’altro. Cristo ci morì.
Allora stiamo attenti al presente, consideriamoci una piccola parte del tutto, come dice Pierre Hadot: “la simulazione della propria morte come attuale”. Tutto questo ci porta a vivere la passione e allo stesso modo a superarla, superando il nostro narcisismo.
Ed è in questa logica che si può assistere alla nascita del senso, come “ultimo dato percepito”. Umiltà nel ruolo e accettazione del mistero che ci comprende e ci costituisce.
Può essere che alla fine ci sia la negazione assoluta, che il vero e il falso si sovrappongano. Anche la negazione assoluta che il nulla sia, o che il tutto sia nulla, esprime, come parte della affermazione trascendentale, la differenza della intuizione della totalità: l’unico senso.
Guido Savio