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DOLORE E INIZIO

SUL DOLORE COME FORMA DI INIZIO

Nel suo Libro “L’esperienza del dolore”, un libro pubblicato dalla Feltrinelli nel 1995, Salvatore Natoli tocca nelle svariate tematiche della civiltà occidentale: il dolore come conoscenza, il dolore come colpa, il dolore come possibilità di temprarsi. il dolore come espiazione e redenzione, il dolore come semplice colpa e punizione, il dolore come giusto mezzo per la sofferenza.

Uno degli aspetti che Natoli non tocca nella sua carrellata è quello di come il dolore possa rappresentare l’ “inizio” di un qualche cosa che superi il dolore ( dolore punot di arrivo ma anche di partenza)stesso e porti l’individuo su di una posizione diversa da prima, quanto “più aperta” a nuove esperienze, insomma ad una posizione in cui si è più disposti a iniziare altre esperienze rispetto a quella che era la situazione antecedente l’esperienza del dolore.

E’ vero: quando noi ci avviciniamo alla precarietà del senso della nostra vita diveniamo attivi, febbrili, quasi ci svegliamo da uno stato di torpore alla ricerca del tempo perduto, a supplire il tempo che ci sta facendo perdere l’esperienza di dolore. Come se il dolore ci relegasse da una parte statica del mondo mentre tutti gli altri abitanti del mondo procedessero nel loro cammino.

D’altro canto è anche vero che se di dolore non si muore, la sofferenza ci permette di produrre sapienza, di produrre anche conoscenza sulla specificità del dolore stesso.

In sé e per sé il dolore è innocente: non c’è stato nessuno che “se l’è presa con noi”; ma in realtà noi personalizziamo al massimo il dolore e lo viviamo come una “scelta” che qualcosa o qualcuno ha fatto a nostro danno, per farci soffrire per forza.

E d’altra parte la pietà non è che porti grande sollievo, anzi, a volte appesantisce la situazione. Situazione che invece viene alleggerita (ma la operazione non è semplice) attraverso il pudore, attraverso il ripiegare la propria attenzione sul proprio corpo. Il pudore è la più strutturata difesa che noi abbiamo di noi stessi “Il pudore – scrive Natoli – corrisponde alla rivendicazione di sé anche nella stretta della sofferenza, nel più atroce patire”. Addirittura Scheler afferma che l’uomo greco aveva una altissima concezione estetica del proprio corpo e quindi era estremamente restio a lasciarlo vedere soffrire. Pudore come contegno e stile. Non a caso Platone critica i poeti e il teatro che “mettono” in scena il dolore, retrocedendolo sul piano del pudore, mettendolo in piazza, facendone, se si vuole, anche dello spettacolo.

Un giudizio più maturo su questa questione ci è dato dalla riflessione che forse l’arte pone a noi il dolore in una diversa angolazione e dunque possiamo intenderlo e vederlo in maniera diversa, e dunque anche curarlo.

Sta di fatto che nel pudore noi raschiamo il barile fino in fondo e facciamo appello a tutte le nostre forze per durare. Durare anche di fronte al pensiero che ci sia una “Volontà” dietro il dolore che stiamo patendo. Ad esempio nella Bibbia l’esperienza della sofferenza è strettamente legata alla idea di giustizia, Il riconoscimento dell’aver commesso una propria ingiustizia rende tollerabile il dolore, perché l’individuo tende quanto meno a farsene una ragione.

Ma se usciamo dalla sfera metafisica della questione ci accordiamo che il dolore è pur sempre un atto verso il quale la nostra intelligenza è chiamata. E’ chiamata l’intelligenza significa che, a partire dal dolore… se ne può fare qualcosa di diverso, si può iniziare qualcosa di diverso.

E qui il testo di Massimo Cacciari “Dell’Inizio” edito da Adelphi nel 1990. Il punto più interessante da cui partire è la affermazione di Cacciari quando dice: “E’ necessario pertanto definire l’Inizio come affetto dal negativo; e per rispondere al negativo che contiene in sé, che esso dà-inizio”.

“Affetto dal negativo” significa che c’è una assenza, che esiste una mancanza. Se questa mancanza è la privazione di bene, cioè esperienza di dolore, capiamo come l’iniziare debba per forza partire sempre da un vuoto. Per il dolore piò valere anche il vuoti di significato, la privazione di senso, ma proprio questa “affezione negativa” permette all’individuo che sta provando dolore di tentare ad iniziare dell’altro.
>br> “La forza dell’iniziare – scrive poco più in là Cacciari – corrisponde alla potenza del negativo; il Trieb ad dare inizio esprime il bisogno, ma mancanza, la miseria, il vuoto dell’Inizio”.

Noi sappiamo benissimo che il vuoto di cui parliamo non è affatto asettico, è il vuoto determinato dal dolore che… si fa sentire, ma quello che Cacciari vuole mettere in luce è che la mancanza è la debolezza prolifica ed è proprio la mancanza (nel nostro caso di salute) che permette l’inizio.

Il Libro di Cacciari percorre poi altre impervie strade che a noi interessano poco. Quello che ci premeva è questo pensiero: è dal vuoto che si inizia; è dal vuoto di bene che noi individui cominciamo la nostra “disponibilità” ad avere altre e diverse esperienze, forse ancora una volta segnate dal dolore, tuttavia il dolore ci consente uno “spostarci” dal pensiero che prima avevamo di noi stessi, per (passando anche per il vuoto) iniziare un pensiero nuovo. Che certamente non sarà dimentico di tutta la nostra storia, ma che in ogni caso terrà conto della incongruenza e della contraddizione che hanno determinato in noi il dolore.
>br> Il dolore è sempre dato da una contraddizione interna dei termini: se vogliamo, molto più duramente, il dolore è sempre dato da un errore di stima in riferimento dal nostro essere. Ma qui l’intelligenza: quella di capire come si è giunti a quell’errore (ma non tanto per non commetterne più, ma se non altro per non commeterne più di quel genere).

Allora Cacciari ci viene in aiuto con il suo pensiero: bisogna passare un vuoto di senso per avere un senso nuovo; bisogna passare la mancanza per avere di nuovo potenzialità e credenzialità per riproporre la nostra esistenza.
>br> L’inizio è sempre un inizio di nuovi presupposti, che non sono i pregiudizi che ci hanno portato all’errore e al dolore precedenti. Il presupposto ci permette il giocare noi stessi da una posizione nuova e forse anche più leggera rispetto a quella precedente. Ci permette di giocare noi stessi da un pensiero rivisto e corretto, forse maggiormente “centrato” su noi stessi ma non certo nel senso della fissità, bensì nel senso della disponibilità.

Guido Savio

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