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SUL PUDORE

Lettura del libro di Monique Selz “Il pudore. un luogo di libertà”.

SUL PUDORE

A riguardo del pudore più o meno tutti gli studi filosofici e psicologici affermano che si tratta di un comportamento, o di una tendenza, come dice Galimberti nella sua “Enciclopedia della Psicologia” : “A conservare il possesso della propria intimità difendendola dalla possibile intrusione dell’altro”. Si tratta dunque di un, possiamo anche chiamarlo così, sentimento “relazionale”. Ovvero, non esiste in noi il pudore se non è concomitante alla nostra la presenza dell’altro. Il terzo polo, che in questo caso funziona da strumento ma anche da trait d’union è lo “sguardo” che può essere un dato reale, offerto dall’altro della relazione, oppure può essere una presenza interiorizzata.

Queste condizioni erano già state colte da Hegel per il quale “il pudore è l’inizio dell’ira contro qualche cosa che non deve essere. L’uomo che diventa cosciente della sua destinazione superiore, della sua essenza spirituale, non può non considerare inadeguato quel che è solo animalesco, e non può non sforzarsi di nascondere quelle parti del proprio corpo che servono solo a funzioni animali, e non hanno né una diretta determinazione spirituale, né una espressione spirituale” (1836-1838, p. 981). Hegel sta parlando proprio di pudenda.

Sartre collega molto il pudore alla vergogna, vedendone nello sguardo lo strumento di comunicazione. Comunicazione che il soggetto guardato vorrebbe interrompere in quanto la avverte come minaccia in riferimento alla propria soggettività. In altre parole la “soggettività” del soggetto guardato scadrebbe, proprio sotto l’effetto dello sguardo dell’altro, ad una mera oggettività: egli diventerebbe un oggetto in mano (nello sguardo) dell’altro e dunque si verrebbe a trovare in una posizione di difesa. Difesa della propria individualità.

E’ questa la tesi che Monique Selz, psicoanalista e psichiatra francese, sostiene nel suo bello e intenso libro che si intitola per l’appunto “ Il pudore. Un luogo di libertà”.

In una società come la nostra, in cui l’occhio dell’altro, nelle infinite e multiformi accezioni, è portato ad intrufolarsi ovunque, trovando dall’altra parte altrettanta disponibilità alla esibizione. In una società come la nostra in cui il bisogno di possesso di beni materiali non trova quasi confine con la “fame” di possedere l’altro come oggetto. In una società come la nostra dove tutto viene messo in movimento per stimolare il desiderio tanto di possesso quanto di consumo, e la parte intima del singolo non è neppure presa in considerazione come eventuale agenzia di libertà. Ed è proprio sulla libertà che la Selz insiste, in quanto il pudore sarebbe proprio una delle garanzie che noi abbiamo di libertà bei confronti dell’”altro” che con il suo “sguardo” ci forza in continuazione, ci forza ad una difesa.

Il pudore allora si dimostra una difesa indispensabile (affatto patologica) della nostra intimità, individualità e sovranità. Il pudore come sentimento contro la trasparenza voluta a tutti i costi, contro il “pubblico” imposto a suon di medialità; il pudore quasi baluardo contro l’illusione della logica imperante del “tutto è possibile”, il pudore come salute offerta dalla temperanza della sua pratica.

Temperanza proprio come la intendevano i Greci, ovvero “padronanza di sé”, capacità di contenere, di contenere per l’appunto soprattutto nel tempo, il proprio desiderio che, giocoforza, ha obiettivi limitati. Il pudore come limite dentro al quale noi abitiamo e diventiamo unici e irripetibili per l’altro che con noi ha relazione.

La Selz nel suo libro è molto attenta alle questioni del corpo, vedendo, anche nel excursus storico che compie, come la violenza, alla fin fine, vada proprio a ferire il pudore dell’altro, la umanità unica e irripetibile dell’altro. Ferire il corpo è ferire assieme il pudore e la diversità dell’altro. La aggressività si infiltra tra corpo e alterità: per questo fa tanto male. Chi subisce violenza è in ogni caso ridotto ad oggetto nelle mani dell’altro, ed il suo pudore viene calpestato assieme alla sua stessa identità, per non parlare della libertà. Sembra che “tutto sia lecito” sul corpo dell’altro, e questa logica, afferma la Selz, ha portato all’imperativo del piacere ad ogni costo e della esibizione dei corpi.

E scrive qualche riga più avanti: “Dire che non c’è niente da nascondere, significa immediatamente affermare che qualcosa è nascosto, e tale rimane. Ed è l’inaccessibilità di questo qualcosa a motivare il bisogno di spingere sempre più oltre i limiti del vedere e del mostrare”. I limiti del “fare” sul corpo dell’altro, oltrepassando la soglia del pudore che l’altro immancabilmente e umanamente erige.

Ognuno di noi ha molto da nascondere ed è anche bene che diventi esperto nel nasconderlo: ne va della sua identità. Non tanto per reticenza o per “gelosia delle proprie cose”, quanto per saper essere solo con se stesso nel momento in cui c’è pensiero sulla propria identità. Un “non detto” che struttura il soggetto proprio perché taciuto a tal fine.

D’altra parte sappiamo benissimo, parlando d’amore, che il “dirsi tutto” all’interno della relazione è un postulato ideologico che può portare dolore e crisi. Mentre la permanenza del pudore “reciproco” è garanzia che l’altro occupi proprio il posto di altro, sia una vera alterità, abbia in sé qualcosa che io non conosco e che dunque lui (o lei) può tirare fuori nel momento in cui io ho bisogno o vivo angoscia.

E’ un punto importante questo: il pudore garantisce la posizione di alterità dell’altro, ovvero consente che io acceda a lui (o lei) e trovi una risposta, la sua, non già la mia che si è dimostrata fallimentare.

Il pudore finisce allora per identificarsi nella intimità, nella irripetibilità, nella originalità del soggetto, proprio quando lui in esso si ritira: E non sempre si tratta di un ritiro pacifico. E scrive in merito la Selz: “Dal cogito cartesiano, e poi attraverso differenti tradizioni filosofiche (Kant, Husserl, Scheler, Heidegger, Sartre…) fino alla recente attualità (con Levinas e Ricoeur tra gli altri), abbiamo assistito all’emergere di ciò che può essere definito un luogo proprio a se stessi, quello della intimità, mentre si andava scavando uno spazio di discontinuità tra se stessi e l’altro, che è appunto quello dove noi possiamo pensare che abbia sede il pudore”.

Il pudore come “medietas”, come mezzo tra l’Io e il Tu. Il pudore è tanto la nostra intimità quanto il modo di dire la nostra intimità all’altro. E’ tanto stato quanto mezzo. Ma soprattutto la distanza, lo spazio che intercorre tra due che si amano, l’aria vitale; in altre parole, la separazione. L’amore per l’altro chiede un distacco dalla propria identità, un abbandono del proprio Io per potersi aprire alla diversità, alla alterità dell’altro. Finchè rimaniamo “possessori” di noi stessi non potremmo mai avvicinare l’altro. Non tanto perché non possiamo muoversi, ma in quanto abbiamo come limite invalicabile il pensiero di “possesso”.

In uno dei passi più importanti del suo libro la Melz scrive: “L’amore è possibile solo se chi ama e chi è amato sono distinti l’uno dall’altro e dunque separati”. Separati significa non seguire le proiezioni che noi attuiamo nei confronti dell’altro. Separati significa lasciare l’altro “libero da noi” nel senso di non voler sovrapporre il nostro desiderio al suo. Il pudore, sotto questo profilo, trova la sua natura nel determinare uno spazio proprio per ciascuno, nel fatto di garantire i limiti di ciascuno.

La Selz fa riferimento al libro di Shmuel Trigano dal titolo “La séparation d’amour” che sostiene la stessa tesi. Trigano sostiene l’importanza di definire i propri limiti perechè è a partire da lì che esiste la possibilità di movimento verso l’altro, e il pudore è lo strumento attraverso il quale noi tracciamo i nostri limiti.

E il tradizionale adagio che sostiene che la libertà comincia dove “finisce” la libertà dell’altro merita una riformulazione: “La libertà di ognuno ‘comincia’ là dove comincia la libertà dell’altro”, proprio nel rispetto della reciprocità che contraddistingue la relazione che funziona. L’abbandono del contatto fisico dopo l’amore, oltre a segnalare la distanza tra i corpi sancisce la rinascita del desiderio reciproco.

“La funzione del pudore è di circoscrivere uno spazio proprio, e quindi di mantenere una distanza rispetto all’altro”, scrive la Selz. Ed è proprio la parola rispetto la parola della reciprocità, non tanto il “rispetto” come norma esterna, come norma morale, quanto norma giuridica che due che si amano tracciano da soli, nella loro intimità, appunto nella conservazione del proprio pudore. L’amore è una legge che “si pone” come componente morale, non una legge che la come “oggetto” la applicazione della morale. Questa è stata la grande scoperta freudiana.

Saper prendere su se stessi l’altro è il grado della legge in amore, fare del piacere dell’altro il proprio piacere, fare della soddisfazione dell’altro la propria soddisfazione, senza tuttavia fare della intimità dell’altro la propria “intimità”. “Di conseguenza – scrive la Selz – il pudore ha il compito di nascondere l’immagine per proteggere l’essere”. E l’essere è il nostro “essere soli”.

Il pudore interviene quindi a definire il confine di un luogo che è prerogativa di se stessi, il “proprio” luogo, che è poi il luogo della libertà dal quale parte lo scambio con l’altro nel rapporto d’amore, ma anche il luogo della sana a giusta protezione nei confronti dell’altro: bisogna saper proteggere se stessi per saper e poter proteggere l’altro sostiene la Selz.

Il pudore è dunque il linguaggio del corpo, ma anche il linguaggio che preserva i corpi che si associano e si dividono tra di loro in un moto di continuità; il linguaggio è dire ma anche nascondere (non fare mistero) del proprio essere, e il pudore rappresenta la libertà del linguaggio di muoversi nel mondo delle relazioni.

Conclude la Selz intendendo il pudore come garanzia, non solo garanzia per il singolo per potersi rifugiare nei momenti di difficoltà, ma anche una garanzia collettiva, una garanzia del genere umano che invece è tanto provata e tentata dalla esteriorità, dalla apparenza e dall’eccesso di trasparenza.

Guido Savio

 

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