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ELOISA E ABELARDO

ELOISA E ABELARDO: LA PASSIONE SODDISFATTA

LA PASSIONE SODDISFATTA: ELOISA ED ABELARDO

Come esempio massimo, paradigmatico della cosiddetta «passione d’amore» Stendhal indica due personaggi medievali, Abelardo ed Eloisa. Passione amorosa precorritrice dei tempi in quanto la cifra incontestabile della relazione era di duplice matrice. Da un lato una forte e riconosciuta attrazione sessuale, dall’altro una ammirazione incondizionata della donna per il valore intellettuale e, se si vuole, anche morale, dell’uomo. Eloisa è il prototipo di donna che va ascoltata perché in merito alla passione ha moltissimo da dire, soprattutto in tempi in cui la passione era considerata «Un sentimento che ci prende, è una impurità dello spirito lontano dalla ‘via sovrana dell’amore’ di cui parla Paolo» come recita Agostino (il riferimento è alla Lettera ai Corinzi, 12, 31).

«Tutti correvano a vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti seguivano con lo sguardo voltando il capo indietro se ti incrociavano per strada (…) Quale donna non invidiava le mie gioie e il mio letto? (…) Soprattutto due cose in te affascinavano: la grazia della tua poesia e delle tue canzoni, talenti davvero rari in un filosofo come te (…) Eri giovane, bello, intelligente». E oltre ancora: «Il mio amore per te è stato così illimitato e smisurato da privarsi di tutto, persino di me stessa per avere l’unico oggetto del mio desiderio (…) Ho fatto tutto per mostrarti che l’unico padrone del mio corpo e della mia anima eri tu». (Abelardo ed Eloisa, Historia calamitatum mearum; Epistulae.

Appaiono in queste righe chiari i caratteri connotativi della passione d’amore: il desiderio fisico; il sentire l’amore come una forza sovrastante (ma non sopraffacente) e non esterna a chi ama, il riconoscimento che l’amato vale di più di chi ama e che è più nobile e più potente dell’amante nonostante i rimproveri, le sofferenze e la gelosia di quest’ultimo.

Fino alla fine. «Ho fatto tutto per obbedire a te, non a Dio, solo per te ho preso il velo monacale».

Il rapporto tra Abelardo ed Eloisa è paradigmatico della passione amorosa in quanto mette in luce quella che potremmo chiamare il dato preclusivo: l’amore tra uomo e donna non può che essere reciproco e che non si può non amare chi ci ama davvero («Amor ch’ a nullo amato amar perdona»). Questo perché Abelardo ed Eloisa parlano nel loro epistolario di un amore vero, non di un amore cortese, non di una astrazione. Non parlano di nulla che avviene al di fuori di due corpi e di due anime (che dello stesso corpo fanno parte). Non si tratta né di infatuazione, né di voluttà; erano due esseri fatti l’uno per l’altra ma soprattutto erano due esseri che amavano per la prima volta.

«L’amore si presentava loro sotto l’aspetto più inedito, più totalizzante e assoluto: una specie di Paradiso terrestre della Genesi» (R. Pernaud, Eloisa ed Abelardo, trad. it. C. Marabelli, Milano 1982, p. 46). Ma riuscirono a vivere la passione all’interno di un dialogo tra due corpi. Le loro stesse identità avevano a che fare con il loro viversi appassionatamente.

Altra caratteristica paradigmatica saliente dell’amore di Eloisa per Abelardo è il disinteresse. «Hai taciuto – scrive Eloisa in risposta ad Abelardo nella lettera II, che è una lettera di rimprovero ad Abelardo di non avere capito niente in merito alle sue motivazioni per non desiderare il matrimonio – la maggior parte delle ragioni per cui preferivo l’amore al matrimonio, la libertà al legame nuziale».

La passione amorosa, afferma Eloisa, non è istituzionalizzabile. Sia nel senso del matrimonio, ma soprattutto nel senso che la passione non può richiedere come pretesa uno scambio. Essa è un dare assoluto. Eloisa non vuole nulla in cambio, se non di essere lasciata libera di amare chi ama e chi la ama. Una certa pressione ideologica antimatrimoniale era certo presente nel Medioevo e Eloisa ne è una accanita portavoce: «meglio amante che moglie» ripete spesso nella sue lettere. Ma quello che sorprende è il carattere di positività che ella attribuisce al piacere sessuale: «Abbiamo attraversato tutte le fasi dell’amore – ha modo di scrivere dal convento – e se in amore qualcosa si può inventare, noi lo abbiamo inventato. Il nostro piacere era tanto più intenso anche perché prima non l’avevamo conosciuto e non ci stancavamo mai…». Eppure Eloisa, nella sua cultura e nella sua intelligenza sa sottomettere nella scala del suo criterio di merito il piacere sessuale all’amore stesso. In una delle tante lettere di rimprovero ha modo di scrivere: «Ecco quel che penso e tutti sospettano: i sensi e non l’amore ti hanno legato a me, ti attraevo fisicamente, ma non era veramente amata da te». Ed Eloisa mai ha modo di pentirsi del proprio amore adultero: la passione, come affermano i poeti, può essere giudicata solamente dal giudizio proprio interiore ed Eloisa si sente ed è realmente innocente.

Nuovo passo è il desiderio del bene dell’altro. La passione amorosa è trattare bene l’altro in quanto il massimo desiderio è il suo bene. In un ulteriore rimprovero ad Abelardo Eloisa tocca la dialettica catulliana della differenza tra amare e voler bene. «Questo, o mio carissimo, non è un’opinione personale, ma tutti la pensano così. (…) E perciò, quando il desiderio si è spento, è svanito anche tutto l’amore». Abelardo in effetti ama soltanto, mentre Eloisa, oltre che amarlo, vuole anche il suo bene. La passione va oltre l’amore proprio nel senso del volere il bene dell’altro sia nella reciprocità possibile, ma anche nel momento della impossibilità della reciprocità del desiderio.

L’amore è altro, e solo in quanto tale mantiene la sue nitida definizione: questo sembra essere il grande insegnamento di Eloisa. L’amore è la esperienza identificativa del soggetto. Veniamo dall’amore e gli altri ci definiscono in merito all’amore. Questo sembra il lascito testamentario di Eloisa. Anche nella lontananza, che può essere l’orizzonte in cui la passione si affievolisce e lascia il campo alle ombre della memoria. Il primo degli «Inni alla notte» di Novalis racconta proprio questa odissea spirituale. Ma la lontananza, come insegna R. Barthes nel suo «Frammenti di un discorso amoroso» è il cancello che apre la strada alla passione, in quanto passione è passione della differenza: «Come! Il desiderio non è forse sempre lo stesso, sia che l’oggetto sia presente o assente? L’oggetto non è forse sempre ‘assente’ – Non si tratta dello stesso struggimento: vi sono due parole: ‘Pòthos’, per il desiderio di essere assente, e ‘Himeros’, più ardente, per il desiderio dell’ essere presente» (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi,Torino 1979, p. 35).
>br> La lontananza è il metro della sperimentazione della differenza, che è la più importante delle caratteristiche paradigmatiche della passione d’amore. La differenza tra chi ama e chi è amato (nella reciprocità dei posti) per cui l’amore avviene solamente nella «capacità» del soggetto di stare nel posto di soggetto, quando da questo posto chiama, e di stare nella posto di altro, quando a questo posto è chiamato.

«La differenza sessuale è certamente il contenuto più adeguato dell’universale, e questo contenuto è nello stesso tempo reale e universale. La differenza sessuale è un dato immediato naturale, ed è componente reale e irriducibile dell’universale. Il genere umano è composto nel suo insieme di donne e di uomini, e di nient’altro» (L. Irigaray, Amo a te, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 54).

La riflessione della Irigaray è il dato di partenza su cui la passione non può non articolarsi: la differenza è garanzia che esiste in io e un tu e nello stesso tempo è il dato universale che contiene la «possibilità» che la relazione abbia vita senza che io e tu si mescolino in una comunanza che risulterebbe mortifera, che sconfesserebbe la distanza imprescindibile affinché un «possibile» avvenga tra un io e un tu. La passione amorosa è questo «possibile» che trova un proprio percorso.

La condizione indispensabile della alterità nel dialogo interno. E del dialogo esterno. «Gli altri», in questo caso, non sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto. Gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e tra i quali quindi, si è anche. Questo anche-esserci-con- essi, non ha il carattere ontologico di un essere-semplicemente-presente’con’ dentro un mondo. Il ‘con’ è un ‘con’ conforme all’E e l’«anche» esprime l’identità di essere quale essere-nel-mondo prendente cura, esserci prendente cura e preveggente ambientalmente. ‘Con’ e ‘anche’ sono da intendersi esistenzialmente, non categorialmente» (M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, p. 153)».

GUIDO SAVIO

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