VOLTAIRE
MEMNONE O L’UMANA SAGGEZZA
titolo originale: Memnon ou La sagesse humaine
traduzione: Fidelio Bonaguro, novembre 2004
Memnone concepì un giorno l’insensato progetto di essere perfettamente saggio. Non esiste uomo a cui questa pazzia non sia talvolta passata per il capo. Memnone disse tra sé: “Per essere saggio molto, e di conseguenza molto felice, basta privarsi d’ogni genere di passione; e, come tutti sanno, non vi è cosa più facile. Prima di tutto, non amerò mai donna; dato che nel vedere una perfetta beltà dirò a me stesso: queste guance un giorno si riempiranno di rughe; questi occhi belli saranno contornati di rosso; questo seno tondo diventerà piatto e pendente; questa testa da bella diventerà calva. Ora altro non ho da fare che vederla adesso con gli stessi occhi con cui la vedrò un giorno, e di certo non sarà questa testa a far girare la mia.
“In secondo luogo mi manterrò sempre sobrio; mi guarderò bene dal farmi tentare dalla buona tavola, da deliziosi vini, dalla seduzione delle compagnie; basterà che mi rappresenti le conseguenze degli eccessi, la testa pesante, lo stomaco imbarazzato, perdita della ragione, della salute e di tempo, allora mangerò soltanto al bisogno; la salute rimarrà sempre costante, le idee sempre limpide e luminose. E tutto questo è talmente facile che non vi è merito nel riuscirci.
br>br> “In seguito, diceva Memnone, è necessario che pensi un poco al mio patrimonio; ho desideri moderati; i miei averi sono solidamente collocati sul ricevitore generale delle finanze di Ninive; ho di che vivere indipendente: è questo il maggiore degli averi. Mai sarò nella cruda necessità di fare il cortigiano; non invidierò nessuno, e nessuno m’invidierà. Ecco un’altra cosa facilissima. Amici ne ho, proseguiva, me li serberò, poiché non avranno niente da contendermi. Mai avrò modo di litigare con loro, né loro con me; non vi è difficoltà in questo.”
Dopo essersi fatto il suo piccolo piano di saggezza in camera, Memnone sporse la testa dalla finestra. Vide due donne che passeggiavano sotto i platani nei pressi di casa sua. Una era vecchia, e pareva che niente l’agitasse; l’altra era giovane, graziosa, e sembrava tutta presa nei suoi pensieri. Sospirava, piangeva, e questo non faceva che accrescerne le grazie. Il nostro saggio fu commosso, non dalla bellezza della dama (era ben certo di non soffrire di una tal debolezza), ma dall’afflizione in cui la vedeva. Scese, abbordò la giovane ninivita con l’intenzione di consolarla saggiamente. Quell’essere incantevole gli raccontò, col tono più ingenuo e toccante, tutto il male che le faceva uno zio che non esisteva affatto; con quali artifici questi l’avesse depredata di un bene che non aveva mai posseduto, e quanto avesse da temere dalla sua violenza. “Voi mi sembrate uomo di cotanto buon senno, gli disse, che se aveste la condiscendenza di venire fino in casa mia, e di esaminare le mie faccende, son sicura che mi togliereste dal crudele imbarazzo in cui mi trovo.” Memnone non esitò a seguirla, per esaminare saggiamente le sue faccende, e per darle un buon consiglio.
La dama afflitta lo condusse in una camera profumata, e lo fece cortesemente accomodare vicino a lei su di un largo sofà, dove sedevano tutt’e due uno di fronte all’altra con le gambe incrociate. La dama parlò abbassando gli occhi, dai quali talvolta sgorgavano lacrime, e che levandosi incontravano sempre lo sguardo del saggio Memnone. I suoi discorsi erano pieni di una commozione che raddoppiava tutte le volte che si guardavano. Memnone prendeva le sue faccende estremamente a cuore, e sentiva accrescersi di momento in momento la voglia di rendere servizio ad una persona tanto onesta e sfortunata. Nel calore della conversazione, impercettibilmente, smisero di stare uno di fronte all’altra. Le gambe non rimasero più incrociate. Memnone la consigliò così da presso, e le diede pareri così teneri, che più non potevano, né l’uno né l’altra, parlar d’affari e più non sapevano come stessero le cose.
E quando le cose stavano proprio a quel punto, arriva lo zio, come ognuno se lo può ben immaginare: era armato dalla testa ai piedi; e la prima cosa che disse fu che avrebbe ucciso, com’era giusto, il saggio Memnone e la nipote; l’ultima che gli scappò detta fu che avrebbe potuto perdonare in cambio di molto danaro. Memnone fu costretto a dare tutto quel che aveva. Beati quei tempi in cui era dato cavarsela così a buon mercato; l’America non era stata ancora scoperta, e le dame afflitte non erano neppur lontanamente pericolose quanto lo sono oggi.
Memnone, pieno di vergogna e disperato, fece rientro a casa: vi trovò un biglietto che lo invitava a cenare con alcuni intimi amici. “Se resto solo in casa, disse, avrò la mente occupata dalla mia triste avventura, non mangerò affatto; mi ammalerò: è meglio che vada con i miei intimi amici a fare un frugale pasto. Dimenticherò, raddolcito dalla loro compagnia, la sciocchezza che ho fatto stamattina.” Va all’appuntamento; lo trovano un po’ abbattuto. Lo fanno bere per dissipare la sua tristezza. Un po’ di vino preso moderatamente è un rimedio per l’anima e per il corpo. E’ così che pensa il saggio Memnone; e si ubriaca. Dopo il pasto gli propongono di giocare. Un gioco misurato tra amici è un passatempo onesto. Gioca; gli vincono tutto quel che ha nella borsa, e quattro volte tanto sulla parola. Nasce un litigio sul gioco, ci si scalda: uno dei suoi intimi amici gli getta in faccia un bossolo da dadi, e gli orba un occhio. Il saggio Memnone viene riportato a casa ubriaco, senza soldi e con un occhio di meno.
Smaltisce un poco la sbornia, e non appena ha la testa più sgombra, manda il valletto a cercar danaro dal ricevitore generale delle finanze di Ninive per pagare gli intimi amici: il suo debitore, gli vien detto, ha fatto quella mattina stessa bancarotta fraudolenta e questo già mette in allarme ben cento famiglie. Memnone, indignato, si reca a corte con un impiastro sull’occhio e una supplica in mano per chiedere al re giustizia contro il bancarottiere. In un salone incontra un cospicuo numero di dame che portavano tutte senza il minimo impaccio dei cerchi di ventiquattro piedi di circonferenza. Una di esse, che lo conosceva un poco, disse guardandolo di sguincio: “Ah! che orrore!” Un’altra, che lo conosceva meglio, gli disse: “Buonasera, signor Memnone; mi fa, credetemi signor Memnone, mi fa davvero molto piacere vedervi; a proposito, signor Memnone, perché avete perso un occhio?” E passò oltre senza aspettar risposta. Memnone si nascose in un angolo, e aspettò il momento in cui potesse gettarsi ai piedi del monarca. Arrivò il suo turno. Baciò tre volte per terra, e presentò la sua supplica. Sua Graziosa Maestà l’accolse molto favorevolmente, e consegnò la relazione ad uno dei suoi satrapi per rendergliene conto. Il satrapo trae Memnone in disparte e gli dice, altezzoso, amaramente ghignando: “Trovo che siate proprio uno spiritoso esemplare di guercio a rivolgervi al re piuttosto che a me, e ancora più spiritoso ad osare chieder giustizia contro un onesto bancarottiere che io onoro della mia protezione, e che è nipote di una cameriera della mia amante. Lasciate perdere quest’affare, amico mio, se volete conservare l’occhio che vi resta.”
Memnone, avendo così rinunciato quel mattino alle donne, agli eccessi della tavola, al gioco, alle liti, e soprattutto alla corte, era stato prima di notte ingannato e derubato da una bella dama, si era ubriacato, aveva giocato e litigato, si era fatto orbare un occhio, ed era stato a corte, dove lo avevano preso per i fondelli.
Impietrito dallo stupore e straziato dal dolore, se ne torna con la morte nel cuore. Vuole rientrare; ma sulla porta incontra degli uscieri, mandati dai creditori, che gli stanno sgomberando la casa. E’ quasi sul punto di svenire sotto un platano; e lì incontra la bella dama del mattino, che passeggiava con il caro zio, e che scoppiò a ridere vedendo Memnone con l’impiastro sull’occhio. Venne la notte; Memnone si coricò sulla paglia nei pressi dei muri di casa sua. Fu colto dalla febbre; nell’accesso s’addormentò, e uno spirito celeste gli apparve in sogno.
Era tutto splendente di luce. Aveva sei belle ali, ma né piedi, né testa, né coda, e non rassomigliava a niente. “ Chi sei? gli disse Memnone. – Il tuo buon genio, gli rispose l’altro. – Allora restituiscimi l’occhio, la salute, le ricchezze, la saggezza, gli disse Memnone.” Poi gli raccontò come aveva perduto tutto quanto in un giorno. “Queste sono avventure che non capitano mai nel mondo che noi abitiamo, disse lo spirito. – E che mondo abitate voi? disse l’uomo afflitto. – La mia patria, rispose, è a cinquecento milioni di leghe dal sole, in una piccola stella nei pressi di Sirio, che da qui puoi vedere. – Che bel paese! disse Memnone; ma come! presso di voi non vi sono sgualdrine che ingannano un pover’uomo, niente intimi amici che gli vincono il danaro e che l’orbano d’un occhio, niente bancarottieri, niente satrapi che si prendono gioco di voi rifiutandovi giustizia? – No, disse l’abitante della stella, niente di tutto questo. Noi non siamo mai ingannati dalle donne, perché non ne abbiamo affatto; non cadiamo negli eccessi della tavola, perché non mangiamo affatto; non abbiamo bancarottieri, perché non vi è da noi né oro né argento; nessuno può orbarci gli occhi, perché noi non abbiamo un corpo con le fattezze dei vostri; e i satrapi mai ci fanno ingiustizia, perché nella nostra piccola stella tutti quanti sono uguali.”
Memnone gli disse allora: “Monsignore, senza donne e senza cibo, di cosa vi occupate per passare il tempo?- Vegliamo, disse il genio, sugli altri globi che ci sono affidati; e io vengo a consolarti. – Ahimè! riprese Memnone, come mai non siete venuto la notte scorsa ad impedirmi di fare tante follie? – Ero da Assan, tuo fratello maggiore, disse l’essere celeste. Lui è da compiangere più di te. Sua Graziosa Maestà il re delle Indie, alla corte del quale ha l’onore di trovarsi, gli ha fatto orbare tutt’e due gli occhi per una piccola indiscrezione, ed è attualmente in una segreta, con i ferri ai piedi e alle mani. – Val la pena allora, disse Memnone, d’avere un buon genio in famiglia affinché, di due fratelli, l’uno sia guercio, l’altro cieco; uno coricato sulla paglia, l’altro in prigione. – La tua sorte cambierà, riprese l’animale della stella. E’ vero che guercio resterai sempre; ma, eccetto questo, sarai abbastanza felice, purché tu non faccia mai lo sciocco proposito di essere perfettamente saggio. – E’ dunque cosa a cui è impossibile pervenire? esclamò Memnone sospirando. – Tanto impossibile, gli replicò l’altro, quanto essere perfettamente abile, perfettamente forte, perfettamente potente, perfettamente felice. Perfino noi siamo ben lungi da questo. C’è un solo globo in cui esiste tutto ciò; ma nei centomila milioni di mondi che sono dispersi nello spazio tutto si segue per gradi. Vi si trova meno saggezza e piacere nel secondo che nel primo, meno nel terzo che non nel secondo, e così di seguito fino all’ultimo, dove tutti quanti sono completamente pazzi. – Temo molto, disse Memnone, che il nostro piccolo globo terraqueo sia precisamente il manicomio dell’universo di cui mi fate l’onore di parlarmi. – Non del tutto, disse lo spirito; ma si avvicina: ogni cosa deve stare al suo posto. – Eh! disse Memnone, ma allora certi poeti, certi filosofi, sono nel torto assoluto quando dicono che tutto è bene? – Hanno assolutamente ragione, disse il filosofo di lassù, qualora si consideri l’ordinamento dell’universo nella sua interezza. – Ah! ci crederò, replicò il povero Memnone, soltanto quando non sarò più guercio.”
Traduzione di Fidelio Bonaguro