IN AMORE NON C’E’ NULLA DA DIMOSTRARE. ALLORA LA SUA PRATICA PUO’ RISULTARE FACILE E SOPRATTUTTO LIBERA.
Il concetto di facilità si rifà direttamente a quello di “facibilità”, ovvero “ciò che può essere fatto” “ciò che si può fare. Il succedere del fare sta nelle mie facoltà di produrre. E produrre, lo sappiamo, è sempre produrre con un altro, all’interno della relazione. Ricordo qui i due pensieri di Leopardi, sul Rabbino e sulla Scimmia (IL FARE) in cui il poeta di Recanati affermava, ribadiva con forza, la difficoltà di amare il proprio simile. E più il simile è simile, maggiormente noi ci teniamo alla larga. La libertà in amore richiede per appunto spazio, distanza, lontananza e anche distacco. Lo stesso discorso lo fa Dostoevskij in due brani formidabili dei “Fratelli Karamazov”.
Il primo quello titolato “La Ribellione” nel quale Ivan professa la sua ribellione a Dio portando la causa della sofferenza e del dolore dei bambini. Ivan porta esempi di sofferenza di bambini. Immagini crude e rudi dalle quali egli trae la sua conclusione, quella di restituire il biglietto a Dio.
Il secondo è quello filosoficamente più importante, cioè “La Leggenda del Grande Inquisitore” dove Ivan imputa a Cristo di avere portato agli uomini la libertà senza che questo abbiano mai avuto gli strumenti per servirsene senza soffrire.
Dunque da “La Ribellione”. Ivan sta parlando al fratello Alesa, il buono, l’invasato di Cristo: “’Devo farti una confessione – esordì Ivan – : non riesco a capire come si possa amare il prossimo. Secondo me è impossibile amare proprio quelli che ci stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano. Una volta ho letto da qualche parte la storia di Giovanni il Misericordioso, un santo”. Anticipo: ilmconcetto della libertà in amore, proprio trattandosi di libertà… in amore niente avviene per forza. In amore non esiste una agenzia o una ideologia sovrastrutturale che lo comandi o che lo ordini. Se ciò dovesse avvenire non si tratterebbe di amore ma di un rapporto completamente diverso, quello di Servo/ Padrone, che appunto con l’amore non ha nulla a che fare. La logica del bisogno non regge in amore. Continua Ivan: “Un giorno un viandante, affamato e infreddolito, andò da lui e gli chiese di riscaldarlo. Giovanni lo fece coricare nel letto, lo abbracciò e prese a soffiargli sulla bocca, putrida e puzzolente a causa di una terribile malattia. Io sono convinto che lo facesse con una lacerazione piena di falsità, per il dovere di amare che gli era stato imposto, per una penitenza che si era inflitto.” Se io mi presentassi alle persone, mettiamo caso tra il grottesco e l’assurdo, con una divisa che porta la scritta… “ assistente amante”, come nelle piscine pubbliche c’è l’”assistente bagnanti”, significa che mi presento con un ruolo, con una mansione ma anche con una “necessità”, con un bisogno di amare. Diversamente non porterei la scritta. Lo farei dunque per forza o per dovere. E, trattandosi di amore, sarei la persona meno indicata a farlo. L’amore ha a che fare assolutamente con la libertà della domanda e con la libertà della risposta. L’assistente bagnanti ha a che fare con persone che stanno annegando, dunque che hanno assoluto bisogno. La libertà è bandita da questa relazione. E qui possiamo mettere nel novero i cosiddetti “innamorati dell’amore”. Persone che non amano l’altro reale ma amano la parola amore, o il dovere-amore, o la parole dell’amore, o il galateo dell’amore, amano se stessi amanti disinteressandosi completamente dell’altro reale. Lo usano come strumento per mettere in atto la loro performance. Per potersi specchiare in se stessi nel ruolo di amanti, ma senza amare per davvero. Come se dicessero all’altro: “Guarda come si fa ad amare, impara da me”. Allora abbiamo le formule del rispetto, le formule della connvenzione, le formule dell’uso, le formule del dispositivo, le formule della imposizione e… chi più ne ha più ne metta. Tutte istanze che portano a soprassedere l’altro come entità reale e a inglobarlo in una propria logica saprofitica.
E questo è il passaggio chiave di questo brano: “Perché si possa amare una persona è necessario che essa si celi alla vista, perché non appena essa mostra il viso l’amore verrà meno”. Sappiamo che Freud si è occupato in più di una occasione di Dostoevskij rinvenendo nella personalità del grande scrittore russo dei tratti perversi. Ecco, questa è una frase perversa, proprio perché noi amiamo l’altro non “in absentia” (ovvero nelle varie forme di idealizzazione) ma in “praesentia”, ovvero nel corpo a partire dalla parte del corpo che per motivi fin troppo ovvii qui da elencare, è la più significativa, la più espressiva, se si vuole, la più attraente: il viso. Non amiamo l’altro quando il suo viso ci sfugge o sfuma davanti ai nostri occhi. Lo amiamo quanto il suo viso è calda testimonianza della sua presenza e della sua disponibilità al rapporto.
Allora scrive Remo Bodei in “Destini personali – L’eta della colonizzazione delle coscienze”. Citando Simmel Bodei afferma del viso, che non è il viso di Dostoewskij, che per essere amato deve sparire, questo è il viso della sanzione dell’amore. Bodei parla della “legge individuale” in Simmel, che si è opposta ad una legge universale kantiana e denuncia il fallimento dell’imperativo categorico come agente che possa regolare il rapporto. Simmel propone dunque la “legge individuale”, un partire dal basso anzichè partire dall’alto. Una legge della libertà. “Questa (la “legge individuale”) ha la sua icona nel volto inconfondibile di ognuno, il luogo simbolico più espressivo che si conosca, dotato di sfumature che possono moltiplicarsi all’infinito e in cui i più piccoli movimenti riescono a modificare il tutto”. Pensiamo a quella che è la superficie fisica che noi “vediamo” nella nostra giornata. Potremmo dire chilometri e chilometri quadrati. Eppure il luogo di maggiore concentrazione delle nostre emozioni, delle nostre aspettative, del nostro desiderio è il volto umano, che occuperà sì o no trenta centimetri quadrati. Forse questa può essere una riflessione scontata e banale ma rende bene il “valore” dell’incontro nella relazione tra i volti. Dove anche un minimo particolare che muta riesce a cambiare la connotazione e la denotazione dell’insieme stesso.
Adesso Bodei cita direttamente Simmel: “Non c’è nel mondo visibile, alcuna struttura che, come il volto umano, riesca a convogliare una così grande quantità di forme e di superfici in una così incondizionata unità di senso”. Incondizionata significa … alla quale non possono venire poste condizioni. Il viso dell’altro in amore è incondizionato, nel senso che non segue le mie condizioni, e se essa viso cambia in un particolare, io stesso devo riposizionare il mio desiderio, ridisegnare la mia volontà, forse riscrivere il mio progetto. La novità portata dall’altro altro non è che un sorriso inaspettato, o un corrucciare le ciglia in un altro. E da questo apparentemente insignificanti segni il battito del nostro cuore varia di intensità, i nostri pensieri si illuminano o si rabbuiano. Ed è questa la questione della libertà in amore: l’altro è libero di sorridere o corrucciare. Libertà in amore significa prima di tutto… “libero da me”. E’ fin troppo facile sponsorizzare la libertà dell’altro quando riguarda agenzie, situazioni, storie, relazioni, passato, legami esterni. Il bello è quando l’altro si libera da noi. Lì noi siamo chiamati alla maggiore difficoltà in amore. L’altro che si stacca per essere amato. L’altro che si allontana per tenere vivo il rapporto.
Adesso continua Bodei: “Un corrugamento della fronte, un arcuarsi delle sopracciglia, un impercettibile contrarsi delle labbra, un allentarsi delle mandibole: tutto è significativo secondo una ermeneutica che abbiamo appreso sin dall’infanzia, prima ancora del linguaggio parlato”.
Come dire che l’amore è la realtà mobile dell’altro, non la scomparsa dei segni dell’altro che mi ricacciano in una logica speculare per cui io, se amo, amo l’amore, o amo me stesso amante, o amo il vuoto, la vanità di Qohelet.
E torniamo ai “Fratelli Karamazov”. Ora Ivan introduce nel suo racconto la figura dello starec Zosima, un santo che una volta morto e una volta che il suo corpo fu esposto per la preghhiera dei fedeli nella chiesa del paese, questo corpo iniziò a mandare un fetore insopportabile che fece venire ai fedeli stessi dei pensieri di dubbio sulla stesa santità dello starec.
Continua Ivan: “’Più di una volta lo starec Zosima ha parlato di questo’ osservò Alesa; ‘ha anche detto che spesso il viso di un uomo, per chi è inesperto in amore, diventa un ostacolo per l’amore. Tuttavia c’è anche molto amore nell’umanità, amore quasi incomparabile a quello di Cristo, questo l’ho visto io stesso, Ivan…’”. Alesa, che non ha carattere, non ha capacità di contraddittorio di fronte al fratello, ne sostiene la tesi.
Se allora l’altro, come scrive Bodei, è incondizionato, la mia libertà in amore sarà una libertà condizionata. E qui mi piacerebbe dire che la libertà è condizionata dalle forme e dalla espressioni del viso dell’altro. Dal corpo, più che dai ragionamenti o dai discorsi logici, o dalle belle parole o dai buoni propositi.
Alesa manda il discorso verso Cristo. Verso l’amore di Cristo. Noi diremo verso la inimitabilità dell’amore di Cristo, malgrado ci sia stato chi ha avuto il coraggio di scrivere “Le imitazioni di Cristo”.
Nei Fratelli Karamazov la parte più riconosciutamente intimistica e filosofica è quella della “La leggenda del Santo Inquisitore”. Si narra che a Siviglia nell’anno 1500, nel momento pi acuto della azione della Santa Inquisizione, ritorna Gesù Cristo e il Grande Inquisitore lo inquisisce. Lo inquisisce in modo particolare e alla fin fine su di un unico tema. La libertà: La libertà che Cristo ha portato agli uomini credendo con ciò di portare un bene ma che invece un bene non è proprio stato visto che gli uomini sono costituzionalmente impreparati a gestire la libertà.
Il Grande Inquisitore accusa Cristo appunto di avere portato la libertà fra gli uomini. Ma gli uomini non sanno che cosa farsene e si trovano nella costante necessità di darla in mano a qualcun altro. “ Tu vuoi andare per il mondo e ci vai a mani vuote, con una certa promessa di libertà che essi (gli uomini) nella loro semplice e innata sregolatezza, non possono memmeno concepire, una libertà che temono e paventano, giacchè non c’è mai stato nulla di più insopportabile, per l’uomo e per la società umana, della libertà”. Il Grande Inquisitore afferma che gli uomini non sanno sopportare di staccarsi dalla globalità e di “individuarsi”. Non sanno diventare individui usando la loro stessa libertà. Gli uomini secondo il Grande Inquisitore vivono di una natura povera, quasi luterana, naturaliter male et vitiata natura umana. E prende in mano la prima delle tre tentazioni di Satana nei confronti di Cristo nel deserto.
“Ma le vedi quelle pietre in questo spoglio deserto arroventato? Trasformale in pani e l’umanità correrà dietro a te come un gregge riconoscente e sottomesso, sebbene eternamente in ansia che tu possa ritirare la mano e negarle il pane. Ma tu non volesti privare l’uomo della sua libertà e rifiutasti la proposta pensando: che libertà può essere quella comperata con il pane?”.
Noi siamo fatti di pane. La nostra libertà non ha a che fare con la rinuncia al pane ma con la accettazione del nostro bisogno di pane. Se vogliamo essere indipendenti dobbiamo sapere essere dipendenti. La nostra dipendenza è quella dal pane. Necessità che il pane ci sfami. Che del pane non si può fare a meno. Il pensiero di libertà è il pensiero di essere soggetti (subiectum) al pane. Pane vuol dire toccare il viso dell’altro.
Se in tutto ciò volessimo trovare una contraddizione la troviamo certamente: la libertà è mescolata al bisogno. Ma è proprio così: la libertà assoluta altro non sarebbe che una follia. Il bisogno è contingentatore rispetto alla libertà. Ne costituisce un calmiere. Noi siamo fatti di spinta a superare i limiti e di richiamo al limite stesso. Contraddizione allora nella coesistenza di pane e libertà, bisogno e libertà, corpo con lo spirito, etc. Nel momento in cui noi abbiamo il pensiero che siamo fatti di molteplicità, di agenzie anche in contraddizione tra di loro; nel momento in cui noi capiamo che siamo agiti “contemporaneamente” dalla molteplicità che ci popola.
Continua il Grande Inquisitore: “Replicasti che l’uomo non vive di solo pane: ma lo sai che per amore di quel pane terreno lo spirito della terra si solleverà contro di te e ti sconfiggerà e tutti lo seguiranno gridando:’ Chi può stare alla pari con questa bestia, essa ci ha dato il fuoco tolto dal cielo? Non lo sai che le ere passeranno e l’umanità proclamerà per bocca dei suoi saggi e scienziati, che il delitto non esiste e dunque non esiste il peccato, ma esistono gli affamati? ‘ Dà da mangiare agli uomini e poi chiedi loro la virtù’. Ecco che cosa scriveranno sul vessillo che innalzeranno contro di te e con il quale la tua Chiesa sarà istrutta. Al posto della tua Chiesa sarà innalzato un nuovo edificio, sarà innalzata la terribile Torre di Babele…”.
Certo che l’uomo non vive di solo pane. Ma io direi soprattutto di pene. Soprattutto di sana dipendenza da tutte le forme di necessità che nel nostro vivere sono ineludibili quali il tempo, il dolore, la malattia, la morte.
Guido Savio
(continua)