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AMORE E DESIDERIO PARTE SECONDA

Amore e desiderio: due dimensioni, due moti, due realtà che segnano la “divisione” dell’Uomo.

Parte seconda

Ma stacchiamoci dagli esempi fin troppo realistici di Freud per tornare al desiderio. Il desiderio dichiara che l’altro non deve essere libero da vincoli. Questo altro è il “fuori” assoluto di Heidegger. E’ la mano amata dall’anima di Bresson. E’ “il desiderio è il desiderio dell’altro” di Lacan. Fin troppo semplice dire che solo “fuori” avviene la relazione, solo “fuori” avviene la passione, il desiderio. Chiederci: fuori da che cosa o da chi forse è superfluo. Fuori e basta. Forse fuori anche da noi stessi in quanto il desiderio stesso è fuori e noi lo seguiamo. Il desiderio lo si nomina. Lo si chiama per nome e il nome è il nome dell’altro. Non si nomina la stasi ma si nomina il moto. Non si nomina la ripetizione ma si nomina la novità. Non si nomina l’essere protetti ma si nomina l’essere ex-citati. Ovvero il soggetto prende parola e si autorizza nel momento in cui si professa diviso in sé e chiamato dall’altro. Anche al rischio che l’altro rappresenta nella relazione con lui. Il rischio che l’altro mi lasci tra le braccia dell’abbandono. Che altro non sono che le braccia della morte. Ma l’uomo non è disposto a tanto. E allora nasce Amore, per Platone medietas. Stare in mezzo. E’ il moto opposto alla morte. E’ quello del “mettere al mondo”: quello della creatività, della poiesis, della poesia.

“Tutto ciò, infatti, per cui qualcosa passa dal non essere all’essere, è poesia e, quindi, ogni attività creativa (sta parlando Diotima) è poesia e tutti i creatori sono poeti. (…) E così è anche l’amore. In genere ogni desiderio di bene e di felicità è per ognuno , ma mentre quelli che cercano di realizzarlo per altre vie, come per esempio attraverso i guadagni o l’educazione fisica o la filosofia, noi non diciamo che amano né che sono amanti, gli altri, invece, quelli che seguono e preferiscono un particolare tipo d’amore, ne prendono anche il nome generico: amore, amare, amanti” (…) Infatti gli uomini altro non amano che il bene”.

L’Amore ha bisogno di un nome per stare al mondo. La passione ha bisogno di un nome per vivere. Il desiderio ha bisogno di un nome per passare dal non essere all’essere: questo nome è “Tu”. Un “Tu” tanto ottenibile quanto perdibile. Di sicuro più desiderabile in quanto perdibile. L’amore è più delicato sulla “perdibilità”: teme il non ritorno: teme l’atto definitorio: teme la crisi come soluzione, o da una parte o dall’altra.

Chiamare “per” nome l’altro del desiderio significa rivolgersi all’altro attraverso il proprio volto parlante dicendo un “ nome”. Norma. Regola. Regola tra due. Il desiderio ha regola fragile.

Nel già citato secondo “Contributo” dal titolo “Sulla tendenza universale alla devalorizzazione della vita amorosa”, del 1912, ancora Freud ha modo di scrivere: “La libido volge le spalle alla realtà, viene dominata dalla attività immaginativa ( il processo di introversione) rafforza le immagini dei primi oggetti sessuali e si fissa ad essi”. La passione è intesa come una “derealizzazione” e nello stesso tempo una “regressione” a oggetti infantili del desiderio. Se è presente il cosiddetto “principio di realtà”, ovvero la persona amata possiede virtù tali per esserlo… Freud ribadisce che “Se una donna produce un effetto capace di destare un’alta ammirazione di carattere psichico, vediamo che questa non si traduce in una eccitazione sensuale ma in un semplice affetto privo di cariche erotiche. In queste persone l’intera sfera dell’amore resta divisa nelle due direzioni rappresentate nell’arte dall’amore sacro e dall’amore profano (o animale). Quando amano non desiderano, e quando desiderano non possono amare”.

Ecco l’assioma: il desiderio non sposa “il principio di realtà”, mentre l’Amore tende a farlo proprio, proprio per difendersi dalla precarietà del desiderio. Caduco, impellente, incontrollato, il desiderio non ha padroni. L’amore sì. Noi tendiamo la mano all’altro e vorremmo essere “compresi” nella sua cavità: vorremmo essere “conosciuti” dal suo pensiero. Il “chi” di cui andiamo in cerca è il “soggetto supposto sapere” di Lacan. Quello che abbia una cavità, un posto, una nicchia per noi, e solo per noi, entro la quale avvenga la conoscenza. E solo la conoscenza tra “noi due”. Intimità. Illusione forse.

Mitchell si pone su questo una domanda interessante. La restringe al campo del rapporto sessuale. Ma essa può, anzi, deve, essere estesa all’ambito morale ed economico della relazione. “Questa differenza tra uomini e donne è alla base della domanda che ancora molti uomini fanno, nonostante la comprensione del suo impatto antierotico abbia soppresso la sua formulazione orginaria: ‘Sei venuta?’. Ognuno di noi vuole sapere dall’altro: ‘Dov’eri mentre facevamo l’amore? E’ stato meglio con me o con altri/e? Quali sono state le fantasie, le sensazioni, le risonanze inconsce?’”. Ma il sesso, assieme alla morte, è l’ esperienza più privata. Una delle esperienze in cui l’altro è alterità assoluta perché sciolto dalla padronanza. Dal nostro e anche dal suo stesso desiderio. In-conoscenza dell’esperienza dell’altro. L’esperienza sessuale può essere conosciuta solo dal di “dentro” mentre noi la realizziamo nella condizione del “fuori”. Vorremmo che le pareti della mano dell’altro ci rispondessero della sua esperienza, del suo sentire, dei riverberi, dei pensieri, dei ricordi, degli odori, della storia che avviene in quel momento. Invece l’insicurezza regna. Portata dallo stesso desiderio nella sua natura ambivalente: avere/ perdere. L’arte del sapere non è un’arte che pertiene il desiderio. Ha ragione Platone quando afferma che l’Amore è un affare da dei. Difficile dunque. Chiama e chiede virtù, che non sempre è possesso dell’uomo. La virtù è la già incontrata onestà. “…con la stessa onestà, a seguire la volontà di chi lo rende sapiente e migliore e quando il primo sia veramente capace di dare senno e virtù, e l’altro veramente desideroso di educarsi e d’acquistare, in ogni modo, sapienza, quando questo avviene (sta parlando Pausania), quando queste due direttrici convergono a un unico fine, oh, allora sì è una cosa bella che la persona amata conceda i suoi favori a chi l’ama, altrimenti niente da fare”.

Certo che si cresce dall’Amore. L’amore fa crescere, ma fa crescere la propria conoscenza di se stessi. Non fa crescere la conoscenza dell’esperienza di amore dell’altro. Il corpo dell’altro può restare misterioso. E’ il limite dell’essere “uno” di ognuno di noi. Io leggo la mano dell’altro ma ne do una mia interpretazione. Vige il cosiddetto “principio di indeterminazione”.

Scrive Mitchell: “In un certo senso, questo cambiamento del significato del conoscere va a pari passo con i cambiamenti che hanno caratterizzato la scienza stessa dai tempi di Freud ad oggi. L’implicazione centrale del ‘ principio di indeterminazione’ sviluppato dal fisico Werner Heisenberg è che non si possono accertare e descrivere contemporaneamente la velocità e la posizione di un elettrone. Determinare la sua velocità è cambiarne la posizione. Determinare la sua posizione è alterarne la velocità. Per apprendere qualcosa sul mondo esterno bisogna interagire con questo mondo, e questa interazione ha un impatto importante sulle cose che si stanno studiando, e le modifica. Questo è certamente vero per quanto riguarda la conoscenza dei sé, del proprio e di quello altrui. Quello che si scopre di un’altra persona dipende in gran parte da chi si è e da come ci si avvicina all’altro. E quello che si impara su di sé dipende molto da come uno si avvicina al proprio sé e dagli scopi che ne fa”. La conoscenza che vogliamo, quando il nostro desiderio è in moto, è “dell”’ altro. Ma l’altro ci rimanda la domanda. Ci manda a chiederci sulla conoscenza del “chi” siamo con lui, non di “chi” è lui con noi. Qui sta la precarietà del desiderio: sempre una precarietà di conoscenza. La lettura della mano dell’altro è poi alla fin fine la lettura della nostra mano che si protende. Non di quella che ci accoglie. Del desiderio non c’è restituzione. C’è un moto di andata, un andare verso il “ fuori”. Ci si perde nell’altro. Ma ci si perde per davvero. Il ritorno è possibile ma alla condizione di rinunciare alla pretesa di ridurre l’altro al nostro desiderio di perderci in lui e che lui lavori la nostra perdita. Ci aiuti a tornare. Noi invece siamo chiamati a lavorarla la perdita. Il desiderio è un continuo “lavoro del lutto”, freudianamente inteso. “L’ Esserci – scrive Heidegger in “Sein und Zeit” è sempre in qualche modo diretto verso… in cammino. Fermarsi e stare fermo sono semplicemente casi-limite di questo essere ‘in cammino’ diretti verso”.

Essere diretti anche nella accezione di potersi perdere Non a caso siamo “arrischiati”. La conoscenza dell’altro non può essere una meta. Non può essere una pacificazione né il viottolo che ci conduce fuori dal bosco.

Il tempo del desiderio non è fatto per la pienezza. Il tempo è fatto per l’”allenamento” a perderlo. Passando ci insegna a perderlo. Perdere tempo significa perdere i giorni del desiderio, perdere i giorni della vita. Ma nello stesso tempo la vita è desiderio nella sua “piena” consumazione.

Guido Savio

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