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IL PENSIERO E IL VIAGGIO (PARTE SECONDA)

IL PENSIERO PRATICO E’ L’UNICO PENSIERO CHE FA VIAGGIARE

PARTE SECONDA

Queste due parole sono tanto semplici quanto magiche. Tutti i segni che noi raccogliamo con il pensiero, per quanto diffidente che io voglia essere, mi devo anche arrendere al responso del reale. Che non è certezza, che non è soluzione, ma semplicemente segno. Indicazione per il procedere.

Grande e buona sono gli unici, meglio, i primi aggettivi che si attengono alla speranza. La speranza deve essere grande e buona. Altrimenti, se non si spera in grande, meglio neanche sperare. Ma meglio ancora. Non è la speranza grande e buona, ma è il soggetto che deve essere uno “sperante” in grande e nel bene. Sempre l’Io protagonista. Sempre il soggetto faber del proprio destino. Colombo lo dice ad ogni piè sospinto. Sperare in grande equivale a pensare in grande. La nostra natura è buona, siamo nati sani, viviamo dentro la naturalità del nostro corpo che è sana anche quando va a morire.

Ripetiamo: Colombo non pretende di giungere alla meta, ma mette nel conto di non poter raggiungere quanto si è prefisso di raggiungere. Leopardi sceglie la formula ripetuta per designare coma l’uomo non possa sapere mai abbastanza. E Colombo è l’ uomo della conoscenza moderna in quanto va a verificare le ipotesi con il sale della speranza. Verificare l’ipotesi sapendo di non saperne abbastanza. Chi teorizza a tavolino e non fa ipotesi è quello che pensa di saperne abbastanza. E non è certo questo l’uomo della scienza. Le domande che si susseguono a ritmo incalzante, nel Dialogo, sono nove e hanno la funzione di affermare che l’uomo deve coltivare in sé la relatività delle proprie conoscenze. “Ecco che noi veggiamo con gli occhi propri che l’ago in questi mari declina per non piccolo spazio verso ponente. Cosa novissima, fino adesso inaudita a tutti i navigatori”. Colombo sta dicendo che la conoscenza è relativa. Qui tutto lo scibile, guardando l’ago della bilancia, ora cambia completamente. Tale consapevolezza educa la domanda. La mancanza della sicurezza della conoscenza tira fuori la domanda, educa la domanda. “ Io per me, sebbene non ardisco più di promettermelo sicuramente, con tutto il cuore, spererei”. Colombo lascia chiaramente intendere che il senso del navigare, e dunque il senso del piacere, si trova nel viaggio.

La parola viaggio comprende la parola meta ma non la imprigiona.

I protagonisti del viaggio, della inchiesta di Ariosto, non è che vadano allo sbaraglio. Cercano qualcosa, anche se l’oggetto del loro desiderio cambia continuamente. E qui la loro speranza e il motivo del loro camminare, del loro vivere. Pensiero di viaggio implica il pensiero di fine.

Leopardi: “Ma in fine la vita deve essere viva, cioè vera vita, o la morte la supera incomparabilmente in pregio”. Questo è il grido e la speranza di Leopardi. Se noi mettessimo la nostra vita, usiamo questa immagine tanto commerciale, alle buste… peccato sarebbe perderla senza averla vissuta, senza avere speso per acquisirla e per dunque consumarla. Guai se alle buste vince la morte.

Il pensiero di destinazione è il pensiero di salute, quello di arrivare da qualche parte. Che poi la parte sia quella iniziale, nessuno lo può sapere ed è bene che nessuno lo sappia.

E così Ariosto. “Dalla lettura del Canto Primo dell’ Orlando Furioso, la immagine dell’uomo è quella della eterna ricerca: cavalieri sempre alla ricerca (…) sovente affidandosi al caso, sovente affidandosi all’oggetto del proprio desiderio. Accade tuttavia che proprio quei cavalieri siano sospinti dall’accedere degli eventi. Insomma dall’arbitrio di fortuna e virtù. Rinaldo nel bosco alla ricerca del cavallo Baiardo (…) Analoga logica è quella di Ferraù, alla ricerca dell’elmo, poi della donna e quindi ancora dell’elmo (…)” La mutevolezza dell’oggetto del desiderio mi porta a questo pensiero. Desidero, mi avvicino all’oggetto, ma alla soddisfazione ne manca sempre un pezzo, e allora io mi dirigo da un’altra parte. C’è da chiedersi se il fatto che il mio desiderio mi lasci sempre l’amaro in bocca, forse non fa sì che questo mio desiderio, facendo un viaggio circolare, torni poi in me rafforzato, più vivido, più vivifico, in una spirale la cui vita e ricchezza è data proprio dalla impossibilità di trarre la soddisfazione completa. Io torno e riprendo, torno e riprendo, torno e riprendo alla ricerca della soddisfazione. Ma attenzione, qualcuno potrebbe intendere tutto ciò come frustrazione. Per questo è importante il pensiero dell’io, il pensiero di natura, come ogni singolo individuo intende il proprio viaggio. Se io intendo il farmi fare dall’altro come evento portante della mia soddisfazione la saprò cogliere realmente. Se io saprò vivere il pensiero e l’esperienza dell’ essere desiderato e non soltanto quello del desiderare saprò ottenere soddisfazione, lasciarmi riempire dagli eventi e dall’ azione dell’altro. Io proporrei qui un pensiero nuovo, il pensiero della “attività della passività”. Essere attivi nell’ aspettare, essere attivi nell’attendere, essere attivi nel lasciare operare l’altro su di noi, attivi anche nel rimanerne senza. Sono attivo nel riconoscere che ho bisogno di essere oggetto del desiderio. Attivo nel pensiero di venire amato. Sono attivo nel lasciarmi fare nel senso di esserci per l’altro, poi l’altro fa, io non mi oppongo al rapporto in quanto l’altro è chiamato dalla mia passività. La salute della mia passività è data dal fatto che mi sottopongo all’altro, mi sottopongo al bisogno naturale di essere amato, non mi sottraggo per presunzione o per attivismo ella condizione della passività. Mi sottopongo alla necessità, mi sottopongo al destino, mi sottopongo al mondo fenomenico, mi sottopongo al dolore, mi sottopongo alla morte e in tutto ciò io vedo la attività della mia passività. Proprio in quanto non mi oppongo al rapporto, alla futuribilità del rapporto. Mi sottopongo alla necessità che l’altro faccia quello che deve fare nel senso dell’amore.

Sappiamo che per essere indipendenti bisogna sapere essere dipendenti. E’ il discorso del Padre. E’ il discorso di Dio. Io riconosco me stesso passivo in quando disponente verso il fare della natura su di me. Colombo aveva rilevato le nuvole, i rami, gli uccelli. Non ce li aveva mica messi lui. Si era sottoposto a quei dati di realtà e su quelli aveva disegnato il proprio sperare. Il proprio vivere attivo. Colombo è passivizzato dai segni. La attività della passività è una delle forme della conoscenza. Chi rifiuta l’altro che fa su di me rifiuta la propria attività in merito alla passività. La passività è la accettazione del mondo sotto il quale io vivo e vegeto. Noi non siamo mai identici e noi stessi. Noi siamo “tanti” e il divenire della vita mi chiama a sottopormi ad essa. Il mio deve essere un pensiero è quello di essere accettato da qualche parte, da qualcuno, per qualche motivo, certo per merito. Ma basta che io mi metta nella condizione che l’altro faccia su di me.

Questa attività nella passività, alla fin fine non è un pensiero ma è un “essere”. Forse non è necessario nemmeno lavoro per porci attivi nella passività. Si vede in giro gente che si lascia abbracciare e si vede chi è maggiormente predisposto ad abbracciare. Affidamento nella lettura che l’altro dà di me e che io do dell’altro nello scambio reciproco: questo avviene tra Colombo e Gutierrez. Gutierrez lascia fare perché Colombo legge i segni. Il buon imprenditore è colui, e il vangelo ce lo insegna, è colui che prima di iniziare un progetto ha letto i segni, altrimenti poi gli altri gli potranno dire: “Ma che cosa ti sei messo a fare se non conoscevi quello che andavi a fare”. E forse questa, in prima istanza, la domanda e anche la preoccupazione di Gutierrez.

Colombo non ha sposato l’America ma il viaggio (almeno nella lettura di Leopardi). Poi noi diciamo che la sua capacità di sperare lo ha portato in America. Senza la attività della passività Colombo non sarebbe nemmeno partito. Nella sua questua presso Re e regine Colombo si è fatto vedere affidabile. Poi gli altri gli hanno allestito la Nina, la Pinta e puranche la Santa Maria.

La differenza tra pretesa e domanda è marcata. Colombo è il questuante, il domandante continuo (pur provvisto di bussola e di carte nautiche); Gutierrez ha in cuore una pretesa: quello che Lacan chiama il “soggetto posto sapere”, cioè di uno che sappia quello che sta facendo, uno che abbia le idee chiare, uno che lavori per me. Il soggetto posto sapere altro non è che una illusione che noi ci creiamo in quanto non esiste nessuno che per davvero ha la conoscenza che noi gli attribuiamo, ha le soluzioni che noi auspichiamo. Tuttavia ci è economicamente vantaggioso pensare che esista. Pensare che esista una razionalità nel mondo, che i politici abbiano davvero i conti dello stato sottomano, che il maestro effettivamente sappia tutto lo scibile, che lo psicoanalista sappia di che pasta sono fatto. Sono tutte realtà in cui c’è un demandare. Forse Gutierrez demanda, ha la pretesa di demandare, ad un “soggetto posto sapere” che altri non è che il suo fidato amico Cristoforo.

La ricerca insoddisfatta è pessimismo o realismo? Certo che io di fronte alla frustrazione devo muovermi alla ricerca di un dato realistico, diverso, altro, che in qualche maniera mi soddisfi, questo insegna Ariosto nella sua “inchiesta”. Il successivo spostamento dell’oggetto del desiderio nel “Furioso”. “L’inchiesta si riduce ad un movimento circolare che non approda mai ad una meta, torna sempre su se stesso a indicare il carattere ossessivamente ripetitivo del nostro desiderio. Il movimento circolare, come fa rilevare Carne Ross, trova l’espressione in formule che spesso ritornano nell’Ariosto: ‘di qua… di là, or quinci… or quindi”. Non in una posizione di viaggio, ma di circolarità, e qui sta la frustrazione. Il soggetto che torna arricchito dalla risposta inevasa del suo desiderio è quello che sa darsi delle alternative ed esce dalla circolarità, ve avanti, fa viaggio. E’ ovviamente folle chi pronuncia di essere soddisfatto dall’essere continuamente insoddisfatto.

Per interpretare gli avvenimenti, per leggere i segni è necessario allontanarci da essi, non dipendere anche ermeneuticamente da essi. E’ dal di fuori, dalla posizione altra che si ha conoscenza. L’allontanamento dall’evento è il modo della conoscenza dell’evento stesso, Colombo riesce relativamente ad allontanarsi, Gutierrez molto meno. La domanda nei confronti dell’altro supposto sapere è rischiosa. La domanda al Padre è meno rischiosa in quanto il padre, anche quando risponde di no, dà una indicazione della alternativa. In questo senso è accettabile l’errore. L’errore è un errare, un viaggio che se vedo che non mi va bene da una parte… provo da un’altra. L’errore è evitabile purchè io ne abbia pensiero, altrimenti l’errore diventa inevitabile. Allora l’errore diventa una forma di ira verso se stessi.

Ma se io accetto che l’errore viene dalla relazione, ed è l’altro, sempre, che mi sancisce l’errore, allora io mi pongo nella posizione dell’errante, la posizione della attività della passività: qualcuno mi fa andare da qualche altra parte.

L’attività della passività è poi il lasciarsi correggere dall’altro. Sentire uno che da qualche parte pronuncia un giudizio, sanzione una correzione su di me, sul mio comportamento, sul mio essere, ed io abbraccio senza riserve tale giudizio, lo faccio mio e ne faccio conseguire quello che ritengo giusto che ne consegua. Magari non proprio quello che l’altro correttore propone, non alla lettera, ma nella sostanza. E’ questo il campo del rapporto Figlio /Padre, che è poi il prototipo di tutti i rapporti. E’ lo stampo dal quale discende la nostra capacità di relazionarsi con il Mondo e con l’Altro. Per questo è fondamentale stare al posto del figlio: di quello che sbaglia ma viene corretto. L’altro viene ad incontrarci, e ancora qui la attività della passività, richiamato dalla nostra mancanza, dalla nostra debolezza, non dalla nostra pienezza. La pienezza respinge. Il rapporto Padre/Figlio è proprio il rapporto “a partire” dall’errore. Errore è rapporto.

Guido Savio

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