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IL PENSIERO E IL VIAGGIO (PARTE PRIMA)

IL PENSIERO PRATICO E’ L’UNICO PENSIERO CHE FA VIAGGIARE

(Il disegno del desiderio)

PARTE PRIMA

Vorrei partire da alcuni Frammenti di Novalis che hanno per tema il pensiero. “ (244) Certamente il pensare – scrive Novalis – è, come il fiore, null’altro che la più fine evoluzione delle forze plastiche e l’universale forza di natura nella ennesima ‘dignità’. (246) Pensare in senso comune è pensare il pensiero, il confrontare i pensieri specificamente diversi. ( 249) Pensare è parlare. Parlare e agire o fare sono una unica operazione”. Infatti il bambino mette assieme tutte queste operazioni in un agire, in un essere per il fare.

Quello che mi sembra degno di nota in Novalis è che il pensare è sempre un pensare ad un pensiero. Il che non vuol dire il gatto che si morde la coda, ma significa la fattività (almeno nella salute) del pensiero che in ogni caso si presenta operativo. Noi abbiamo la possibilità, pensando al pensiero, di pensare ad uno strumento.

Pensare è fare è la pratica del verbo, la pratica della parola. In questo senso il viaggiare: parlare ed agire sono una unica operazione intendendo che la parola è il viaggio stesso, i piedi, la strada, la polvere, la materia in quanto parlare è sempre parlare ad un altro, come viaggiare è sempre viaggiare verso un altro. Fare e pensare hanno senso solo all’interno della relazione. Fuori non hanno senso. Quello che è bello è come prosegue Novalis il suo percorso: “(253) Le norme del nostro pensare, sentire, etc, sono lo schema sia del carattere dell’umanità in genere sia, sia della nostra umanità individuale. Contemplando noi stessi ci sentiamo costretti in un modo più o meno chiaramente determinato, a disegnarci, a pensarci così e non altrimenti”.

Il disegnarci, l’azione che noi compiamo sulla nostra pelle e sul nostro futuro, tuttavia non è il disegno di una mappa prestabilita (la natura del mondo non ce lo consentirebbe), ma una serie si segni che noi tracciamo, uno dopo l’altro, e uno di conseguenza dell’altro, a stretto contatto tra di loro. Un passo dopo l’altro in considerazione da un lato della precarietà della strada e dall’altro della forza che ci attrae al cammino. Il disegno è un segno. Una divisione che sancisce e separa il nostro essere da quello dell’altro e che, compiendo tale separazione, ci garantisce la unione. Uniti da separati: questa le tracce del nostro viaggio.

Noi come gli animali “segniamo” il nostro territorio, ne segniamo la legalità proprio perché l’altro sappia, avverta il nostro limite e ci appoggi il proprio. La garanzia del rapporto è la garanzia dei segni, del nostro disegnare il territorio. Ma noi non possiamo disegnarci una volta per tutta la vita, non possiamo presentare all’altro la nostra mappa e spiegarla sopra al tavole come quella delle Piccole Dolomiti, fissa e immutabile. Il nostro disegnarci è suscettibile del tempo. Del tempo delle relazioni, In questo senso la nostra storia è la storia del tracciare e del farci tracciare.

“Dialogo di Cristoforo Colombo e Gutierrez”, dalle Operette Morali di Giacomo Leopardi. La notte è serena e buia, il mare è infinito e il silenzio induce alla parola. Il movimento è dato dal richiamo della assenza. Il vuoto del silenzio chiama alla parola. La mancanza chiama al movimento. Sul ponte della nave Colombo e Gutierrez, due uomini che hanno il viaggiare come comune denominatore, ma anche l’amicizia come reciproca attrazione. I due pongono una questione fondamentale: Colombo sta guardando la “speranza” di arrivare ad una meta. Il suo viaggiò è sì diretto verso una meta ma è altrettanto sostenuto dalla speranza. Gutierrez ha più i piedi per terra, sembrerebbe un uomo di terra rispetto a Colombo, e vuole sapere, vuole sapere la mappa, la verificabilità del tragitto, non si accontenta della speranza.. Gutierrez chiede conto a Colombo del fatto che ha ai suoi comandi tre navi con relativi marinai, che, anche se non tutti padri di famiglia, hanno pure il diritto di tornare alle loro case o anche alle loro taverne spagnole. Gutierrez si rivolge a Colombo per chiedergli se dopo tanto navigare si sia insinuato in lui qualche dubbio sul successo degli sforzi. Colombo, in modo assai franco confessa di “ essere entrato un poco in forse e che parecchi segni da cui aveva avuto speranza grande, gli erano riusciti vani”. I segni (uccelli, pezzi di legno, rami, fiori, etc.) che prima aveva veduto e che gli avevano dato speranza e che gli avevano indicato la vicinanza della terra, ora, con il passare del tempo, non lo sorreggevano più di tanto. I segni, che lo avevano autorizzato a fare certi disegni, ora non lo sostenevano nella speranza. Colombo dubita. Gutierrez alla risposta di Colombo, si inquieta: “Di modo che tu, in sostanza, hai posto la tua vita e quella dei tuoi compagni in sul fondamento di una semplice opinione speculativa?”. Gutierrez accusa, Correttamente. Da amico ma accusa. Lo accusa di voler fare l’Ulisse.

Sta di fatto che appare chiaro che il viaggio di Colombo non è un viaggio fatto con la carta nautica in mano. La sua risposta è bellissima e naturalissima. “Quando altro frutto non ci vegna da questa navigazione, a me pare che ella sia profittevolissima in quanto che per il tempo essa ci tiene: liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione”.

La noia. Assenza del desiderio, impotenza del desiderio. Qui, afferma Colombo, se non altro non ci annoiamo, cioè facciamo vivere alla grande, se vogliamo e se abbiamo coraggio, il nostro stesso desiderio. Il desiderio non è conquistare l’oggetto ma… disegnarlo dentro di noi.

La vita cara. Discorso semplicissimo: solo nel momento in cui si è in procinto di perderla la vita essa ci appare tanto cara. Cara nel prezzo, cara nella stima, cara nel calore che da essa emana quando il filo si fa sottile. Noi, uomini e donne, non siamo autorizzati a sottovalutare quello che abbiamo, il cui valore conosciamo fino in fondo solo in prossimità della perdita. Allora è meglio e più intelligente considerarlo e conoscerlo prima, prima che si può.

Ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione. Ci fa piacevole il pulito del ponte della nave, la sfumatura di rosa di quella nuvole, il sorriso del nostromo, l’onda che sbatte sulla ciglia e sparge le gocce al vento. Il particolare. Il graffito viene enfatizzato. Si vive di piccole cose. Ma non solo quando si è costretti. E qui prestiamo attenzione alla questione economica (“ci fa cara la vita”) in quanto il Dialogo della Operetta morale si conclude sul prezzo della vita.

Gutierrez tuttavia dimostra, da uomo di terra, di accettare il viaggio per mare ad una condizione: la sicurezza di giungere alla meta. Lo potremmo definire Gutierrez come l’uomo moderno con le sue sane paure. L’uomo moderno salubremente impaurito. Ma nessuno gli chiede di più. Tuttavia nessuno gli stringe la mano facendo patto di garanzia con lui che là si giunge, alla meta. Nessun uomo onesto lo può fare, e tantomeno l’amico Colombo. Ma attenzione: Gutierrez non vuole l’America, ma semplicemente che si tocchi terra. Della personalità di Gutierrez suggerisce una bellissima interpretazione Walter Binni che tratteggia in questo modo lo tratteggia: “ A Gutierrez importano i risultati concreti, il terreno stabile, o sfuggire ai pericoli della navigazione, i quali pericoli sono per Colombo i motivi del viaggio. Gutierrez è l’uomo della terra ferma”. Certo Gutierrez è l’homo oeconomicus. Tuttavia noi sappiamo anche che l’ homo oeconomicus è quello della speranza. Fa affari solo nella speranza, anche nel rischio, nella consumazione, anche nella consumazione delle certezze (se mai esistono). Io vedrei nel cortigiano spagnolo l’homo oeconomicus non ancora maturo (sfruttando il discorso sull’”egoismo maturo” di Pietro Barcellona. Non ancora maturo in quanto in quanto gli manca il pensiero di poter perdere tutto. L’economia conosce il proprio progresso all’interno di questo pensiero: che la perdita (parziale o totale) è possibile. Solo mettendo nel beneficio dell’ inventario la perdita è possibile fare economia. E’ possibile fare accadere. E’ possibile avere successo. Se l’uomo cerca la garanzia, economicamente non si muove. L’uomo fa solo se pensa che può perdere tutto. Colombo no. Continuo Binni: “Colombo no, Colombo, dimostrando in questo la disponibilità e il coraggio di pochi, non pretende di giungere alla meta, ma spera, mette in conto la possibilità di non ottenere quello che desidera” (E si vedrà più oltre la “inchiesta in Ariosto”)”.

Colombo è uno che interpreta questa speranza come il nocciolo della nostra naturalità. Quando Giacomo Contri parla del “ Pensiero di Natura”, ovvero della naturalità insita nel nostro inconscio, cioè nel nostro nocciolo, dice questo, dice della speranza che è libertà dalla stessa meta e amore per il percorso, per il moto. La nostra guida naturale è un dato che trascende la nostra razionalità, e qui incontra la speranza. La speranza è il supporto della stessa economia in quanto richiamo e vocazione continua. A fare il nostro successo noi siamo chiamati dalla insicurezza nel fenomeno ma nella fede in noi stessi: per questo saper perdere è la speranza e la speranza è economica.

Ma la speranza di Colombo non è la cecità. Continua Binni: “La sua speranza gli viene dalla osservazione di ciò che accade”. Colombo non è un folle, un fosse in Cristo. Ha anche lui i suoi bei piedi piantati per terra. Forse li ha piantati sul ponte della nave, che è un tantino meno sicuro della terra, ma non è un l’Idiota del Principe Minsk, non è il soggetto che si butta a peso morto sugli eventi, sulle onde nella cecità che esse lo sorreggano. Colombo sa le carte, Colombo sa del sestante e delle rotte. Colombo non è il soggetto del “ci penserà qualcuno. Colombo non è il soggetto del “domani è un altro giorno”. Lo Jurodivnij è lo “stolto in Cristo” di Dostoevskij dell’Idiota, o Alesa dei Fratelli Karamazov. Gente che si butta a peso morto nel viaggio. La speranza sì che mi porta, ma se io mi faccio portare, se io non oppongo resistenza. “Aiutati che il ciel ti aiuta”. Io faccio la parte del nocchiere nel farmi portare dalla speranza. Colombo è l’uomo della speranza come osservatore di ciò che accade. I legni, i gabbiani, la frasche sono la sua speranza, non un puro pensiero astratto: questa è l’economia del viaggiatore. Colombo viaggio su ipotesi, sui disegni. Disegna se stesso sulle proprie ipotesi, cioè su ciò che vede, pronto a rimangiarsi la rotta se i segni cambiano. Questa è l’economia del viaggio al quale siamo chiamati: rilanciarne continuamente le ipotesi. Nulle di più pernicioso che la fissazione alle ipotesi di partenza e la cecità nel non vdere le evoluzioni, il nuovo, le trasformazioni, le nuove chiamate. E quante ce ne sono nel nostro viaggio.

Questa non è la predestinazione. Il desiderio è soddisfacibile nel momento in cui io ad esso mi adatto. Nel momento in cui io so ridisegnarmi in riferimento alla nuovo ipotesi. E la nuova ipotesi me la porta sempre l’altro, non il mio pensiero o la sua ripetitività. Questo ci insegna Colombo. La soddisfacibilità del desiderio fuori della predestinazione. Colombo è un disegnatore di mappe fuori ma sempre dentro i fenomeni e gli eventi che gli stanno attorno. Ma Colombo lascia anche la “ terrestrità” di Gutierrez. Non lo accusa di nulla, non lo accusa di pragmatismo. Colombo sa che non necessariamente quello che adesso mi lancia in avanti mi lancerà in avanti anche la prossima volta. La sua solidità, quasi per assurdo, è la sua stessa speranza, in continuo divenire. E l’ultima frase di Colombo sta proprio su questo regime.

I segni, i segni del disegno di Colombo sono gli stessi dei Pensieri di Novalis perché sono il disegno “sullo scandaglio che tocca il fondo, il colore e la forma delle nuvole mute, nella dolcezza dell’aria, nel tepore di un vento meno costante, nell ’acqua una canna o un piccolo ramo in cui le coccole rosse e fresche sono ben di più che una semplice presenza colorata nell ’acqua azzurra”.

E poi la speranza è fatta solo di segni, di pezzettini, di graffiti. Non è fatto di discorsi o di sostanza ma solo di indizi e di interpretazioni. “Insomma, tutti questi segni raccolti assieme, per molto che io voglia essere diffidente, mi tengono in aspettativa grande e buona”.

Guido Savio

(continua)

 

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