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” E IL GALLO CANTO’ ” (SULLA DEBOLEZZA) PARTE TERZA

SULLA DEBOLEZZA

PARTE TERZA

La visione d’assieme non è il mettere insieme le parti ma fare un salto sopra all’oggettivo per meglio vederlo, per meglio interpretarlo, e parlando di relazione, per meglio viverla.

Scrive Fiorentini: “E’ possibile un punto supremo da cui vedere tutta la realtà? Chi può dire come sono andare veramente le cose?”

Ma io dico che non esistono le “cose” bensì le “interpretazioni”.

Certo che l’elefante esiste, ma io non posso prendere la mia carezza sulla sua pelle come dato veritiero sulla realtà dell’ elefante stesso. Questo discorso, apparentemente affascinante, può risultare anche pericoloso: il vecchio idealismo hegeliano. Di questo passo noi possiamo mettere in discussione tutto, specie a livello della relazione, i valori della relazione. Si corre il rischio di omologare.

Dire, come potrebbero fare questi Pigmei: “Io la vedo così”, potrebbero altrettanto dire: “Io la vedo così”.

“Io mi vedo così” è la frase della salvezza della relazione, perché non assolutizza la mia verità che metto a disposizione dell’altro nella relazione.

Poi io posso vivere nella relazione la mia passione, il credere nelle mie cose, la forza e il coraggio delle mie idee, tuttavia non posso usare la verità come un ostacolo alla relazione con l’altro.

Scrive ancora Fiorentini: “Quello debole è ancora l’unico pensiero accettabile perché è l’unico che…… dichiara relativa e irrilevante ogni conoscenza della verità”.

4 – Ancora debolezza

Quello che di verità viene fuori è quello che sentiamo nel corpo. Quello che viene fuori da noi nella nostra natura: Quello che “si consuma”. Lo scambio con l’altro è il mettere la debolezza (della nostra verità) in comunione con l’altro. E’ chiaro che noi abbiamo bisogno di paletti. Ma mi chiedo se poi il parzializzare le nostre conoscenze Sia una modalità perversa per non avere relazioni con gli altri.

Chi si mantiene sopra come l’olio di solito corre il rischio di commettere peccato di superbia.

Mettere in mezzo qualcosa di terzo, di esterno, o peggio, di estraneo alla relazione, per esempio il rispetto o la tolleranza, cioè agenzie morali o legali che non pertengono la relazione significa mettere in mezzo tra me e l’altro una obiezione, un ostacolo. La famosa frase “Lo faccio per rispetto” sta ad indicare che se non fosse per questa… parola, io per te non farei un bel niente. Allora lo faccio perché sento un bisogno, una necessità, una sudditanza esterna che mi fa muovere, altrimenti non mi muoverei. Ma questo non basta nella relazione, anzi, la manda in malora, proprio perché la relazione chiede una sua “legge interna”, pattuita tra i due che la vivono.

Io posso anche vivere con attrito la relazione, purchè sempre abbia il pensiero di un IO e un TU che vivono una certa comunione dei corpi.

Mettere in mezzo una istanza terza nella relazione spesso significa pervertire la relazione stessa. Il TU della relazione è uno che incontro, non che programmo.

Tornando a Fiorentini: “ L’esperienza non ri-costruita ma incontrata”. L’altro è incontrabile nel momento in cui io non mi pongo la domanda… dove incontrarlo.

Lo studente di Cecov è riuscito a incontrare Pietro proprio ha incontrato l’altro proprio in queste cose. Io non ho colto nel racconto una “tolleranza” nel senso di “vogliamoci tutti bene, va bene tutto”, o cose del genere. Bensì un incontro sincero con la debolezza umana.

Io amo Fabrizio de Andrè. Eppure qui mi sento di dire che non ho colto in Cecov una tolleranza alla De Andrè, dove quasi non c’è giudizio, non c’è un prendere parte o partito, dove tutti sono perdonati. Se noi non esprimiamo un giudizio sull’altro significa che non lo amiamo abbastanza. Lo stimiamo troppo debole per sopportarlo.

Lo studente di Cecov dice che quel poco di verità che unisce tutti gli uomini viene fuori dal “rapporto”, ovvero dalla “ catena” che lui ha saputo cogliere nella debolezza che tiene uniti tutti gli uomini, nello spazio e nel tempo della storia. Per questo è proprio la debolezza la condizione del rapporto. Ci si incontra nelle rispettive debolezze. Se c’è lo spartire la debolezza c’è rapporto. Tra “tutto pieno” non esiste rapporto.

Anche se resta aperta la questione della “misura” nella debolezza. Intendendo che l’eccesso della debolezza spesso si traduce in una sua strumentalizzazione. E quando parliamo di strumentalizzazione parliamo di perversione.

Uso perverso della debolezza. In quanto qualcuno può fare un uso egoistico della propria stessa debolezza, nel momento in cui la pone come “pretesa” all’interno della relazione: Del tipo: “visto che io sono debole… allora tu devi…”.

Dalla Imitazione di Cristo. Commento al Salmo 31 che recita: “Confesserò contro di me il mio peccato”.

La frase non è perversa in quanto può richiamare una non ben distinta punizione, o cilicio, o fustigazione, o cenere sul capo, ma perché è una frase con una profonda finalità che “va fuori” dalla naturale relazione con l’altro. Non è possibile rivolgere un proprio peccato contro di sé. Semmai io parto dal mio peccato per arrivare da qualche parte, magari alla “redenzione”. Ma non certo per fare peggio… sarei un masochista… oppure un bugiardo. Uso la mia debolezza, il mio peccato, attraverso la bugia, come strumento per offendere qualcuno.

“La mia debolezza – si legge ancora – mi appare in modo chiaro dal fatto che proprio i pensieri che dovrei avere in orrore sono molto più facili a piombare su di me che andarsene” (dalla Imitazione di Cristo)

Chi dice di non essere capace, chi si mette in un angolo, chi sfrutta la propria mancanza per non avere relazione franca e sincera con l’altro, costui usa in modo perverso la propria debolezza. Altro piccolo esempio di uso perverso della debolezza. Montaigne, Saggi, II, cap. XII: “La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più disgraziata e la più fragile di tutte le creature è l’uomo e, tuttavia, la più orgogliosa. Si sente e si vede alloggiata qui, tra la melma e lo sterco del mondo, attaccata ed inchiodata alla peggiore, alla più morta e corrotta parte dell’Universo, all’ultimo piano della casa, ma al più lontano dalla volta celeste, con gli animali della peggior condizione, tuttavia s’immagina di poris al di sopra della sfera lunare e di poter mettere il cielo sotto i propri piedi”. A parte la truculenza similmasochista di questo passo, io non posso considerarmi “lo sterco del mondo”. Non posso impunemente nominarmi “vittima, imbrattatore, untore, o peggio”. Non posso pasolinianamente usare la mia diversità. Se mi considero lo sterco del mondo significa che sto lanciando sterco contro tutto il mondo. Peccato mortale è la strumentalizzazione della propria debolezza. Strumentalizzazione significa quel “fuori misura” che mi tiene lontano dal lavoro di correzione e di redenzione.

5 – Tolleranza e intolleranza

Allora potremmo qui parlare di intolleranza? Di intolleranza verso una propria debolezza che non ha bisogno di essere martorizzata ma semplicemente corretta?

Tollerare vuol dire “portare”. Ma portare che cosa? Ma è chiaro: la sincera debolezza propria e dell’altro, non quella falsa ed esibita.

E che cosa non tollero nell’altro? Lo sappiamo: il male che in parte è mio e che vedo amplificato in massima misura nell’ altro. Non tollero quello che io stesso sono.

E qui ancora la “catena” di Cecov. Io sono legato alla catena che unisce i peccati di tutti gli uomini.

“Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Se non sono tollerante verso l’altro significa che non tollero me stesso.

Non tollero il “cattivo” che è in me e che io vedo negli altri. La catena. Che cosa lega Pietro a Vasilisa? Eccolo, questa cosa qua. Io potrei chiedere: “Con la debolezza di chi per primo io devo fare i conti?” Per iniziare il viaggio, di chi devo accettare la debolezza? Del solito, proprio devo accettare la debolezza del Padre.

La lettera al Padre di Kafka è un esempio di non perdono della debolezza.

Cam non accetta la debolezza del padre Noè ubriaco. E così facendo non accetta la propria debolezza e si preclude la via al piacere. Cam si è precluso una eredità in quanto il padre giovane, il padre che sbaglia, il padre ubriaco, diviene un figlio egli stesso, al quale noi tutti siamo uguali.

L’uguaglianza deriva e discende dal Padre. Questa è la nostra vera eredità.

Guido Savio

(continua)

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