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L’IO SALTA FUORI DAL TU (PARTE SECONDA)

AMORE GARANTITO E AMORE MERITATO (PARTE SECONDA)

Domanda significa atto di conoscenza per cui io ho il pensiero di avere sufficienti capacità di supportare la risposta no. Quello che al bambino nella coppia madre-bambino dell’amore garantito è pregiudicato. Se un amore che preclude la differenza sessuale e dunque esclude la domanda lo abbiamo definito “amore garantito”, un amore in cui la domanda sia la distinzione e anche il desiderio tra Io e Tu lo possiamo senza dubbio definire “amore meritato”. Nel volersi trovare esclusivamente contenuti dal simile (il bambino nel pensiero illusorio verso la madre) viene escluso il sesso come legge della differenza. Sesso significa tagliare, dividere, scernere. Tutti verbi che noi possiamo annoverare nel registro della identità, dell’individuum che si è staccato da un continuum la cui caratteristica ontologica era per l’appunto la indistinzione. Indistinzione è morte. Meglio, indistinzione è non essere nemmeno nati.

Allora il vostro essere Voi che fa del mio essere l’essere Io è determinato dal sesso. Se non ci fosse sesso non sarebbe possibile il mio essere Io e il vostro essere Voi. Tra di noi c’è sesso, differenza sessuale, nel senso che non c’è niente di garantito tra di noi esseri della differenza sessuale. E la testimonianza che non c’è nulla di garantito è proprio la domanda che ci è necessaria per chiamare l’altro, il desiderio dell’altro e per esprimere il proprio. Ognuno ha quello che si merita (in questo senso amore meritato) proprio in quanto è distinto dall’altro.

Ma una domanda viene spontanea: come faccio a meritarmi l’amore? E la risposta è lapidaria: domandando. Basta che ci guardiamo un po’ dentro per capire in quante occasioni noi non abbianmo ottenuto amore proprio perché non lo abbiamo domandato, essendo la domanda la inibizione a dimostrare la proprio mancanza. Il proprio mancare nei confronti dell’altro che pure desidero. Tacere la domanda è tacere il sesso. Tacere la domanda è non riconoscere la differenza sessuale e aspirare ancora alla retrocessione dell’amore garantito, in cui non c’è bisogno di domandare. Sesso è chiedere all’altro un favore, fargli una telefonata, aprirgli la porta che esca prima lui (o lei, meglio!), mettersi secondo. Questo è sesso. Uscire dall’ altro. Sesso è allora l’Io che “salta fuori” dal Tu. Il bambino che esce dalla madre, dalla sua logica dell’amore garantito. Sesso è il pensiero che sono una parte del mondo, diverso e nello stesso tempo simile agli altri. Sesso è il pensiero che siamo tutti figli (in quanto domandanti) e che c’è un unico Padre a cui domandare. Io vengo fuori da una realtà precedente a me ma che diviene vivibile nella relazione proprio perché c’è sesso. E’ questa la divisione prolifica che mi permetterà poi di fare in quanto la madre e il bambino non fanno l’amore non tanto perché non ne esista la possibilità anatomica ma perché non esiste il presupposto legale: ovvero la divisione del desiderio, la capacità della domanda in quanto esiste la possibilità del “no”. Nell’amore garantito non c’è lavoro, non c’è sudore, e dunque non c’è nemmeno la soddisfazione. La soddisfazione che è inibita in tutte le forme di dipendenza, essendo l’amore garantito una delle forme più praticate di dipendenza. Forme di dipendenza che, a spanne, possono essere racchiude nella formula: “Tu mi devi”, vivendomi io in una condizione di falso diritto e di sedicente mancanza. Il tuo dovere è quello di riempire la mia mancanza ancora prima che io te ne rivolga la domanda. Garantito vuol dire non faccio neppure la domanda.

Molte persone pretendono nel rapporto Io/Tu che l’altro anticipi addirittura il proprio pensiero: “Tu devi capire ancora prima che io te lo dica quello che è il mio desiderio”. Che in una formulazione del genere diviene automaticamente bisogno, dipendenza. Logica e pratica mortale in quanto in questo tipo di pretesa non esiste sesso, non esiste un fare per l’altro, non esiste un moto del desiderio ma staticità perversa. Ma nel momento in cui il bambino apre la bocca anche per chiedere “ Mamma, aiutami a mangiare”, oppure “Mamma, posso…”, ecco, quello è sesso, capire che là da dove sono “saltato fuori” mi devo dividere, tagliare, secare, se voglio vivere, altrimenti muoio.

Certo che il punto di passaggio dall’amore garantito all’amore meritato è la formulazione della domanda. Ma io aggiungerei qualche cosa in più. Quando Io nutro amore per un altro, come faccio a meritarmi il suo di amore? Io aggiungerei questo: per meritarmi l’amore io devo dare all’altro la mia storia. Quando metto nella mano dell’altro la mia storia. Non i pensieri, o le mie teorie, o la mia cultura… no, queste sono sovrastrutture. All’altro metto nelle mani la mia storia. La quale storia non è il mio Io, ma è ciò che è avvenuto finora nel mio tempo dal rapporto tra il mio Io e tutti i Tu che ho incontrato. La mia storia va oltre me, mi trascende proprio perché è frutto di relazioni, proprio perché è frutto del mio essere-nel-mondo. La mia storia non sono Io ma sono ciò che sono “accaduto”. La storia è il divenire e l’accadere che è stato su di me dall’avere parlato, mangiato, vissuto, amato gli altri. Ancora una volta la storia mia è una alterità. Il concetto di storia è il concetto della relazione Io/Tu. La storia di tutti noi è il tempo della relazione tra Io/Tu, dal quale io provengo. Della mia storia Io non sono stato padrone assoluto. La mia storia è avvenuta perché io ho tenuto relazione mettendo il sesso come legge delle relazioni stesse. La storia è distacco. Io direi che anche la parola svezzamento significa sesso. Il momento in cui la divisione è prolifica avviene per me quando scopro l’”alter”, cioè il frutto di quella che è la prima differenza: quella sessuale.

Ma perché io mi merito l’amore dell’altro mettendogli nelle sue mani la mia storia? Di che cosa è fatta la nostra storia? E’ fatta delle mie vittorie? E’ fatta dei miei successi? E’ fatta dalle mie medaglie? E’ fatta dalla mia potenza? Certo, anche di questi eventi. Ma soprattutto la mia storia, quella che, se passa diviene amore, è la storia della mie debolezze, è la storia delle mie mancanze, è la storia dei miei rossori, è la storia della mie paure, è la storia del “Così sei tu”. Del quale “Così” io non sono solo l’attore conducente ma anche e soprattutto l’attore condotto. Alla donna che amo metto in mano la mia fragilità, altrimenti non c’è storia. Lei non verrà mai attratta solo dal mio essere pieno, ma sarà soprattutto attratta dal mio essere vuoto. Vuoto per il quale io a lei volgo la domanda di essere riempito. Questo è sesso. La mia mancanza avviene proprio quando formulo il pensiero che Io/Tu sono divisi. Riconoscere il sesso significa esclusivamente il riconoscimento che mi manca quello dell’altro. Basta. Tutto qui. Questo il messaggio della Irigaray: il mondo è fatto di uomini e di donne e nulla più.

La mia storia che dono all’altro come pegno d’amore e sanzione della accettazione della differenza sessuale è quella dei miei capitomboli, quella delle ginocchia sbucciate, quella degli scivoloni. La storia della mia debolezza che nel momento in cui te la dico (quindi faccio sesso) diventa la tua storia. Non mi nascondo. La mia verità storica non è quella che penso (il pensiero su di me) ma gli atti che la hanno caratterizzata e che dico all’altro. Non mi nascondo. “Allora si aprirono gli occhi di ambedue e conobbero di essere nudi”. Io non riconosco la mia nudità se prima non la metto nelle mani di un altro, se prima non sono visto dall’altro. Abbiamo visto che a partire da Adamo ed Eva la storia dell’uomo è stata questa qui.

E la storia è quella della mia capacità di “esercitare” il mio sesso, ovvero amare la diversità dell’altro, per cui Giovanni della Croce viene a dire: “Nel momento del giudizio verremo giudicati nell’amore”. E in che cosa se non nell’amore? In che cosa se non nel dividermi dall’altro per poterlo amare attraverso il dono della mia mancanza? Il pensiero stesso di Dio è un pensiero di uscire dal Tu. Dio non è dio in quanto Dio ma in quanto è Padre. Ovvero è il primo Tu.

Donando all’altro la mia storia dono la mia nudità. Come avviene per l’opera d’arte che per essere tale non basta a se stessa ma ha bisogno di un estimatore. Ecco, il Tu è il nostro estimatore dal quale siamo usciti per procedere nella strada del merito. Mi merito di essere uscito, come il giudizio del fruitore dell’opera d’arte, in quanto ho pensiero di non bastare a me stesso. I quadri appesi alla parete non sono nulla se qualcuno non gli si piazza davanti e pronuncia un giudizio. Il quadro dà la propria storia all’altro mettendogli nelle mani un giudizio di accettazione o di rifiuto. Si o no. La domanda. Così noi siamo meritevoli del giudizio dell’altro in quanto non bastanti a noi stessi ma completabili dall’altro. Come il quadro è completabile dal pubblico e dalla critica.

Tuttavia non è che io dio all’altro la mia storia all’insegna della passività: io amo il mio io e dunque all’altro offro la mia storia compresa nel mio volere me stesso. Come se dicessi all’altro: “Ecco la mia storia per te… però trattiamo”. In questo senso l’amore è compromesso. Perdono. Perdono il padre, perdono il destino e solo in questo modo, perdonando, io mi amo.

E questa è anche la cura. Io ti do la mia storia in quanto tu, con parole diverse me la rimandi con parole diverse, con segni diversi, in modo diverso. Quando parlo con te e ascolto le tue parole sulla mia storia, tu mi cambi la vita. Qui sta la cura: dire all’altro la propria storia con parole diverse che il soggetto non conosceva. E la sua non conoscenza lo manteneva nella sofferenza. La cura è usare parole diverse da quelle che il soggetto ha usato nel raccontare la propria storia. E le parole allora diventano magiche in quanto rimandano al mittente gli stessi contenuti, gli stessi atti ma cambiati nel senso. E’ il senso che fa stare bene o male, non l’oggettività del reale. E’ il senso che noi diamo alla nostra storia che ce la fa digerire o essere indigesta. Le parole dell’altro sulla nostra storia possono sollevarci dal dolore e dalla sofferenza. Se noi sappiamo e vogliamo ascoltare.

L’amore è la riedizione di ciò che è già. L’amore è una cura in quanto qualcuno ha parole diverse dalle nostre e noi riviviamo la nostra storia attraverso le parole dell’altro. Così come funziona il mito, così funziona l’amore. Senza dire che l’amore sia mito. Tutt’altro. Questo è sesso in quanto la diversità delle parole dell’altro sulla mia stessa storia cambia, cambia la mia stessa storia. Lo si vede quando siamo in ansia o in apprensione. Confessiamo la nostra pena all’amico o alla persona amata e basta una parola (a volte) perché il nostro modo di leggere la nostra pena sia cambiato proprio dalla diversità della parola dell’altro. Questo è sesso. Questa è cura. Non ci si salva da soli, ci si salva con l’altro: è una regola tanto chiara quanto disattesa.

In questo senso l’amore fa crescere. A partire dal fatto sacrale che ci deve essere sesso tra Io e Tu. A porre la questione del sesso è il Padre. Il pensiero di Padre che è pensiero tanto di alterità quanto di differenza. Ma soprattutto il pensiero di padre è un pensiero di domanda. Il Padre è per definizione Colui al quale domando. Per definizione è Colui che non mi dà per scontato nulla, proprio perché mi ama e desidera dignitosa la mia storia. Dio è Colui a cui si fa la domanda. Sesso vuol dire fare domanda. Dio è colui che ha a cuore che Io cresca.

Remo Bodei nel suo “Geometria delle passioni” scrive: “L’amore non richiede di sotterrare i propri talenti o di procedere a un puro scambio di equivalenti “. In amore è pura follia pretendere che i conti tornino, tanto dare e tanto avere. In amore c’è chi più dà e chi più riceve. La cosa funziona se ciò avviene nella reciprocità. “(…) L’amore desidera invece che i talenti si moltiplichino, che lo scambio cresca su se stesso producendo possibilmente ricchezza e vantaggio reciproco. Esso è supererogatorio, anche in senso etimologico. Supererogatorio significa infatti pagare qualcosa più del dovuto: è diverso quindi dal semplice ‘redimere’ in quanto ‘ricomprare’”. In un certo senso io ricompro la tua storia. Io con te sono disposto a riscattare della mia storia quello che da solo non sono stato capace. Potremmo anche intendere la parola “redenzione” come una riconsegna, certo sempre nelle mani dell’altro. Nella redenzione io tiro fuori tanto me quanto l’altro, mentre quando non perdono trascino te nel mio stesso inferno. Questo lo si vede nel rapporto padre/figlio: quanto il figlio vive il rapporto con il padre come giusta conflittualità, concorrenza, avversione (il padre avversario, il padre da oltrepassare), ha buone probabilità di arricchirsi dal padre stesso. Ma se il figlio vive il padre come un nemico, un soggetto su cui si è fissato e per questo da eliminare, di sicuro si impoverirà fino alla malattia. Avversario significa… ci possiamo ragionare. Nemico significa che è bandita la ratio e instaurata solo la ubris.

Guido Savio

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