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L’IO SALTA FUORI DAL TU (PARTE PRIMA)

E’ DIFFICILE CHE IL SOGGETTO SI PENSI SE NON PROVENIENTE DA ALTRO. (PARTE PRIMA)

L’IO “SALTA FUORI” DAL TU

(Nasciamo, tutti, dalla Relazione)

Asserzione assiomatica: l’Io “salta fuori” dal Tu. Se l’Io è un secondo tempo, un secondo atto, il primo tempo, il primo atto è il Tu. Tanto quanto il primo atto è la madre e il secondo atto è il bambino. L’Io che salta fuori dal Tu.

Questa domanda, che ha la presunzione di essere un pochino poetica, la possiamo intendere come la domanda che spiana la strada alla salute (anche se a questa domanda non dovesse esserci risposta): “Chi sarei ora io senza voi?”. Se la risposta dovesse essere (come io ritengo che debba essere) “Nessuno”, la strada verso la salute, da viottolo che potrebbe essere, si trasforma in autostrada a cinque corsie. Io senza di voi non sono nessuno.

Annotiamo che la domanda non è posta su quelle che potremmo intendere come marginalità. Mi spiego, la domanda non è “Dove, come, in che qualità, in che ruolo, in che funzione… sarei Io”, ovvero non è una domanda sugli accidenti del mio essere, ma è una domanda sulla mia esistenza stessa, è una domanda sul mio essere al mondo, sul mio vivere, sul mio “Chi”, sulla mia identità. Ecco. Io senza di voi non avrei nemmeno la mia identità. Non sarei l’individuo che sono invece nella relazione con voi. Con tutti i tu della mia vita che la cambiano in continuazione. La mia identità soggettiva e la mia identità di Soggetto per-l’altro ha squisitamente a che fare con il Tu. E’ il tu che dà segno e senso al mio essere.
>br> Carlo Maria Martini dal suo intenso libro “Il Corpo”. “Il mio corpo ha una parola precisa iscritta in sé: questa parola è l’ altro, è richiamo dell’altro, il corpo diviene se stesso davanti all’altro, mettendosi in relazione.” Ma quello che più affascina è che questo “sbocciare” dall’altro, questo essere vivi solo per essere in relazione con l’altro, non entra in contraddizione con il giusto amore per noi stessi, con il giusto stare dalla parte del nostro Io, con quello che viene definito “egoismo maturo”. Siamo fatti per l’una e per l’altra realtà. Il nostro essere “individuum” è il nostro essere contemporaneamente Io e Tu, nel pensiero che è dal Tu che il nostro Io “salta fuori”, articola parola, forma pensiero, vive vita.
>br> Continua Martini: “L’altro è però il mistero che sfugge a ogni analogia e riduzione di similitudine; se voglio possederlo non è più ‘altro’, e io resto solo, senza nessun altro”.

Nel momento in cui io voglio possedere l’altro, lo nego come alterità e resto solo. La azione del possesso è al tempo stesso un pensiero che l’altro mi è garantito, una pia illusione che l’altro nelle mie mani non mi lasci e continui ad alimentarmi nel modo in cui voglio o pretendo io. In realtà io voglio possedere l’altro nel suo desiderio, in quello che di più suo esiste, in quello che ne fa la sua stessa “identità” come la mia identità è identità come desiderio, per l’appunto desiderio del Tu.

Io dal Tu salto fuori nella pratica del desiderio. Non salto fuori dal tu nelle logiche dell’amicizia, della convivenza, dell’interesse, della compagnia, del tempo vissuto assieme, no, io “salto fuori” dal Tu perché in lui si forma il mio desiderio, ovvero in lui si forma la mia vita, la mia identità. La quale mia identità in questo momento è così e non leibnizianamente diversa da così, proprio perché ci siete voi. Pensiero semplicissimo ma nello stesso tempo strabiliante.

Vorrei insistere su questo semplice pensiero in quanto pensiero affatto dogmatico ma estremamente pratico. Questo è un pensiero che si tiene in mano, che lo si rigira tra le dita, pronto (se così si potesse dire) per essere usato nel “dirmi”, nell’affermare la mia identità e anche il mio posto nel mondo. E’ un pensiero d’amore perché mi fa capire da dove vengo fuori.

Roberta De Monticelli scrive in “L’ordine del cuore”: “C’è un riconoscimento di identità in ogni forma di amore personale, che coincide con la sola evidenza intuitiva piena di un sapere che è normalmente ‘vuoto’, privo di vera e piena evidenza attuale: quello dell’esistenza e unicità di un altro”. Proprio nel senso che l’amore è la sanzione delle reciproche esistenze. Reciprocità. Relazione. Altrimenti non si è nessuno. Noi abbiamo la scaturigine dal Tu proprio perché nell’amore “viene prima” di Io. Viene prima di Io nell’amore che è poi la nostra intera storia. Storia di soggetti amati e in quanto tali “individuati”. Sappiamo quanto per il bambino essere amato significhi essere vivo e quanto questa esperienza lo porterà ad essere individuo umano (che vuol dire né debole né forte) nel mondo.

Il venir prima non è nella logica della sudditanza, del rispetto, delle priorità. Assolutamente. Venir prima vuol dire “venir fuori”. Io sono figlio vostro, questo è il pensiero della salvezza e della salute. E voi siete figli di altri alla pari mia e in questo senso siamo fratelli. Questo significa “essere uomini è essere figli”. C’è un Unico Padre. Noi siamo tutti figli. Perché saltiamo fuori da un Tu che viene prima di tutti noi il quale Tu il quale Tu ci identifica in quanto tali… “c’è un riconoscimento di identità in ogni forma di amore personale”. Amore dà identità ai figli. Io sono chi sono, e qui andiamo nelle nostre più o meno felici storie personali, perché mio padre e mia madre mi hanno voluto bene in quel modo e non in un altro e io a quel modo e non ad un altro (illusione) ho saputo adattarmi e trarne beneficio. Il beneficio viene sempre fuori dalla relazione con l’altro. Io sono quello che sono perché i miei primi Tu mi hanno amato o non mi hanno amato in un certo modo. Oppure, avendomi amato loro in modo che io non ho ritenuto adeguato, sono stato capace o non sono stato capace di andare in cerca dei giusti sostituti. Ho avuto successo o non ho avuto successo nella ricerca di altri Tu (il prete, l’ allenatore di calcio, la suora, il professore, l’amico, lo zio…) dai quali ottenere quello che dai miei primi Tu non ottenevo, o non ritenevo di ottenere. Ben sapendo che il succedaneo è sempre e irrimediabilmente diverso dall’originale. E questa è una legge di natura alla quale nessuno può appellarsi. Io sono Io a partire dall’amore di un altro, ma non facendomi trascinare a peso morto, cioè “a finire” dall’amore di un altro.

Remo Bodei nel suo “Destini personali”: “L’identità non si riduce dunque a una formula semplice come Io=Io, ma non si appiattisce neppure sulle condizioni storiche ed empiriche in cui l’individuo viene a trovarsi”. Noi figli non siamo quelli che ci vediamo allo specchio ma neppure quelli che la nostra storia ha fatto. Noi figli, forse, ci trascendiamo. “E’ peraltro chiaro – continua Bodei – e persino banale, che non esiste un Io senza un Noi che non sia formato dall’avvertito senso di appartenenza dei molteplici Io, dai sedimentati ma attivi processi transindividuali di individuazione: varia solo l ’accento che cade sull’uno o sull’altro termine o il grado della ibridazione reciproca. (…) La complementarietà dell’’ego cum’ e del ‘noi altri’ resta lo sfondo stabile della condizione umana. Del resto, nella sua genesi, l’Io viene ritagliato dalla coppia Io-Tu della madre e del bambino e, successivamente, da quella dell’Io-Noi (come è noto, inoltre, il bambino comincia a riferirsi a se stesso in terza persona)”.

Io non esiste se non figlio del Tu. Io non esiste se non nella relazione d’amore, a partire da quella primaria tra madre e bambino, dell’Io-Tu. Ma quello che è fondamentale è che prima di essere coppia madre-figlio quella è una coppia Io-Tu. Ovvero l’Io figlio dell’altro. L’Io figlio del Tu. Dopo verranno i ruoli e i compiti e i doveri. Il bambino, per indicare se stesso, fa il proprio nome proprio perché sente l’altro che lo chiama. Sente il Tu che gli dà un nome. Sente il Tu che gli dà quella identità che poi diverrà la sua.

“’Individuum, che traduce il greco ‘atomos’ – continua Bodei – , ciò che è indivisibile, allude, in effetti, ad una duplice indivisibilità, logica e ontologica…”. Il bambino coglie contemporaneamente, nel cogliersi figlio, la logica della propria esistenza e il senso della propria esistenza: quella che è “saltato fuori” da chi gli sta davanti. In un modo o nell’altro è saltato fuori. Io atto secondo di cui Tu è atto primo, atto generativo.
Galimberti nel suo “Il corpo” ha una felice metafora: “L’intenzionalità del corpo umano, la sua originaria apertura al mondo, il suo es-porsi e attendere dal mondo indicazioni per sé è attestato, innanzitutto, dalla sua struttura anatomica. Noi siamo eretti non per la meccanica dello scheletro o per la regolazione nervosa del tono (queste sono piuttosto conseguenze e non cause), ma perché siamo impegnati in un mondo”.

Prendiamo come un mito questo pensiero di Galimberti. Ma il senso è chiaro: noi abbiamo la stazione eretta, cioè stiamo svegli e attenti, perchè abbiamo la volontà e il desiderio della apertura verso il mondo “dal quale” veniamo, cioè dal Tu, dall’Altro. Se Tu che mi fai stare in piedi. Non dico che altrimenti Io mi addormenterei o mi metterei a camminare a quattro zampe, ma certo sarei meno attento, ontologicamente e logicamente, al “posto” da cui provengo.

“L’intenzionalità del corpo non è oggettivamente quella dell’intelletto che possiede le cose solo distanziandosele, ponendosele di contro a guisa di oggetti (Gegen-stand, ob- jectus); l’intenzionalità del corpo è il suo essere destinato a un mondo che non abbraccia né possiede, ma verso cui non cessa di dirigersi e progettarsi”. E’ pur vero che per capirci qualcosa del mondo noi dobbiamo prenderne le distanze. Ma tale distanza non è la distanza da cui e con cui si tiene in mano un oggetto per leggerlo, ma è la distanza con cui io tengo in mano un oggetto per non possederlo e per distinguerlo da me, pur avendone una relazione, visto che nella mia mano sta.

Secondo la legge della clessidra quando l’Io e il Tu si toccano con maggiore forza, cioè con maggiore attrito, nel punto in cui il passaggio è più stretto, il budello della clessidra, lì avviene maggiore soddisfazione. Più si stringe il patto, più si stringe l’Arca della Alleanza, più l’altro si pone come motivo e confronto per la mia stessa identità, più il piacere diviene frutto del passaggio, frutto della reciprocità del viaggio. Recita la legge di Bernoulli sulla dinamica dei fluidi che ad una diminuzione della sezione del condotto corrisponde un aumento della velocità del fluido. Applicando ciò alla clessidra potremmo dire che il calore della vita passa con maggiore velocità dall’Io al Tu e viceversa nella misura in cui la diversità è sentita e vissuta. Nel momento in cui la differenza dei desideri fa più fatica a trovare la strada comune per poi trovarla in un posto che non era quello né del desiderio dell’Io né del desiderio del Tu. Un posto Altro, per l’appunto.

Ma noi che cosa cerchiamo alla fine della fiera nel Tu? Che cosa cerchiamo nell’altro verso il quale ci muoviamo? Certo che cerco il simile. Simile nella storia, nel ricordo, nella luce degli occhi, nella inflessione della voce, nella forza e coraggio, nell’odore, nel sale di cui l’altro è portatore. Abbiamo visto parlando dell’Atman che come il sale si disperde nel contenitore e perde la sua anatomia e morfologia di base, così noi ci perdiamo negli altri acquisendo dagli altri anatomia e morfologia. Morfologia sempre in divenire in quanto gli altri cambiano e gli altri da me sono cambiati. Il sale mio è il sale vostro, per questo Io posso dire “Chi sarei Io senza di voi?”. “Chi potrei essere Io senza il sale stesso vostro che è dentro di me?”. Perderei la mia identità.

“Solo quando ci guardiamo come fossimo fuori di noi, ci accorgiamo di ciò che siamo – scrive Bodei -. In termini mitici ci sentiamo quali dovettero sentirsi, secondo la Bibbia, Adamo ed Eva dopo aver commesso il peccato originale:’ Allora si aprirono gli occhi di ambedue e conobbero di essere nudi’ (Genesi, 3, 7 ). In termini filosofici, come quell’individuo, descritto da Sartre mentre è interamente assorbito da quanto vede ed è improvvisamente costretto a prendere coscienza di sé dallo sguardo altrui (che lo sorprende, magari, in situazioni imbarazzanti, chino a guardare furtivamente una scena ‘dal buco della serratura’”.

La nudità di Adamo ed Eva è famosa. Molto meno famoso il pensiero che tale nudità “avviene” ad opera dello sguardo dell’ altro. E’ il Tu che fa la nudità. Per l’Io da solo non ci sarebbe nudità in quanto l’Io non può guardarsi. E’ sempre lo sguardo dell’altro che ci guarda.

“’Così sei Tu’ è una traduzione della famosa frase sanscrita ‘tat tvam asi’, in cui viene espressa l’idea che la verità che si cela dietro ogni cosa , e che ne è l’essenza è anche il sé (atman)” scrive Kim Knott in “Induismo” commentando il brano delle Upanisad, Chandogya Upanisad, 6. 13 in cui il padre Uddalaka Aruni insegna che cosa sia l’Atman al figlio Svetaketu.

Sono in cerca del simile, del sale di cui sono comporto Io alla pari di quello degli Altri, ma sono alla ricerca anche del diverso. Non cerco solo l’”idem” (da cui identità) ma anche dell’’”alter” (da cui alterità). Sto andando in cerca del diverso nell’altro e questa è la basilare “felix” contraddizione di cui è fatta la nostra pasta, di cui è fatta la nostra idetità. Il diverso nell’altro. Lo stesso di cui parla Simone Weil quando parla del “velo” che inequivocabilmente ci divide dall’altro. Velo che è chiamata alla conoscenza ma anche impossibilità alla conoscenza completa. Velo che è distanza dall’altro ma nello stesso tempo desiderio di percorrere la stessa distanza.

La contraddizione, e questa contraddizione è felice, cioè prolifica proprio perché il corpo dell’Io e il corpo del Tu non diventeranno mai “uno” in quanto mossi i due corpi l’uno verso l’altro da quello che è simile e da quello che è diverso. La ricerca del simile e la ricerca del dissimile. L’altro che non posso inglobare è la mia stessa salvezza.

Ildegarde von Bingen parla di “corpus capax mundi”, il corpo che contiene il mondo intero in quanto somiglianza e diversità. Il corpo che è capace del mondo fa scrivere a Luce Irigaray che il corpo è capace solo se si capacita sulla differenza dell’ altro e dall’altro. “La differenza sessuale è certamente il contenuto più adeguato all’universale, e questo contenuto è nello stesso tempo reale e universale. La differenza sessuale è un dato immediato naturale, ed è una componente reale e irriducibile dell’universale. Il genere umano nel suo insieme è composto di donne e di uomini, e di nient’altro. Il problema delle razze, infatti, è un problema secondario – tranne che dal punto di vista geografico -, è l’albero che ci nasconde la foresta, e così è per le altre diversità culturali, religiose, economiche e politiche. La differenza sessuale rappresenta probabilmente la questione più universale che si possa affrontare, ed è la questione che la nostra epoca deve affrontare: Nel mondo intero ci sono, e ci sono soltanto, degli uomini e delle donne”.

Il mondo è fatto di uomini e di donne e di nient’altro significa che la differenza sessuale è il velo di cui parla Simone Weil e nello stesso tempo il sale di cui parla Uddalaka Aruni. La differenza sessuale che è un dato universale che ci fa simili e nello stesso tempo diversi. Che ci separa ma che costituisce il richiamo alla unione. Sapere la differenza sessuale e sapere che dal suo saperla vivere dipende la nostra salvezza è la legge universale più universale che possa esistere.

Partiamo da un dato tanto pratico quanto realistico. Il bambino. Proprio universalmente egli ha un pensiero, quello dell’ amore della madre come un amore garantito (che poi questo lo sia per davvero o sia una sua illusione dipende da storia e storia). Ma tutti i bambini vivono questo pensiero, il pensiero dell’amore garantito. Un amore dovuto, scontato. Un dato di fatto per cui il bambino pensa nel suo diritto di essere “contenuto” nel pensiero se non addirittura nel corpo della madre. Forse in questo senso Ildegarde parlava di “corpus capax mundi”, il pensiero del bambino rivolto al corpo della madre come capace di contenere tutto il suo mondo. Ma ci accorgiamo subito come questo pensiero sia un pensiero in cui non c’è divisione, non c’è differenza, non c’è individuazione, non c’è forse nemmeno identità. Ci accorgiamo subito come questo pensiero sia un pensiero in cui non c’è sesso. Proprio perché il sesso interviene come differenza tra Tu ed Io. Nel nostro caso tra madre e bambino. La differenza sessuale diviene legge universale nel momento in cui Io comincio a svolgere quella funzione di “distacco” che mi permette di diventare individuum. Questa funzione è la domanda. Nella domanda non c’è garanzia. Non c’è amore scontato. Non c’è contenzione silenziosa e garantita. Con la domanda viene introdotta la possibilità del “no”. Con la domanda viene introdotta la differenza tra Io e Tu. Con la domanda viene introdotta la differenza a partire da quella sessuale. Con la domanda viene introdotto il sesso, che appunto etimologicamente deriva dalla radice indoeuropea “sec”, che significa “dividere”, il “secare” latino. Scegliere.

Guido Savio

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