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LA CRISI COME SOLUZIONE

LA CRISI COME SOLUZIONE

(o di qua o di là)

Dalla medicina ippocratica la crisi è sempre il momento della soluzione, o nel bene o nel male.

LA CRISI COME SOLUZIONE

(o di qua o di là)

L’altro della relazione è l’altro con cui io consumo la mia vita nella condizione auspicabile della produzione di ricchezza e di interesse reciproco. L’altro che è felix per me, nel senso di fertile, non lo è sempre nello stesso modo e tanto meno lo è nella stessa misura. Allora ci può essere crisi. Crisi è la parola. Crisi e dolore possono accompagnarsi. Anzi si accompagnano quasi sempre.

Vorrei tuttavia, prima di procedere, riportare la definizione della parola Crisi che dà Umberto Galimberti nel suo Dizionario di Psicologia: “Termine di origine greca (da “krino”, scelgo, scerno, discrimino, separo, decido) presente nella medicina ippocratica per indicare un punto decisivo di cambiamento che si presenta durante una malattia di cui solitamente risolve il decorso in senso favorevole o in senso sfavorevole. In ambito psicologico si riferisce a un momento della vita caratterizzato dalla rottura dell’equilibrio precedentemente acquisito e dalla necessità di trasformare gli schemi consueti di comportamento che si rivelano non più adeguati a far fronte alla situazione presente. K. Jaspers definisce la crisi come un punto di passaggio dove ‘tutto subisce un cambiamento subitaneo dal quale l’individuo esce trasformato, sia dando origine ad una nuova risoluzione, sia andando verso la decadenza. La storia della vita non segue il corso uniforme del tempo, struttura il proprio tempo qualitativamente, spinge lo sviluppo delle esperienze a quell’estremo che rende inevitabile la decisione’”.

Il discorso che vado facendo è racchiuso in queste definizioni enciclopediche.

La crisi allora è la scelta, dunque condizione di libertà e di fattibilità irrinunciabili nel tempo dell’amore e della relazione. Il tempo della decisione, che altro non è che il tempo della conoscenza (si potrebbe anche dire “della presa di coscienza”) che i presupposti per cui una relazione ha funzionato fino a quel momento adesso non ci sono più. La crisi è un punto decisivo: si va da una parte o dall’altra, si rimane o non si rimane, si continua o si smette. La malattia (intendiamo noi metaforicamente) non va nascosta sotto la sabbia. Non si nasconde la realtà della relazione che per certi aspetti può essere mutata e dunque non postare quella soddisfazione che magari un tempo era garantita. Io vedrei semmai la parte negativa e maligna della crisi il… fermarsi prima della crisi. Scotomizzare quello che via via diventa sempre più evidente: che esiste umanamente nella relazione stanchezza e noia. Umiltà e dignità dunque sono sentimenti che rendono onore al vero: si ammette ciò che sta avvenendo. Come dice Jaspers il cambiamento della crisi è un cambiamento subitaneo “dal quale l’individuo riesce trasformato”. Ora nessuno sa dire prima quello che si saprà solo poi, ovvero se il continuare la relazione o il rinunciare siano bene o male. Nessuno può dire prima della soluzione della crisi qual è il bene dell’uno e qual è il bene dell’altro. Perché la crisi, da qualsiasi lato la si prenda, porta sempre ad una soluzione. O di qua o di là. Malignità è fermarsi prima della crisi, cioè prima della soluzione, prima della decisione. E ciò spesso avviene nella speranza ahimè vana di… risparmiare dolore. Non si decide perché si teme il dolore. E ad esso si va in bocca.

Allora io chiedo se la capacità di sopportazione e anche di convivenza con il dolore (prima della crisi si tratta di un “ pensiero di dolore”) possa favorire la soluzione stessa, possa favorire se non determinare la decisione. Chiedo se il pudore (questa è la parola corretta) nel vivere il proprio dolore all’interno della relazione che fa soffrire, sia uno strumento per passare oltre il guado, per attraversare la crisi con dignità e umiltà. E chiedo anche se il vivere il sentimento del pudore poi alla fin fine sia anche una scelta economica, ovvero porti ad un vantaggio, ad un beneficio nel passaggio della crisi stessa.

A questo punto qualche riflessione sul pudore, partendo da ciò che scrive Salvatore Natoli nel suo splendido e non perdibile “L’Esperienza del dolore”.

“Il vivere un dolore in modo dignitoso – scrive Natoli – è praticare il pudore. Il pudore consente all’uomo di giocare la sua partita con il dolore senza andare allo sbando, senza cadere preda della propria paura o il timore della rivincita dei nemici. La sobrietà del gesto che nasconde testimonia ancora la volontà di non concedersi facilmente alla propria fine (che nel nostro caso potrebbe essere alla fine dell’altro o alla fine della relazione).

La questione è se l’uso del pudore come forza e nello stesso tempo privatezza del mio essere mi permetta di rilanciare la relazione (determinandone “nuovi motivi” come scrive la De Monticelli) da uno stato di esaurimento delle risorse ad uno stato di incremento della volontà e del desiderio stesso.

Il pudore come continenza, la enkrateia dei greci, che proprio perché ripiegamento onesto su se stessi consente un lavoro di ri-valutazione e consente all’altro un silenzio (il mio) con il quale ri-confrontarsi. Tutto questo può avvenire se l’Io e il Tu che vivono la relazione hanno presente la doppia valenza della consumazione: la candela che fa luce ma nello stesso tempo la cera che va persa per sempre. Il pudore, a mio modo di vedere, può essere un aiuto, in quanto ripiegamento su una propria prolifica solitudine, ad accettare la perdita. Dalla solitudine si accetta la perdita con minore dolore. Dalla solitudine si lavora per la eventuale continuazione della relazione con maggiore solerzia.

In ogni caso la legge della vita, come la legge della relazione, sta nella capacità di perdere se stessi e di perdere l’ altro. Senza che questo sia affatto paradossale. Il chicco di grano caduto per terra, se non muore, porta la vita, porta qualcosa di buono. Questa è la disponibilità a perdere che mi porta a vivere il dolore, proprio perché la relazione mi chiama a vivere l’altro non come un mio possesso. Viverlo come Altro sotto tutti gli aspetti.

La fertilità e la “mortibilità” della relazione sono due aspetti apparentemente antitetici ma che in realtà strutturano, anche legalmente la relazione stessa. Senza fertilità non ci sarebbe morte e senza morte non ci sarebbe fertilità. La legge dell’amore dice che nemmeno della fertilità o della “mortibilità” della relazione sono in nostro possesso. Noi non teniamo nelle nostre mani il destino della relazione. E’ chiaro che noi tendenzialmente procediamo verso la fertilità, ma questa non è un nostro avere. E quando interviene il tempo della “mortibilità” della relazione, questo tempo stesso ci può sfuggire tra le mani come la sabbia. Per la legge che l’altro (e anche noi stessi) non è programmabile ma solo incontrabile. Si tratta di legge di natura alla quale noi siamo chiamati ad ubbidire. Ubbidire poi per essere veramente liberi nel viverla.

E poi la mia fertilità non è la fertilità dell’altro. Nel tempo della crisi se io voglio la fertilità dell’altro come voglio la mia fertilità, vincolo l’altro in un mio programma. E allora le cose non funzioneranno per davvero e la crisi da solutiva che potrebbe essere, diverrebbe automaticamente fallimentare. E’ la vita che mi porta l’altro, o me lo porta via, non io che lo governo. Io vivo l’amore se sono disposto a perderlo. E io mi chiedo se questa accettazione sia poi la accettazione del dolore della crisi con l’altro o della sua stessa perdita. Ed è qui che il pudore, che potremmo anche intendere come un ritiro positivo dentro al mio dolore, mi permette di capire meglio sia il mio Io che il Tu.

Sta scritto, e sappiamo anche dove (questo è Luca): “Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà. Chi è disposto a perderla la salverà”. Ed io mi fermerei proprio sulla disponibilità a perdere. E’ la disponibilità mia a perdere l’altro che mi salverà o ci salverà. Questo è il pensiero portante e fondante la crisi. Chi vorrà salvare a tutti i costi la relazione la perderà di sicuro. Ma chi è disposto a perderla vivendo il proprio dolore nel pudore, la salverà.

Io vedrei che nella espressione “per forza” stanno tutte le sovrastrutture più o meno maligne, attorno alla coppia Io/Tu, che è sempre una coppia di corpi. Una coppia di corpi nudi che vivono una relazione perché mossi dal loro stesso desiderio, non da un dovere superegoico, o da un conteggio utilitaristico, o peggio dalla paura stessa di perdere. Non si ama per paura (di perdere e di essere perduti).

E’ la questione del non trattenere, del non trattenersi. E’ ancora il seme che si apre nella terra e alla terra si mescola. Proprio per essere felice, felix, prolifico. Il seme si lascia andare, potremmo dire, lascia andare il proprio corpo alla terra per non essere più se stesso ma diventare pianta. Ma questo non lo programma lui. Lui offre il suo corpo. Nulla di più. Il resto lo fa la sua relazione con la terra.

Scrive Lao Zi: “Il mondo è un meccanismo delicato al quale non conviene metter mano. Chi agisce lo rovina, chi vuole appropriarsene, lo perde”. Leggiamo noi moderni e occidentali questo “agire” come un forzare. Chi forza perde. Se io forzo l ’altro nella sua volontà, sia nell’amore ma anche se vado a vendergli bulloni, lo perdo, perdo economicamente il beneficio dell’altro.

Dai Discorsi di Buddha, “Tutto brucia” ha per titolo il discorso che prendo in considerazione.

“’Oh monaci, tutto brucia’. ‘Che cosa brucia o monaci?’ ‘ La vista brucia (…)’. ‘ Mediante che cosa brucia?’. ‘Brucia mediante il fuoco dell’attaccamento’. L’udito brucia o monaci, la coscienza uditiva brucia (…). Ma mediante che cosa brucia? Brucia mediante il fuoco dell’attaccamento’. Il gusto brucia(…) il tatto brucia (…). ‘O monaci, vedendo tutto ciò, il nobile discepolo che ha spiegato l’insegnamento è serenamente disincantato’ (…) Attraverso il sereno disincanto (nirvana) egli diviene privo di attaccamento (“Chi vuol salvare la propria vita la perderà, chi è disposto a perderla, la salverà” “Chi accetta di perdere l’altro, lo salva, chi gli si attacca, lo perde”). Verso il sereno disincanto (nirvana) egli diviene privo di attaccamento. In virtù del non attaccamento ottiene la liberazione (samsara). E per il buddismo questa liberazione è la conclusione dei cicli delle reincarnazioni, è la conclusione, è la consumazione assoluta, la fine, la non esistenza. “Con la liberazione sopravviene la conoscenza, la mente è liberata. Egli comprende che la nascita è distrutta, la santa vita è stata vissuta, ciò che doveva essere fatto era stato fatto. Non c’è più rinascita in questo mondo”. La consumazione eccola qua. Ma a partire da che cosa? A partire dal disincanto che è appunto la liberazione (dal bisogno). Liberazione dalla necessità della conquista, del possesso, del legame forzato con l’altro? Certo, tutte queste e mille altre cose, ma soprattutto liberazione è pensiero che l’altro lo posso perdere, come posso perdere me stesso.

“Un cinese, P.Z., raccontava che un ufficiale tedesco che faceva parte della spedizione punitiva attraverso la Cina, dopo la rivolta dei Boxer, gli aveva raccontato quanto segue. L’ufficiale vede una fila d’uomini condannati a morte, schierati in un campo. Il boia con la spada esegue il suo lavoro, un uomo dopo l’altro”; e ancora: “Uno degli ultimi della fila, il cui turno è ancora lontano, legge un libro con profonda attenzione. L’ufficiale si dirige a cavallo verso di lui e gli chiede: “che leggi?”. L’uomo alza gli occhi e chiede a sua volta: “Perché mi disturbi?”. L’ufficiale chiede : “Come puoi leggere ora ?” L’uomo dice: “Io so che ogni riga letta è profitto”. L’ufficiale raggiunge a cavallo il generale che ha ordinato l’esecuzione e lo prega tanto che questi gli accorda la libertà dell’uomo, ritorna a cavallo con l’ordine scritto e può far uscire l’uomo dalla fila. Gli dice: “Sei graziato, puoi andare”. L’uomo chiude il libro, lo fissa negli occhi e dice: “Hai agito bene. Da questa ora la tua anima trarrà grande profitto” – lo saluta con un cenno e s’allontana pei campi”. ( Hofmannsthal, H., von, Il libro degli amici ).

Certo letteratura. Certo esempi prodigiosi. Ma noi poveri mediocri dobbiamo stare attenti ai grandi esempi, non tanto per imitarli, ma per imparare. Il protagonista di questo racconto aveva paura di perdere la vita? No di certo, anche se qui siamo nel paradosso. Ma abbiamo anche imparato che il paradosso può essere il sale della vita. Anche la perdita della vita può diventare un momento fertile. E’ la vita e le circostanze che ci invitano a coltivare il pensiero di distacco. La vita è più intelligente di me e mi conosce. E’ pericoloso rendere necessario e forzato il pensiero di distacco. Allora diverrebbe per davvero mortifero. Mortifero della nostra libertà, che è ciò che al mondo abbiamo di più caro. Vivere con il pensiero della morte non è farsi del male. Ma accettare che sia la vita che mi insegna questo è atto di grande intelligenza. La accettazione della perdita è vita. Ma è il Tu che mi porta a vivere questa realtà. Ma ciò ci viene anche da un nostro dibattito interno. Con la alterità che popola noi stessi, dal di dentro. Dall’altro che noi stessi siamo rispetto a noi stessi. Bodei in Destini personali parla di “uomini di vita”, di quelle persone che la vita la sanno perdere. Essere uomini significa essere all’interno del pensiero che l’altro mi è portatore di fertilità ma anche di morte. Bodei parla di pensiero di “spendibilit à”, cioè la apertura verso i “possibili”. E’ questa la nostra potenza. Non nello spendere ma nella spendibilità. La spendibilità ha motivo di essere solo in quanto distacco dalla oggettività della vita stessa. Bodei conclude questo passaggio affermando che “pensare a qualche cosa di diverso dalla spendibilità conduce alla rovina” ossia alla reale perdita (della vita). Se io penso che qualsiasi forma di alterità non è perdibile-spendibile, allora mi perdo, definitivamente. E definitivamente perdo anche l’Altro.

Guido Savio giugno 2003

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