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IL FARE (…LEVA IL MEDICO DI TORNO)

IL FARE

CONDIZIONE DELLA SALUTE

NATURALITA’ E SPONTANEITA’

IL FARE

Parlando di fare possiamo dire che il fare equivale alla salute e il non fare equivale alla malattia ( intendendo per non fare la inibizione ).

Recita il proverbio: ” Chi fa bene fa, chi non fa il male fa “.

Vedrei proprio la patologia del non fare in un gesto apparentemente banale, quotidiano, mattutino, estremamente umano: specchiarsi allo specchio.

Parliamo dello specchiarsi del pensiero sul nostro corpo all’interno di una teoria, non dello specchiarci per controllare se abbiamo i denti puliti o la scriminatura corretta. La teoria è quella che recita che noi “ci esauriamo in noi stessi”, che noi abbiamo un certo compimento dentro i confini della nostra pelle, senza invece “fare” per l’altro. Il fare è il divenire della relazione. Altri non ne esistono.

Marco Aurelio più meno recita: “Se al mattino quando ti svegli non hai motivo per mettere il piede fuori al letto, pensa che è per fare del bene a qualcun altro che sei venuto a questo mondo”.

Io lascerei da parte implicazioni morali e comportamentali. Il bene… se verrà verrà. Mi basta il fare. Il pensiero di fare che mi fa mettere il piede (meglio se quello destro) fuori dal letto in una mattina uggiosa. Dico che l’altro è già implicito nel fare. Si fa per l’altro. Si fa per altro. E solo in questo modo si fa anche il proprio bene. Non certo però specchiandoci sulle teorie inerenti al nostro corpo fuori dalla relazione.

Mi verrebbe da dire che quello che si fa nella relazione è “un fare che si fa da solo”, un fare che e esce naturalmente dal desiderio del mio corpo. Che e sempre una desiderio mosso dall’altro. Non esistono, lo sappiamo, eccitazioni interne. È sempre l’altro che ci chiama. A me che sembra che la chiamata dell’altro sia sempre un dato di natura. Un evento che l’uomo può sentire oltre la ragione, oltre la previsione, oltre ogni aspettativa.

Lao Zi esprime il concetto di “Wu Wei”. Scrive in una nota il curatore del libro appunto di Lao Zi, “Tao, Il libro della vita e della virtù” ,Angelo Giorgio Teardo: “Wu-wei non deve fare pensare ad una passiva partecipazione alla vita, ma si ricollega al concetto di indifferenziazione, esprime l’aderenza dell’uomo al flusso spontaneo del divenire, che si attua nella azione ultima dello “yng” e dello “yang”. Ecco allora la necessità del non-agire, che non vuol dire inattivi ma ricettivi”.

Il non-agire che nel nostro discorso altro non significa che… lasciare avvenire, al di fuori di qualsiasi condizione coattiva del “dovere per forza”.

Scrive nel pensiero XXIX Lao Zi: “Il mondo è un meccanismo delicato al quale non conviene mettere mano. Chi agisce lo rovina. Chi vuole appropriarsene lo perde”.

Non-agire è allora, e cito Lao Zi, “azione conforme al ritmo della natura”. Dove io vedrei la conformità all’interno della logica della continenza. Ritmo della naturalità. Non conoscenza ma “sentire” della nostra naturalità. Fare, a mio modo di vedere, è stare all’interno di questa logica che vado tratteggiando. L’opposto è lo strafare. La coazione che spesso diventa affanno. Strafare è la patologia da cui siamo partiti. Strafare è colui che si guarda allo specchio e si pone delle condizioni, avendo scelto come centro del proprio interesse se stesso. Questo lo sappiamo fin troppo bene. Lo si può benissimo vedere nella performance. Il performatico non è interessato dell’altro, ma gli interessa la narrazione di se stesso attraverso lo specchio. Meglio. Lo specchio gli rimanda indietro la storia che lui vuole sentirsi narrare.

Molte relazioni stanno in piedi non tanto perché ce ne sia un motivo valido ma perché l’uno o entrambi i soggetti, in qualche maniera, non vogliono perdere la partita. L’altro è escluso da qualsiasi considerazione. Specchiarsi si significa questo: pur vivere con l’altro ma starci assieme solo per non perderlo.

Molte relazioni stanno in piedi per quella che è definita ” falsa fedeltà “. Ovvero il dover stare assieme per forza in quanto la propria componente narcisistica non consentirebbe la separazione. Lo strafare inchioda alla “falsa fedeltà”. Fare andare bene per forza è una condanna alla patologia.

Naturale è anche certo la mancanza. Scrive Svevo nella “Coscienza”: “Se la vita duole, non è detto che ci sia cura per forza”.

Il che vuol dire che non è necessario andare a riparare. A ricostruire, a andare anche contro la natura pur di riparare o di redimere. A mio modo di vedere è dalla constatazione che la vita duole e che può anche andare bene così che poi può venire la correzione, o la redenzione, o la riparazione. Guai se si salta il dato iniziale, ovvero la naturalità della mancanza. La naturalità della sofferenza. Non ci si può opporre al dato di realtà che la vita duole. Se io ho nel pensiero che la vita non deve dolore… allora dolgo per davvero e dorrò per tutta la vita.
>br> Fare è stare con l’altro. Ogni tipo di fare ha inevitabilmente a che fare con l’altro. Con l’entrare nell’altro.

Scrive Simone Weil nei suoi “Quaderni”: “Le mie azioni aumentano o diminuiscono lo spessore del velo che mi separa dall’ universo e dagli altri”. Il velo esiste. Sempre. La distanza a volte può risultare incolmabile e procurare dolore. La nudità dei due corpi in relazione tra di loro, la loro nudità spirituale, può rimanere tale, senza che redenzione o riparazione ci sia. Ma sarà attraverso il mio fare per l’altro, che io mi avvicino o mi allontano dal velo. Io chiamerei questo velo “l’ incolmabile” o “il-solo-avvicinabile”.
>br> Simone Weil afferma che il velo esiste sempre. Ma se noi questo velo lo intendiamo non come semplice mancanza o dolore, ma come mancanza e dolore che devono essere riparati per forza… allora ci danniamo. Se io intendo questo dolore come possibile… solo allora posso intercorrere lo spazio intermedio tra te e me. Posso mettere la mano sul velo, posso scostarlo e posso anche riaccostarlo. A partire dal pensiero che se è dolore… che dolore sia.
>br> Il dolore e le sue cause noi le possiamo contenere dentro di noi, dentro un pensiero anche amorevole. Soffro ma mi voglio bene anche perché soffro. Sono ammalato se dico che soffro per forza. Che soffro perché ho peccato. Perché è un castigo. Sono malato se invece voglio uscire a tutti i costi dalla situazione di sofferenza. Meno si soffre meglio si sta ma… “c’è un tempo per e c’è un tempo per”.

Simone Weil poi, per parlare dell’essere vicino di due persone e per sentire la comunione dei corpi all’interno della logica e della esperienza del piacere usa l’esempio della bilancia. “Mediante quale arte sarebbe giusta la azione nel rapporto con l’altro come un timone di profondità. La azione come timone di profondità. Forse essa può solo abbassare ma non elevare. Forse noi eleviamo la barra di profondità solo attraverso la ‘attenzione’”.

Attenzione che io non esiterei definire ulteriormente come “dedizione”. Io, nei confronti dell’altro, se voglio starci bene, ci devo andare in profondità: non c’è tirchieria nell’amore. Non c’è tirchieria nel darmi come sono all’interno dell’amore. Il dolore, all’interno dell’amore avviene quando il mio darmi all’ altro, il dare il mio corpo all’altro… questo peso è eccessivamente pesante.

Io penso che entrare come un timone nell’altro significa che io ho fede che posso cambiare l’altro nel rispetto (con la mia attenzione) della sua sopportazione. Ma io non posso fare pensieri di “debolezza” sulla capacità dell’altro di sopportarmi.

Il mio pensiero è quello di poter guidare con il mio timone la relazione. L’altro farà la stessa cosa quando attuerà il mio stesso pensiero. Ovviamente pensieri che non si possono sovrapporre ma che si devono intercambiare.

Se la vita duole, se il timone che entra fa male… non vuol dire altro che fa male. E dobbiamo accettare anche questo. Da qui si riparte. O da qui si parte.

Continua Simone Weil: “Atti idonei a rendere giusta la bilancia interiore: mettersi quanto più possibile in una posizione in cui questo timone abbia a che fare con la profondità abbinata alla posizione della attenzione dell’altro. L’una non esclude l’altra”.

La attenzione io la vedrei quasi come un dono. Il dono è sempre un in più. Il dono non è un colmare una mancanza. Ma è un consumare o un perdere qualche cosa che è in più. Per questo esso è particolarmente gradito. Il dono è la gratuità assoluta. Non c’è compensazione.

Ancora la Weil: “Non siamo noi ad agire ma è l’’Atman’ che noi siamo ad agire”. Atman è l’anima individuale come il Brahman è quella universale.

“Atman” per noi potrebbe voler dire la nostra naturalità, il “chi sono sono”, la mia pelle o il mio corpo ma nello stesso tempo tutte le parti del mio corpo che comunicano con l’Universo e dunque io stesso l’Universo stesso. L’”Atman” è l’essere uguale a tutti gli altri ma nello stesso tempo essere fortemente e vivamente me stesso.

Non voglio qui fare della filosofia orientale, non ne ho le capacità e tanto meno le cognizioni. Mi premeva soffermarmi su questo concetto per cercare di tirarne fuori la sua portata di “naturalità”. Vedrei l’”Atman” come quell’in più che tiene assieme l’unità oltre la somma di tutte le sue componenti. Il senso ultimo, la colla personale e nello stesso tempo il destino comune. L’Essere insomma.
>br> Gli scacchi non sono l’insieme delle pedine e della scacchiera, ma sono piacere del gioco, gusto, relazione, tempo, occhi che si guardano, voglia di vincere. L’Essere insomma.

“Si immagini un giovane tra i venti e i trenta anni che si chiama Svetaketu, e il suo maestro, che altri non è se non suo padre, Uddalaka Aruni. (…)” – Scrive Kim Knott nel suo “Induismo” – e si segua il loro dialogo dove il padre ammaestra il figlio attraverso l’esempio del sale, e questo brano è estratto dalle Upanisad, Chandogya Upanisad, 6.13: ‘ Metti questo pezzo di sale in un recipiente d’acqua e ritorna domani’. Il figlio fece come gli fu comandato, e il padre gli disse: ‘ Portami il pezzo di sale che ieri serra hai messo nell’acqua’. Il giovane lo cercò a tastoni ma non riuscì a trovarlo poiché si era sciolto completamente. ‘Adesso bevi un sorso da quest’angolo – disse il padre. Che sapore ha?’ . ‘Salato’. ‘Bevi un sorso dal centro. Che sapore ha?’. ‘Salato’. ‘Bevi un sorso da quell’angolo. Che sapore ha?’. ‘Salato’. ‘Buttalo fuori e ritorna più tardi’. Il giovane fece come gli era stato comandato e scoprì che il sale era sempre lì. Il padre gli disse: ‘ Figlio, naturalmente non lo vedevi ma è sempre stato davanti ai tuoi occhi. Questa sottilissima essenza… ecco che cosa costituisce il sé del mondo intero; questa è la verità; questo è il sé (Atman). E così sei tu, Svetaketu’”.

Ecco quello che ci interessa: “Così sei tu” che per noi significa “Così fai tu”. Il tuo essere è la tua essenza, cioè quello che tu fai. Ciò che è dentro di noi ci trascende. E quello che ci trascende va dentro l’altro. La schiuma che viene fuori dal nostro movimento che va verso l’altro. E questa schiuma è inesauribile. La “sottilissima essenza” è il nostro non essere pensanti ma il nostro essere facenti.

“’Così sei tu’” è la traduzione – continua Knott – della famosa frase sanscrita < Tat tvam asi >, in cui viene espressa la idea che la verità che si cela dietro ogni cosa e che ne è l’’essenza, è anche il sé (Atman) di Svetaketu. L’essenza c’è, ne siamo sicuri, ma è nascosta. Andare dentro all’altro significa andare dentro con il nostro timone. Se funziona la prima volta non è detto che funzioni la seconda. Noi dobbiamo rilanciarci ogni volta, più che programmarci. Qui sta il fare. Il rilanciarsi fuori dalla presunzione di ogni programmazione. Io non credo che noi siamo fatti per la continuità, anche se essa è una nostra aspettativa, una nostra necessità. Vedrei la molteplicità dell’uomo e dei suoi desideri, noi sempre chiamati a ritrovarci nuovi di fronte all’altro che ci chiama. Noi nuovi di fronte al fare che l’amore verso l’altro ci dice. Dalle premesse non ne consegue nessuna sicurezza.

Vorrei dire a proposito ancora due parole sul timone. Vedrei che questo timone ha maggiori possibilità di entrare nell’altro e dunque di “funzionare” per l’altro anche nel senso della norma, della regola, della direzione nella misura direttamente proporzionale alla diversità da me dell’altro. Più l’altro è diverso e maggiormente accetta la mia “posizione” nei suoi confronti. Le cosiddette “affinità elettive” si affineranno in seguito. Più l’altro mi viene da lontano, più il mio timone è libero di funzionare. Più l’altro, nella reciproca conoscenza (o presunta tale) si aspetta da me quello che intende aspettarsi, meno la mia barra sarà libera di solcare il suo mare.

L’eccesso di conoscenza a volte diviene un eccesso di saturazione, uno svilimento della aspettativa, un impoverimento della naturalità. Mi pare che la conoscenza dell’altro (oltre a tutti gli ovvi aspetti positivi) possa comportare una certa rigidità di movimenti, se non una loro ripetitività. Mi dà l’impressione che la conoscenza eccessiva possa portarmi, nella relazione con l’altra, a forzare la mia naturalità e a strafare.

Due pensieri di Leopardi. Il Primo: “Quanto sia grande l’amore che la natura ci ha dato verso i nostri simili si può comprendere da quello che qualunque animale, e il fanciullo inesperto, se si abbatte a vedere la propria immagine riflessa allo specchio, che, credendola una creatura simile a sé, viene in furore ed ismania e cerca ogni via di nuocere a quella creatura. Gli uccellini domestici, mansueti come sono per natura e per costume, si dirigono contro allo specchio stizzosamente, con le ali inarcate e il becco aperto e lo percuotono. La scimmia, quando può lo gitta in terra e lo stritola con i piedi.”

Il simile, afferma Leopardi, è l’oggetto del nostro odio. Simile come carica positiva che va a ritrarsi di fronte ad una altra carica positiva. Mentre noi sappiamo che è la dissimiglianza (giochiamo un po’ con questi termini) che mi attira. E’ il diverso che mi chiama. Anche se dentro di me esiste l’eterno e arcaico e infantile desiderio di possedere l’altro simile a me stesso. A ben pensare se io mi specchio non è che veda il simile. Ma vedo me stesso. Non vedo l’altro da assalire, come afferma Leopardi, ma attacco me stesso che non ho saputo riconoscere. L’altro è sempre diverso da me e non mi appare nella logica dello specchio, almeno che io non ve lo riduca. Ma qui siamo nella psicopatologia.

Il secondo pensiero di Leopardi. Che io, pure nel pessimismo e nella amarezza con cui sono scritti, vedo come appelli d’ amore. Ancora prima della Ginestra. Appelli d’amore di uno che sa parlare solo quella lingua dell’amore, il negarlo.

“In un libro che hanno gli ebrei di sentenze e detti vari, tradotto come si dice d’arabico, tra molte altre cose di nessun rilievo, si legge che non so quale sapiente, essendogli detto da uno ‘ Io ti voglio bene’ rispose ‘ E perché no? Non sei né della mia religione, né parente mio, né vicino, né uno che mi mantenga’”.

Questo è l’alterità. Non sei sangue del mio sangue. Sei altro. Solo la alterità dell’altro è ritenuta degna dal saggio ebreo per farsi amare. Non il sangue vuol dire che noi dobbiamo saperci spogliare da tutti i ruoli e da tutte le strutture, anche quelle della parentela, per presentarci nudi all’altro, laici mi verrebbe da dire, se stessi, puri e limitati nella nostra natura.

Guai se noi abbiamo relazioni impostandole nel senso del ruolo. Salute è impostarle nel senso della nudità. L’Atman. Chi io sono. Ovvero la mia nudità. Per fortuna queste cose non si imparano nei libri. Non si trasmettono neppure da padre in figlio. Non si capiscono per via di ragionamento ma… si sentono. Il sentire. Il sentirsi se stessi. E sappiamo anche che non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. “Così fai tu”.

Questo “così fai tu”, tanto per restare nel linguaggio della Weil altro non significa che entrare con il proprio timone nell ’altro e sentirsi dire: “Così sei tu”. Ciò che sei fai e ciò che fai sei. L’atto d’amore è l’altro che mi dice: “Così sei tu ”. Che non significa che ti accetto sempre, o per forza. Né che saranno sempre rose e viole. Il mio atto di entrare con il timone della regola, del patto, della sanzione, all’interno dell’altro, è un atto d’amore in quanto io reputo l’altro sufficientemente forte da supportare il mio peso. E anche di sopportarlo. Poi reciprocità. Nel sopportare e nell’entrare nell’altro… reciprocità. Corpo e spirito. Preservarsi dal “così sono io = così faccio io”, a mio modo di vedere, è una offesa nei confronti dell’altro. Una offesa in quanto il mio giudizio sull’altro è un giudizio di povertà, di carenza, di incapacità proprio nella dimensione della sopportazione. Il mio timone può portare anche dolore. Anzi. Lo porterà senza dubbio. “Se la vita duole non vuol dire che ci si deva curare per forza”.

Ma noi no possiamo avere la garanzia che tutto funzioni, che il dolore non ci sia. La mia azione comporta una reazione. Non “allora va” ma… “allora”. Punto. Noi non potremmo mai dire: “Ecco trovata la soluzione, ecco che le cose vanno, ecco che allora va”. Questo non lo potremmo mai dire. Dovremmo fermarci all’”allora”. Un passo prima. Per poter fare un passo dopo.

Guido Savio

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