Titolo originale: Le crocheteur borgne.
Traduzione: Fidelio Bonaguro.
L’occhio per il bene e l’occhio per il male. Voltaire e i lati della vita.
VOLTAIRE
IL FACCHINO GUERCIO
titolo originale: Le crocheteur borgne
traduzione: Fidelio Bonaguro, dicembre 2002
I due occhi che possediamo non rendono la nostra condizione migliore; uno ci serve a vedere il lato buono della vita, l’altro i mali. E se molti sono quelli che hanno la brutta abitudine di chiudere il primo, pochissimi chiudono il secondo; ecco perché c’è tanta gente che preferirebbe essere cieca piuttosto di vedere tutto quel che vede. Beati i guerci che sono privi solo di quell’occhio cattivo che guasta tutto ciò che guardiamo! Ne è un esempio Mesrour.
Sarebbe stato necessario esser ciechi per non vedere che Mesrour era guercio. Dalla nascita lo era; ma era un guercio talmente contento del proprio stato che mai gli era passato per la testa di desiderare un altro occhio. Eppure non erano i doni della fortuna che lo avrebbero potuto consolare dei torti della natura, giacché era semplice facchino e altro tesoro non aveva che le sue spalle; ma era felice, e mostrava che alla felicità ben poco contribuiscono l’aver un occhio in più e il faticare meno. Danaro e appetito gli venivano sempre in proporzione all’esercizio che faceva; di mattina lavorava, mangiava e beveva di sera, di notte dormiva, e guardava ad ogni giornata come a tante vite separate, di modo che l’assillo dell’avvenire non gli rovinava mai il godimento del presente. Era (come potete vedere) guercio, facchino e filosofo, allo stesso tempo.
Vide per caso passare su di un carro scintillante una gran principessa che aveva un occhio più di lui; questo non gli impedì di trovarla bellissima, e, siccome i guerci non differiscono dagli altri uomini se non per il fatto che hanno un occhio di meno, se ne innamorò perdutamente. Forse qualcuno dirà che, quando si è facchini e guerci, non bisogna stare ad innamorarsi, specialmente di una gran principessa, e, per giunta, di una principessa che ha due occhi. Convengo che esista certo il timore di non piacere; tuttavia, siccome non vi è amore senza speranza, e che il nostro facchino amava, egli sperò.
Dato che aveva più gambe che occhi, e quelle erano buone, seguì per lo spazio di quattro leghe il carro della sua dea, che veniva trainato a gran velocità da sei imponenti cavalli bianchi. La moda a quei tempi, tra le dame, era di viaggiare senza lacchè né cocchiere e di guidare con le proprie mani. I mariti volevano che se ne stessero sempre sol solette, al fine di essere più sicuri della loro virtù; la qual cosa è in diretto contrasto con il sentimento dei moralisti, per i quali non vi è affatto virtù nella solitudine.
Mesrour non si stancava di correre accanto alle ruote del carro, volgendo l’occhio buono dalla parte della dama, stupita di vedere un guercio di una tale agilità. Mentre così egli dava prova di quanto si sia infaticabili per ciò che si ama, una bestia feroce, inseguita dai cacciatori, attraversò la strada maestra e spaventò i cavalli, che, presa la mano, andavan trascinando la bella in un precipizio. Il nuovo innamorato, ancora più spaventato di lei, benché lei per suo conto lo fosse già molto, tagliò le tirelle con ammirevole destrezza. I sei cavalli bianchi fecero da soli il periglioso balzo, e la dama, che dei cavalli non era meno bianca, se la cavò con la paura.
– Chiunque siate, gli disse, non dimenticherò mai che vi devo la vita; chiedetemi tutto quanto volete; tutto quel che ho è vostro.
– Ah! rispose Mesrour, a maggior ragione io posso offrirvi altrettanto; ma, nell’atto di offrirvelo, ve ne offrirei comunque meno, giacché ho un occhio solo, e voi ne avete due; un occhio che vi può rimirare, però, val meglio di due occhi che non vedono i vostri.
La dama sorrise, perché le galanterie di un guercio sono pur sempre galanterie; e le galanterie fanno sempre sorridere.
– Gradirei molto potervi dare un altro occhio, gli disse, ma vostra madre soltanto poteva farvi questo regalo; seguitemi comunque.
Così dicendo scende dal carro e prosegue la strada a piedi; scese anche il suo cagnolino e le camminava accanto, abbaiando contro quello stano figuro di scudiero. Sbaglio a dargli il titolo di scudiero, perché egli ebbe un bell’offrirle il braccio, la dama non volle saperne d’accettarlo, con il pretesto che era troppo sudicio; e presto vedrete come accadde che lei fu vittima della sua stessa pulizia. Aveva piedi piccolissimi, e scarpe ancor più piccole dei piedi, cosicché non era né fatta né calzata in modo da sostenere una lunga marcia.
Piedi graziosi consolano del fatto di non aver solide gambe, quando si passa la propria vita su di una sedia a sdraio in mezzo ad una folla di cicisbei; ma a cosa servono scarpe ricamate di lustrini lungo una strada sassosa, se quei piedini li può vedere solo un facchino, e per di più, un facchino che ha un occhio soltanto?
Mélinade (è questo il nome della dama, che ho avuto le mie buone ragioni di tacere fin qui, giacché non glielo avevo ancora trovato) avanzava alla bell’e meglio, maledicendo il calzolaio, lacerando le scarpe, scorticandosi i piedi e prendendo storte ad ogni piè sospinto. Camminava da un’ora e mezza circa con andatura da gran dama, aveva cioè fatto già quasi un quarto di lega, quando cadde in terra per la fatica.
Siccome aveva rifiutato il soccorso di Mesrour quando ancora si reggeva in piedi, lui ora si mostrava titubante nell’ offrirglielo, per timore di sporcarla toccandola; lo sapeva fin troppo bene di non essere pulito, la dama glielo aveva fatto intendere abbastanza chiaramente e il paragone che aveva potuto fare, strada facendo, tra sé e l’amata, glielo rendeva ancor più evidente. Lei indossava un abito di una leggera stoffa argentata, cosparso di ghirlande di fiori, che lasciava trasparire la bellezza del suo corpo; e lui aveva un camiciotto scuro tutto macchiato, bucato e rappezzato, in modo tale che le toppe si trovavano accanto ai buchi, e non sopra, dove, invece, sarebbero state più al loro posto. Aveva paragonato le proprie mani nerborute e coperte di calli alle due manine di lei, più bianche e delicate dei gigli. Infine aveva visto i bei capelli biondi di Mélinade, che trasparivano da un leggero velo d’organza, parte raccolti in trecce parte ricadenti in boccoli; e a confronto poteva porre soltanto un crine nero, irto e crespo, con null’altro ornamento che un turbante strappato.
Nel frattempo Mélinade cerca di rialzarsi, ma subito a terra ricade, e così rovinosamente ricade che quel che lascia vedere a Mesnour gli tolse quel poco di ragione che la vista del volto della principessa aveva potuto lasciargli. Dimenticò di esser facchino, di essere guercio, e non pensò più alla distanza che la fortuna aveva messo tra Mélinade e lui; a malapena si ricordò di essere amante, poiché venne meno alla delicatezza che si dice inseparabile dal vero amore e che ne costituisce talvolta il fascino e più spesso la noia; si servì del diritto alla brutalità che il suo stato di facchino gli dava, fu brutale e felice. In quel mentre la principessa era senza dubbio svenuta, oppure gemeva sulla sua sorte; ma siccome era giusta, di certo benediceva il destino per il fatto che ogni sventura porta con sé la propria consolazione.
La notte aveva steso i suoi veli sull’orizzonte, e nascondeva con la sua ombra la vera felicità di Mesrour e le supposte disgrazie di Mélinade; Mesrour gustava i piaceri dei perfetti amanti, e li gustava da facchino, cioè (ad onta dell’umanità) nella maniera più perfetta; ad ogni istante Mélinade era presa da nuovi mancamenti, e ad ogni istante il suo amante riprendeva forza.
– Potente Maometto, disse per una volta da uomo sopraffatto, ma da cattivo cattolico, la mia felicità, per trovar completezza, dovrebbe essere condivisa da colei che ne è la causa; mentre sono nel tuo paradiso, divino profeta, concedimi ancora un favore, fammi essere agli occhi di Mélinade quel che apparirebbe lei al mio occhio se facesse giorno.
Finì di pregare, e continuò a godere. L’aurora, sempre troppo solerte per gli amanti, sorprese Mersour e Mélinade nell’ atteggiamento in cui lei stessa avrebbe potuto esser sorpresa, un momento prima, con Titone. Ma quale fu lo stupore di Mé linade quando, aprendo gli occhi alle prime luci del giorno, si trovò in un luogo incantato accanto ad un giovane di nobil portamento, somigliante in volto all’astro di cui la terra attendeva il ritorno! Aveva guance di rosa, labbra di corallo, i grandi occhi, teneri e vivaci insieme, esprimevano e ispiravano voluttà; la faretra d’oro, ornata di pietre preziose, gli pendeva dalle spalle, e il piacere soltanto faceva scoccar le sue frecce; la lunga capigliatura, trattenuta da un fermaglio di diamanti, gli fluttuava libera sulle reni, e una stoffa trasparente, ricamata di perle, gli serviva da veste e nulla celava della bellezza del suo corpo.
– Dove sono, e voi chi siete? esclamò Mélinade nell’eccesso della sorpresa.
– Siete, rispose lui, con quel miserabile che ha avuto la felicità di salvarvi la vita, e che tanto bene si è ripagato delle sue pene.
Mélinade, lieta quanto stupita, rimpianse che la metamorfosi di Mesrour non fosse incominciata prima. Si avvicina quindi ad un palazzo splendente che attirava lo sguardo, e legge sulla porta codesta iscrizione: “Allontanatevi, profani; le porte che vedete si apriranno soltanto al padrone dell’anello.”
Si avvicina a sua volta Mesrour per leggere la stessa iscrizione; ma sono altri i caratteri che vede e lesse queste parole: “Bussa senza timore.” Bussò, e le porte subito si aprirono da sole con un gran rumore. Al suono di mille voci e di mille strumenti, i due amanti entrarono in un vestibolo di marmo di Paros; da lì passarono in una sala superba, dove da milleduecentocinquant’anni li aspettava un festino delizioso senza che nessuna pietanza si fosse ancora raffreddata. Si misero a tavola, e ciascuno fu servito da mille schiavi di superba bellezza; concerti e danze inframmezzarono il pasto, e, alla sua conclusione, compostamente tutti i geni, divisi in schiere diverse, in abiti tanto magnifici quanto singolari, vennero a giurar fedeltà al padrone dell’anello, e a baciare il sacro dito al quale lo portava.
Nel frattempo, c’era a Bagdad un mussulmano devotissimo che, non potendo andare a lavarsi nella moschea, si faceva portare l ’acqua dalla moschea a casa, in cambio di una piccola retribuzione che pagava al prete. Aveva appena fatto la quinta abluzione, per disporsi alla quinta preghiera, quando ecco che la sua serva, giovane stordita tanto poco devota, si sbarazzò dell’acqua sacra gettandola dalla finestra. Essa cadde sopra un disgraziato profondamente addormentato all’angolo della via contro un paracarro che gli serviva da capezzale. Inondato egli si svegliò. Era il povero Mesrour, che, tornando dal suo soggiorno incantato, aveva smarrito lungo il viaggio l’anello di Salomone. Aveva abbandonato i superbi abiti, e ripreso il suo camiciotto; la bella faretra d’oro si era mutata in uncini di legno, e aveva, per colmo di sventura, perduto un occhio per strada. Allora si ricordò di aver bevuto il giorno innanzi una gran quantità di acquavite che gli aveva assopito i sensi e riscaldato l’immaginazione. Fino a quel momento, aveva amato il liquore per gusto, cominciò ad amarlo per riconoscenza, e tornò allegramente al lavoro, ben risoluto ad usarne il salario per comprare i mezzi con i quali ritrovare la sua cara Mé linade. Chiunque altro si sarebbe rammaricato di essere un laido guercio dopo aver avuto due begli occhi, di ricevere i dinieghi delle sguattere di palazzo dopo aver goduto dei favori di una principessa più bella delle concubine del califfo, e di essere al servizio di tutti i borghesi di Bagdad dopo aver regnato su tutti i geni; Mesrour, però, non aveva affatto l’ occhio che vede il lato brutto delle cose.
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