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VIAGGIARE E CAMBIARE (PARTE SECONDA)

L’uomo viaggia da solo e diventa individuo.

Individuo

“L’uomo diventò un individuo nel momento in cui cominciò a venire meno la coesione sociale ed egli cominciò ad essere consapevole della differenza tra la sua vita e quella della collettività ritenuta fino ad allora eterna. La morte assunse un aspetto crudele, implacabile, e la vita divenne un valore assoluto e insostituibile. Amleto, spesso definito il primo individuo veramente moderno, incarna l’idea di invididualità, appunto perché teme la irrevocabilità della morte, sente il terrore dell’abisso” (Max Horkeimer, Eclisse della ragione)

A fare il viaggio è l’individuo. Il viaggio è appannaggio dell’individuo, che lo fa verso un altro e con un altro, ma prima di tutto dentro al proprio essere solo. Colombo è individuo perché sa viaggiare e nello stesso tempo “essere solo” da Gutierrez. Marta non è individuo perché guarda troppo sua sorella non come una compagna di viaggio ma come una reale usurpatrice. Marta non sa autorizzarsi, in quel momento, a stare senza.

Il pensiero “lagostino”

Vorrei continuare questo discorso sull’individuo del viaggio ricordando una pubblicità che ha fatto grande successo in televisione, quando ancora la reti erano due (non mi pare allora ci fosse la smania di cultura del terzo). La pubblicità è quella della pentola Lagostina. “la linea” di Bozzetto, dove un omino viaggiava su di una linea. Ogni tanto sorgeva ( diventava individuo) dalla indifferenziazione della linea che tornava ad essere tale quando il personaggio non aveva niente da fare o da dire. L’omino è individuo, ergo vive, solo nel momento in cui si muove. Se non si muove torna al mondo delle idee platonico. L’omino diventava Amleto, l’individuo moderno di Horkeimer nel momento in cui solo nell’agire. Ed io mi chiedo: e finchè pensava? dov’era? Quale era il suo status? Mi chiedo se la nostra uscita dal continuum della linea per essere individuum possa avvenire anche quando noi pensiamo. Oppure l’uomo è soltanto un momento, uno spazio, un frammento, una emergenza provvisoria che tende sempre a diventare lineea? Dobbiamo noi uomini “difenderci” da un risucchio continuo verso la indistinzione? E per questo può essere sufficiente il pensiero? La linea è la omologazione, il gruppo, la massa, il non-essere-io? Freud non aveva dubbi nel rispondere a questa domanda quando ha scritto Al di là del Principio di Piacere parlando di una “ pulsione di morte” che ci richiama all’indistinto, a da dove siamo venuti, alla linea insomma.

Mi sembra di poter dire, così in via provvisoria, anche senza aver risposto alle domande sopra scritte, che il nostro omino, se non altro, con il suo uscire con il suo corpo dall’indistinto, fa… succedere il tempo. Dà una scansione temporale alla sua presenza, c’è un “prima” e c’è un “poi”. Il tempo esiste in quanto l’individuo emerge da esso e ne sanziona l’accadere.

Io ritengo, rispondendo alle domande, che il nostro omino “esista” anche nel proprio pensiero, anche nella “non emergenza” dalla linea, ma solo nella accezione che il suo pensiero amorevole lo porti ad uscire dalla linea. Quello che fa Colombo e che Marta non ha fatto. Il pensiero è solo un pensiero d’amore. Un pensiero di accettazione della mancanza, della gamba zoppa, dell’irrealizzato di se stessi. Solo a partire da questo pensiero di assenza che noi realizziamo la nostra presenza, l’essere anche l’essere soli dell’individuum. Il nostro pensiero è un pensiero d’amore se lo viviamo come un pensiero di inizio. Non un pensiero di nascita, non un pensiero di partenza, non un pensiero della nostra storia passata, bensì un pensiero di potenza, di possibilità, un pensiero di inizio come… da qui in avanti, un pensiero di futuro. Solo così attrezzati si viaggia. Diversamente si sta fermi. Il pensiero è sempre un poter iniziare. Il pensiero di inizio recita: “Ce n’è anche per domani”. Il pensiero di inizio è quel pensiero che recita che posso iniziare proprio per il fatto che mi sono fermato. Proprio per il fatto che accetto la mia mancanza (in questo caso di moto). Noi abbiamo bisogno della sospensione dell’essere individui per tornare ad esserlo. Il sonno ne è la dimostrazione più evidente: dall’apparente non essere all’ essere. Ma l’essere è dato dalla ciclicità di questo evento. E qui il nostro tempo è un tempo che avviene. Abbiamo la necessità di finire per poter ricominciare. Questo è un pensiero.

Se il nostro omino non accettasse la mancanza, non accettasse il ritorno temporale all’indistinto non potrebbe naturalmente vivere la propria individualità. Il nostro omino, nel momento in cui non accetta la mancanza, ovvero che per esserci deve anche non esserci (prima e dopo), dele “rientrare” nella linea, sarebbe un performatico: un soggetto della ambizione pura che recita e chiama la presenza continua, il controllo continuo, il non saper essere meno e saper stare sotto.

Il nostro omino, il nostro “pensiero lagostino” aveva in Bruno Bozzetto il proprio principio di natura, la proria naturalità. Si affidava alla penna, e diversamente non avrebbe potuto fare. La nostra salute è l’affidamento, soprattutto quanto questo è inevitabile. Bruno Bozzetto ha creato il suo omino nella costante condizione di inizio. Può saltare fuori dalla riga per essere e tornare dentro (accompagnato dal suo pensiero magari su come saltare fuori un’altra volta. Questo è l’inizio così come io lo intendo. Se l’omino non amasse tanto il suo essere nella linea quanto il suo balzare fuori dalla linea, il suo viaggio andrebbe verso la perdizione. Perderebbe la realtà e il suo senso. L’omino, e qui tutti noi uomini, è chiamato a fare di necessità virtù.

L’iniziare

L’inizio è la carta in tasca che mi permette la ripartenza. Green, psichiatra e psicoanalistica, molto interessato alla psicoanalisi degli affetti scrive in un saggio contenuto nella raccolta La narrazione delle origini, a cura di Lorena Preta.”’Lo sai tu da chi sei nato?’. Tiresia rivolge questa domanda a Edipo, ripetendo, senza saperlo, le parole che un ubriacone aveva usato alla corte di Corinto trattandolo da ‘figlio putativo’. Tiresia mette in moto il primum movens che aveva fatto precipitare allora Edipo a Delfi, nel tentativo di mettersi in cuore in pace”. Il primm movens non è il luogo di origine, ma la spinta, la pulsione freudiana, che porta Edipo a continuare a muoversi nel suo viaggi di ricerca. Gli fa eco venticinque secoli più tardi T. S. Eliot quando scrive: “In my beginning is my end”. Nel mio inizio è compresa la mia fine.

Capiamo qui come, continua Green “ il problema del fantasma delle origini non è altro che il ritorno del problema dell’ inizio. E riguarda altresì il nostro rapporto con la morte”.

La nostra storia non è una storia temporale, non è un percorso a ritroso in cui, usando il pensiero retroattivo, noi possiamo, come in una moviola, riattraversare il viaggio che abbiamo fatto in avanti. La nostra storia è un “sempre presente” che proprio in quanto tale ci permette l’inizio, meglio, gli inizi, la successione di inizi che caratterizza il procedere della nostra storia futura.

Scrive ancora Green: “quale memoria più infedele di quella della infanzia, che aggrava maggiormente il difetto del sapere tramite quello dell’oblio del ricordo, non della realtà ma del fantasma stesso che gli dà forma? Eoppure questo orientamento volto costantemente all’indietro, che vuole conoscere le proprie origini, permane sempre: ‘Da quando siete qui? Dove eravate prima?E prima ancora? Perché siete venuti? Come ci siete arrivati?’”.

Distinguiamo allora il percorso della memoria che ci può certo portare al nostro “inizio” storico, per lavorare di pensiero sul nostro essere soggetto che possono iniziare ogni volta che hanno finito. E proprio perché hanno finito possono iniziare una nuova volta. Non mi considero un mistico e tanto meno uno gnostico, tuttavia mi sto accorgendo che noi esseri umani siamo composti da tanti numeri, dal due in su. Dalla contraddizione in avanti. E credo sia proprio la accettazione della contraddizione che ci muove da un inizio a una fine, da un inizio a una fine e così via. Basta avere il pensiero che la contraddizione è la fondazione della nostra salute. La nostra ambi-valenza o la nostra poli-valenza sono realtà che il nostro pensiero morale è chiamato ad abbracciare. E quanto dico pensiero morale dico giudizio morale. E quando dico giudizio morale dico che il senso di colpa non ha voce in capitolo. Il mio non essere uguale a me stesso non mi caccia automaticamente verso il senso di colpa. La nostra forza viene propria dall’ammettere. Forse anche dall’ammettere l’inammissibile. Che noi siamo tanti. Il pensiero di amore che noi abbiamo per noi stessi non è un pensiero di unicità ma di molteplicità. L’omino della pentola Lagostina, quanto esce dalla linea, diviene un individuum. Ma un individuo composto da tutti gli altri. Tutti gli altri della propria storia, tutti gli altri dei suoi incontri, tutti gli altri del suo viaggio. E la importazione degli altri dentro di me è l’atto di onestà che io posso fare e che posso usare per la mia salvezza. Mi importano gli altri e importo gli altri dentro la mia storia, che intendo, proprio per l’apporto degli altri, una successione di inizi.

Quando il bambino del fort-da di Freud, quello del gioco del rocchetto che riesce a controllare la propria angoscia, è il soggetto dell’inizio del pensiero. Ma quell’inizio è un pensiero storico solo se la possibilità di controllare l’angoscia il bambino la pone nella sua capacità e potenza di inizi successivi. La patologia è sempre la un a tantum. L’avvenire del pensiero, in questo caso del controllo dell’angoscia è il viaggio della nostra storia. Il bambino controlla l’angoscia attraverso un proprio pensiero: questa è storia. Il bambino ha iniziato ad essere individuo nel momento in cui ha fatto entrare la sua angoscia dentro il suo pensiero. Proprio così: la ha fatta sua. E quell’atto è un atto di inizio, foriero di altri atti perché sorretto da pensiero. Non è stata una semplice esperienza, non è stato un caso, non è stata una una tantum. Se la mamma va via un’altra volta… sono fregato? No perché ho il pensiero di inizio. Posso iniziare (qui ripetere) quello che il mio pensiero mi ha portato a conoscere. Il bambino, nel suo gioco, riproduce la situazione di angoscia, bitta via il rocchetto. E’’ come affermasse: io posso, posso riiniziare, posso ripercorrere la strada già fatta. Questo è il pensiero di inizio.

Volontà

E’ chiaro a questo punto, e non occorre più tanto girarci attorno, è un pensiero di volontà. Per questo dico che il pensiero è “voler pensare” e il pensiero è “sempre pensare al pensiero”. Marta questo non lo ha voluto pensare. T. W. Adorno, Minima Moralia: “ Il passaggio dalla affermazione alla negazione della volontà coincide con lo svolgimento del pensiero che tutte le volte che la volontà è impedita da un ostacolo ‘che si frappone tra essa e la sua meta originaria, soffre; mentre il raggiungimento della meta è soddisfazione, benessere, felicità’ (Schopenhauer)”.. E lo stesso discorso di Gutierrez e di Colombo: l’ostacolo non può essere superato da un pensiero malato o da una volontà malata. Nel momento in cui c’è impedimento alla volontà, la nostra forza viene meno.

Ma il mistico Maestro Echkart afferma che: “Volontà vera e perfetta sarebbe essere del tutto senza volontà, totalmente entro la volontà di Dio” ;. Ma poco oltre: “Infatti più l’uomo si sente debole più deve armarsi di forza e di vittoria, giacchè la virtù, come il peccato sta nella volontà”. Facile per noi intravvedere la contraddizione. Ma d’altra parte non esiste sito gravido di contraddizione quale la volontà.

Sulla volontà l’uomo non può più di tanto. Eppure è solo dalla volontà che esce la sua salvezza. La volontà verso la salvezza. E torniamo alla volontà impedita di Adorno, che procura sofferenza. Ma torniamo anche alla speranza di Colombo, che proprio dalla volontà è costituita. Volontà, non obbligo. Non è l’obbligo imposto alla volontà che ci fa viaggiare e tanto meno guarire

Guido Savio

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