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VIAGGIARE E CAMBIARE (PARTE PRIMA)

Il piacere sta nel viaggio.

Domande

Domanda più che banale ma fondamentale: è possibile il cambiamento? Risposta: certo, se di cambiamento si parla sempre dentro la relazione. Partirei da un assioma: la salute, la nostra salvezza, sta nella amministrazione del nostro pensiero (e sempre di pensiero produttivo si tratta) all’interno della barra di separazione della formula S/A. Tanto meno considereremo oggettiva la barra di separazione tra soggetto e altro e dunque la faremo funzionare con il nostro pensiero, tanto più noi saremo liberi di stare con un altro in una relazione di beneficio. Il cambiamento dipende dal cambiamento che attraverso il mio pensiero riesco a fare nel portarmi verso l’altro senza sentirmi impedito o limitato, o costretto, o castrato dalla presenza dell’altro. In soldoni. La presenza oggettiva della differenza oggettiva dell’altro io la posso gestire con il mio pensiero. L’altro che mi pianta i gomiti nel fianco quando siamo troppo stretti esiste per davvero. Sta a me (il mio pensiero) gestire le conseguenze delle ammaccature sulle costole.

E’ dall’uso del mio pensiero che io riesco a avvicinarmi o allontanarmi dall’altro superando la apparente rigidità del dato oggettivo.

Il pensiero non contempla nemici

Il mio pensiero pensa poi anche… a me stesso. Anzi, prima di tutto pensa a… me stesso. E qui il secondo assioma che riconosce la contraddizione e la divisione dentro di noi: il mio pensiero non può pensare a nemici interni. Io non posso pensarmi nemico di me stesso perché soggetto contraddittorio, debole, fragile. Io non posso pensare alla guerra dentro di me. Pena la perdita del pensiero di me. Pena la perdita del “rapporto” con me.

Attraverso il pensiero io amo la negatività che esiste dentro di me. Non per perseverarla e dunque renderla diabolica, ma per renderla anche essa moneta di scambio nel rapporto con l’altro. Essendo ogni forma di vergogna un atto di massima superbia.

Il mio pensiero dà la nota, il senso, il sapore alla mia realtà e non viceversa. Il mio pensiero lavora sull’oggettivo proprio nella azione di legalizzare, di rendere giusto il mio essere che è sempre un “essere-con-l’altro”. Non sto bene perché sto bene. Sto bene se penso me stesso nell’amore che il mio pensiero produce. Il quale amore è si frutto della mia storia (nel senso dell’averne ricevuto) ma non solo. Chi si lamenta di non cambiare mai lo fa per un difetto di pensiero (qui fede e speranza) e non per una deficienza delle esperienze di progresso, di soddisfazione o di guarigione. Dire “non cambio mai” equivale a dire “penso sempre (me stesso) allo stesso modo” da cui ne consegue che penso il mondo immutabile in se stesso. Considerando che il pensiero che io ho di me stesso non sempre collima con la realtà che avviene nella mia vita. L’ allineamento dei due fattori corrisponde alla guarigione. Siamo noi, che stiamo più o meno bene, dei guariti (non dei sani). L’allineamento corrisponde alla accettazione (amore) della “parte negativa” di cui io sono portatore e del suo scambio con l ’altro nella relazione.

La gamba che zoppica

La gamba che zoppica ha la funzione di fare camminare diritta l’altra e assieme di fare andare avanti il corpo intero. Il corpo intero andrebbe avanti in modo diverso se una delle due gambe non zoppicasse. Forse meglio. Tuttavia se c’è necessità che una gamba zoppichi essa deve zoppicare. Ciò lo si accetta attraverso il pensiero. Noi camminiamo dritti se accettiamo ( pensiero) di camminare con una gamba che zoppica. Essendo che può essere impossibile avere tutte e due le gambe che camminano diritte.

Come dire che la mia mancanza, la mia debolezza, la mia povertà d’animo, la mia povertà di spirito (la gamba che zoppica) mi fanno funzionare tutto il resto. Ma non nel senso che… “nessuno è perfetto”, ma nel senso che è solo il pensiero che consente l’andatura, di portare le nostre ossa e i nostri muscoli e tutto il resto da qualche parte. Il principio di necessità qui è sovrano. Il pensiero guarda ogni giorno negli occhi il principio di necessità che recita (più o meno) … “o così o così”.

Il punto non è che la gamba che zoppica venga sanata per forza, il punto è che io abbia pensiero che essa è funzionale al mio andare. Mio andare che potrebbe e potrà anche essere magari più spedito, certo, ma per intanto è così. Lì io sono chiamato ad amarmi. Il pensiero lavora sulla gamba della mia mancanza. Io posso pensare che sono uno zoppo, ma posso anche pensare che sono uno che va avanti per la propria strada proprio perché non mi è nemica la gamba che zoppica.

Il “là” dove vado è tale solo se io vivo nel pensiero che posso fermarmi. Altrimenti mi sentirei chiamato alla performance da un lato e al dover-essere dall’altro.

Dalle Operette morali di Giacomo Leopardi: Dialogo tra Colombo e Gutierrez: ad un certo punto il buon cortigiano spagnolo chiede a Colombo se sa dove sta andando, aggiungendo una neanche tanto velata accusa di irresponsabilità in quanto egli sta rischiando non solo la sua vita ma anche la vita di tutto i marinai (Ulisse docet). E Gutierrez formula questa domanda nella piena e assoluta fede, nonché sincera amicizia verso Colombo, di considerarlo un “viaggiatore”. E Colombo per tutta onestà risponde che alcuni segni sono cambiati e che forse un po’ di speranza è andata perduta ma che altri segni possono essere propizi e quindi la speranza può trovare nuova linfa. Ed in più, sincerità per sincerità, Colombo risponde che il piacere sta nel viaggiare, nell’essere presenti all’atto in cui si è. Nulla di più ma anche nulla di meno. Colombo non afferma che, in questa logica, la Santa Maria, con le sue sorelle, potrebbe girare su se stessa all’infinito, fino alla perdizione della meta. Bensì afferma che è proprio perché non c’è il dovere di un “là” a cui arrivare che “là” si arriverà. Per Colombo il viaggio non esclude la presenza della meta, ma di certo non la rende obbligatoria. Se io amo il viaggio arrivo dove il mio desiderio mi porta, ma se io finalizzo la meta nel senso della necessità corro il rischio di perdermi.

Sto usando questo esempio per dire che la parte mancante di noi stessi (in questo caso la non obbligatorietà della meta) è la parte più affidabile che noi abbiamo di noi stessi e quella sulla quale maggior leva possiamo fare.

Altro viaggiatore

“Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola. Marta era invece presa da tutti i servizi. Pertanto fattasi avanti disse:’ Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti’. Ma Gesù le rispose:’ Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc, 10, 38).

Quale sarà mai la cosa a cui Cristo si riferisce? Quale è l’unica cosa che conta e che Marta, con la sua agitazione non capisce? E’ l’esserci quello che conta, è essere dove si è per prendere quello che si può. Non è un invito all’egoismo o all ’intellettualismo quello del Signore, bensì l’indicazione di una cura contro la pre-occupazione, contro la programmazione, contro il dover essere e il dover fare, contro la finalizzazione eccessiva del proprio tempo e del proprio esserci. Certo che ci vuole anche chi apparecchia e sparecchia la tavola, certo che è necessario fare i conti con il principio di realtà, con la arrivabilità della meta, ma questo al di fuori di ogni pre-occupazione, al di fuori di ogni mappa preordinata. In quel momento sta avvenendo quello che sta avvenendo: laasciamolo avvenire.

Colombo sta avvenendo il proprio viaggio e lo lascia avvenire, anche nel pensiero che c’è qualcun altro che pensa a ciò a cui lui non pensa, tanto quanto Maria. C’è Marta che sparecchia la tavola… la volta prossima ci daremo il cambio se Marta si siederà ad ascoltare la parola del Maestro, cioè se Marta si autorizzerà a viaggiare per conto proprio traendo piacere dal viaggiare stesso.

L’insegnamento di Cristo è quello di non lamentarsi. E tanto mi basta. Marta non ha saputo fare leva sulla sua parte mancante (il non essere seduta accanto alla sorella in ammirazione del Maestro) ma si è solamente lamentata in quanto aveva una idea preordinata in testa. La qual cosa non è una disgrazia, intendiamoci bene, ma non può essa idea sopravanzare l’avvenire delle cose, non le può cambiare. E siamo mille miglia lontani da qualsiasi elogio del fatalismo.

Guido Savio

(Continua)

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