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IL FIGLIO E LA NOIA (QUATTRO)

QUARTO DI QUATTRO ARTICOLI

Petrarca e Kafka: due figli annoiati (quando non scrivevano).

Petrarca e Kafka: due figli annoiati

Petrarca, secondo me, è (non certo dal punto di vista letterario), il soggetto dello sgranfo e credo che non ci sia migliore espressione dialettale per descrivere le reazioni che un lettore può avere davanti a quello che Francesco scrive nel Secretum, che è appunto l’opera da cui prendo spunto per fare le sue riflessioni sulla noia.

Dico solo qualche parola sul Secretum. Si tratta di un testo latino del Petrarca, un dialogo tipo platonico ma con la accezione medioevale del sogno (cioè come se i contenuti di quanto si va discutendo venissero fuori da un sogno). I personaggi sono tre: lo stesso Petrarca, Agostino e un terzo personaggio che non parla mai ma che fa sentire bene la sua presenza; si tratta nientepopòdimeno che della Verità. Il tema della discussione è l’accidia, o che dir si voglia la noia, o che dir si voglia la voglia di fare niente.

E la definizione più bella, più precisa, più, se vogliamo poetica della noia (malattia, accidia, aegritudo) la dà proprio Petrarca nel Canzoniere (e qui mi sembra di tornare all’inizio delle nostre serate quando si parlava di contraddizione e si citava Paolo, ricordate… non faccio il bene che voglia ma faccio il male che non voglio…). Udite cosa afferma il nostra Francesco: “Conosco il meglio e al peggior m’appiglio”.

Petrarca, a mio modo di vedere, nei passi che leggeremo tra poco del Secretum ha una specie di sdoppiamento: fa il padre e anche il figlio (Agostino e lui stesso), ma anche analista e analizzato, maestro e allievo. Sembra che Agostino gli dica… ma dai, sbranati fuori, non vedi che la tua noia (aegritudo) altro non è che un piangerti addosso, coraggio, se vuoi ce la fai a rinunciare ai vantaggi che la malattia ti offre per diventare, finalmente un uomo. Ed invece Francesco niente, cincischia, fa il nesci direbbe il caro Giusti di Sant’Ambrogio (che poi era il maestro vero di Agostino).

L’accidia consiste nella divisione della volontà, nella incapacità del desiderio di desiderare il desiderabile. Io mi trovo con questa frase che torna in tutte le salse, in tutte queste serate l’avrò pronunciata cinquanta volte. Ammetto che sono ossessivo e dunque ripetitivo, ma significherà anche che questa asserzione, che bisogna desiderare il desiderabile, davvero è una frase portante per pervenire al piacere. L’intelligenza dell’essere figli è la limitatezza nella proposizione del proprio desiderio. Se si vuole troppo, se il figlio vuole troppo è un … bigolo! Non tutto e subito, non tutto e gratis, passetto per passetto. Anche se Lèvinas, che prenderemo in considerazione la prossima serata, parla della assoluta solitudine dell’uomo che desidera visto che non potrà mai “essere” l’altro che desidera.

Petrarca è il soggetto dell’inconciliabilità del proprio desiderio: si vedeva tutti i giorni in Campidoglio con cinquecento corone d’alloro in testa, acclamato poeta poetarum e nello stesso tempo amare umanamente la sua Laura e amare, per quello che poteva, oltre che se stesso, il suo Dio. Questo l’inghippo del Petrarca. L’inghippo anche dato dal fatto che c’è maggiore interesse là dove c’è il dolore, Dante docet. Il male costituisce una grande attrattiva per tutta la produzione artistica, letteraria, filosofica, teologica, mediatica, internettica e… chi più ne ha più ne metta.

Petrarca, di fronte alle accuse di Agostino di essere uno che si piange addosso, ha il coraggio di affermare che il suo male non dipende da lui. Coraggio perverso. Agostino gli dimostrerà che invece il suo male altro non è che una colpa, o per lo meno una sua responsabilità. Agostino non dice a Francesco che a causa di questo senso di colpa, di questa aegritudo, di questo smonamento insomma, non riesci ad avvicinarti a Dio o alla sua donna. No, taglia la testa al toro, non parla di “ senso” di colpa ma di colpa reale. Vedete? La psicoanalisi è nata secoli prima di Freud. Il “senso” di colpa è il modo migliore per fare della propria colpa reale una ideologia su cui giocarci o piangerci sopra.

Differenza tra senso di colpa e colpa è appunto il “senso” che fanno certi discorsi di autocommiserazione (“non ho fatto abbastanza per mio figlio, non sono stato abbastanza buono con mia moglie, non ho dato quello che potevo dare agli altri, non ho portato in cimitero mia madre”!!!), questi sono i discorsi che fanno senso perché ne mascherano altri, o meglio, un altro: la correzione. Gente che dice le frasi scritte sopra continuerà a dirle senza correggersi, senza rimediare il peccato. Continuerà ad andarsi a confessare proprio per avere qualcosa da confessare senza affrontare seriamente la questione della contrizione e della redenzione. Altro che senso di colpa.

Il riconoscimento della storicità della propria colpa è il momento in cui il soggetto diventa figlio, cioè un essere in moto verso qualcosa, mosso dal proprio desiderio, spinto verso la salvezza… In quel momento lì la colpa sarà passata dal suo stato patologico di “senso” di colpa e si starà già dirigendo verso il perdono, il perdono di se stessi, dunque verso la vera redenzione. La colpa richiede anche una punizione. Il bambino quando sbaglia richiede una punizione (che qualcuno gli dica che ha sbagliato) e tutti i sani poi sono quelle persone che hanno avuto qualcuno nella loro esistenza che ha detto loro: “Ehi, così non si fa, cambia registro!!”.

Agostino dice a Petrarca: sta bene attento che finchè tu ti crogioli nel tuo senso di colpa farai fatica a lasciarti dietro le tue pare (proprio così, da slang giovanile). Parla Francesco: “Ma non posso dirlo senza lagrimare. Finora è stato invano e questa è l’ultima possibilità che mi spinge a contrastare la tua tesi (quella della responsabilità di Francesco sulla sua noia) con la quale affermi che nessuno è precipitato nella infelicità se non volontariamente e che è infelice solo chi vuole, del che tristemente faccio contraria esperienza in me”. Petrarca insomma non ci sta ad ammettere la sua responsabilità nella eziologia del proprio male. Agostino gli ha appena detto che chi è precipitato nella infelicità lo ha fatto volontariamente: Francesco nega. Nega dunque di essere figlio, cioè responsabile.

Figlio che, se gli viene la… depressione non può andare da Maurizio Costanzo a fondare il Club dei Depressi, con tanto di patente e di Albo magari, magari anche la pensione. Dunque Petrarca confuta Agostino, ma Agostino gli risponde per le rime. “Questo è un vecchio lamento che non ha mai fine. Eppure benchè finora abbia tentato invano non cesserò di inculcarti che non si diventa né infelici né triste chi non voglia. E negli animi umani una tale perversa e pestifera voluttà posta a ingannare se stessi che nulla di più funesto è compreso nella vita”. E’ sempre Petrarca che scrive. Questo non l’ha scritto Freud ma Francesco Petrarca nel milletrecento e… vattela a pesca.

Negli animi umani c’è la perversa volontà e voluttà di ingannare se stessi. Questo è il punto. Non ce la raccontiamo giusta. Il malato non se la racconta giusta, non vuole leggere correttamente la propria realtà. Quando comincia a leggerla giusta comincia anche a guarire. Ovvero non c’è principio di imputazione. Ci giriamo le carte a nostro favore. Responsabilità. Poi nella responsabilità su quella che siamo e facciamo ci sono le misure, ci sono le spanne, ma il principio che… io c’ero è inconfutabile.

Sta attento, dice Agostino a Francesco Petrarca perché il soggetto, l’Io, che qui noi trattiamo come il principale benefattore di se stessi, può diventare il principale nemico di se stessi, solo che ci si metta di mezzo la menzogna nel non voler riconoscere la propria parte, la propria responsabilità. In questo senso figlio è responsabilità, è cioè verità, quella umana, quella a cui da modesti esseri umani ci si arriva vicini.

Chi si difende dal partecipare alla propria limitatezza diviene il peggiore nemico di se stesso. E lo diventa perché non ha più la capacità di curarsi, di prendersi cura di sé in quanto egli stesso ha tradito se stesso divenendo menzognero sulla propria limitatezza. La guarigione è una questione morale. Non è la soluzione dei sintomi ma l’ abbraccio della sincerità del soggetto presso se stesso. Continua Agostino: “Tutto ciò che è caratteristico di quella che ho chiamato accidia… tutte le cose tue ti dispiacciono… la accidia è il male del desiderio in quanto illusione (tuae omnia tibi displicet)”. La accidia è una colpa che è identica ad una malattia. La malattia di non saper dare senso e fine. Il bambino dà senso alla scopa che cavalca e la vive come un cavallo, un pony magari, ma ci galoppa sopra, e in questo modo prova piacere. Ha creato una trasformazione. Ha lavorato. Ha prodotto una soluzione e tutto ciò fa sì che egli abbia un buon pensiero di se stesso. Il bambino per questo percorso si piace.

Ancora il Secretum. Le “Catene d’oro”. Agostino afferma che la malattia sono “catene d’oro”. Dunque dolore in quanto malattia ma anche vantaggio in quanto oggetto prezioso. Disfarsi dunque è difficile: si tratta di acquisire la libertà però gettando via le catene d’ora (quello che Freud chiama il “tornaconto della malattia”).

Dice Agostino della responsabilità: “Temo assai che questo raggiante splendore delle catene, allettando gli occhi lo impedisca (l’oro non ti fa capire che sei prigioniero)… come un avaro fosse in prigione avvinto da catene d’oro: vorrebbe sì scioglersi me senza perderle.” E Freud scopre il tornaconto della malattia. Le catene d’oro sono un impedimento, però se le molli perdi anche la bellezza dell’oro. La psicologia ha un solo motivo di essere: quello che nello star male c’è un vantaggio.

“Ahimè – risponda Petrarca – ero più infelice di quanto credessi. Mi allacciano due catene che non conosco”. Riprende Agostino: “Le conosci benissimo, senonchè, conquiso dalla loro bellezza, non catene ma tesoro le giudichi”.

Il male, come la malattia, non è un non sapere ma un non voler sapere.

Guido Savio

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