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Del dolore (e della sua nobiltà quando è vero) secondo

Seconda parte: il dolore, per non fare male, non deve essere sentito come un valore.

La questione del valore

Certa filosofia morale e certa riflessione religiosa, anche se con modalità diverse si sono spinte al punto di intravvedere, se non addirittura chiaramente intendere una forma di valore all’interno del dolore. Ora, il dolore in sè e per sè non può essere considerato un valore, e quando esso lo diventa siamo pur certi di trovarci all’interno della perversione. Il provare sofferenza, fisica o morale non può assolutamente costituire meta del desiderio in un soggetto sano; anzi, il lottare contro il dolore è la prima opportunità che il soggetto si dà di vincere il dolore stesso.

Del dolore non si può fare un valorismo, così come non può esserci una filosofia pisitiva del dolore. Il dolore è pur sempre e prime di tutto debolezza. Semmai il dolore è una opportunità, una strada verso una conoscenza diversa di se stessi, ma certo mai un valore a se stante. Considerando poi che quel tipo di valore che è costituito dall’inconscio è tutt’altro che un valore positivo.

Ci si chiede se tutto il positivismo e addirittura il valorismo che certa psicologia e psicoanalisi fanno dell’inconscio sia poi alla fin fine giustificato. L’inconscio permane come luogo del dubbio e dell’incertezza, del sospeso, del non conosciuto, a volte del contradditorio, della paura e della angoscia che possono impadronirsi dell’umano. Qui la precarietà, ossia l’impossibilità dell’appoggio ad un valore interno che sia inscalfibile dalla fenomenicità del mondo e dalla mutevolezza del tempo.

Prendiamo ad esempio il dolore vissuto dai personaggi del romanzo. La scrittura ha la capacità di mandarci immediatamente ad un universale, il vissuto del personaggio si staglia nella categoria dell’universale. Siamo presi dal pensiero, leggendo, che questa storia, questi personaggi, queste situazioni sono già state praticate, visitare, rivissute, conosciute da “altri”, sono già diventate cioè patrimonio comune. Entrare nel romanzo è un atto di omologazione, è un partecipare di un Tutto Universale. In questo senso ci sentiamo di dire che la lettura è rapporto intimo e profondo con Altro. Altro in quanto possibilità di relazione e confronto con una Storia con cui altri reali si sono messi in relazione. Ma soprattutto Altro in quanto la lettura è una forma di moto al di fuori della propria identità, forma di relazione con l’Altro che la parola costituisce, sempre.

Il dolore e la morte di Nikolài Lèvin in Anna Karènina di Lev Tolstoj rappresenta un capolavoro letterario. Il dolore è ineluttabile e attorno al dolore ruotano stati d’animo e di pensiero di tutti i personaggi. Di fronte al dolore del moribondo consumato dalla tisi si intende benissimo come la sofferenza sia l’universale che rende gli uomini uomini, ma anche che essa non può assolutamente costituire un valore in sè e per sè. L’interpretazione cristiana della sofferenza come espiazione e preparazione alla felicità eterna non trovano spazio nel corpo di Nikolài Lèvin nè nel vissuto e nel pensiero che di questo corpo ormai morto stanno avendo il fratello Konstantìn e sua moglie Kitty.

“Evidentemente si compiva in lui (Nikolài) quella rivoluzione che doveva fargli guardare alla morte come al soddisfacimento dei suoi desideri, come alla felicità. Prima ogni desiderio singolo, suscitato da una sofferenza o da una privazione, come la fame, la stanchezza, la sete, era soddisfatto con una funzione del corpo, ma adesso la privazione e la sofferenza non ricevevano soddisfazione, e il tentativo di soddisfazione suscitava una nuova sofferenza. E perciò tutti i desideri si fondevano in uno solo: il desiderio di liberarsi di tutte le sofferenze e della loro fonte, il corpo. Ma per esprimere questo desiderio di liberazione egli non aveva parole, e perciò non ne parlava, ma secondo l’abitudine voleva la soddisfazione di quei desideri che non potevano essere soddisfatti. ‘Mettetemi sull’altro fianco’ egli diceva, e subito dopo pretendeva che lo mettessero come prima. ‘Datemi del brodo. Portate via il brodo. Raccontate qualche cosa, come mai state zitti?’ E non appena cominciavano a parlare, chiudeva gli occhi ed esprimeva stanchezza, indifferenza e disgusto.” ( Lev Tolstoj, Anna Karènina, Rizzoli, Milano, 1994, pp.755-756).

Qui la sofferenza ha fatto saltare qualsiasi forma di relazione e la morte è rappresentata come u affare privato, terribilmente privato. A morire si muore soli, diventa una frase la cui universalità diventa schiacciante e la scrittura ci consente questo rispecchiamento, consente la visione ma anche il toccare di quella che è la angoscia più profonda e insanabile: la solitudine del morire.

Di fronte a ciò una cosa l’uomo capisce: c’è un qualche cosa che non si comprende, e c’è un qualche cosa che non può essere ridotto a comunicazione. Qualsiasi spiegazione del dolore è troppo incerta rispetto alla assoluta privatezza dell’esperienza che esso rappresenta.

Ritengo che in nessun luogo della umana esperienza si verifichi tanto forte carenza non solo di comunicazione ma anche di relazione tra Soggetto e Altro come nel dolore. La comunicazione è sempre aleatoria, meramente descrittiva di una fenomenologia, magari, ma mai conprensiva di tutto ciò che avviene in un individuo che sta soffrendo nell’anima o nel corpo (e spesso è in tutte e due).

Guido Savio

 

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