Prima parte: il dolore nella sua accezione più positiva e nobile. Il viverlo essendo inevitabile eluderlo.
Sul dolore
Premessa
Ricopiato in foglietti di carta e cucito all’interno delle divise militari di alcuni soldati tedeschi morti a Stalingrado, ma anche di prigionieri ebrei nei campi di sterminio nazisti è stato trovato il seguente scritto:
Non temerai i terrori della notte nè la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre lo sterminio che devasta a mezzogiorno.
( Sal. 90, 5-6)
Le parole del Salmo costituiscono la professione della speranza che al dolore e alla morte, che del dolore costituisce la propaggine ultima e non escludibile, l’uomo sappia opporre un proprio atto di volontà: quello di non soccombere alla paura. Il Salmo non lenisce la portata terrifica delle tenebre o della peste o della freccia ma esorta l’umano a saper perdere con dignità quella partita rappresentata dalla vita che per essere conclusa come vittoria deve essere accettata come sconfitta.
Il pudore
Il pudore è una virtù di per se stessa, se poi è riferito al dolore, al modo di vivere e sopportare il dolore, essa diviene una somma virtù. Il pudore costituisce una virtù in quanto è la forma principe di autoconservazione. Il pudore è la attestazione di un atto di volontà continua dell’uomo che è il proprio giudizio (atto giuridico) a conformare il suo rapporto con la realtà. In più è la dichiarazione che egli non perisce (se vuole) davanti ad essa in nessun modo, anche quando il dolore raggiunge la conclusione della propria sostanza, cioè la morte.
Autoconservarsi significa lavorare di giudizio, proprio darci dentro affinchè la realtà, nella propria conformazione più acuta e penetranteche è il dolore, non sia mai un evento inestimabile e intangibile da parte dell’umano. Io lavoro di giudizio quando nel dolore so trovarmi una realtà altra oltre a quella del dolore, che in ogni caso so non essere cancellabile nè smentibile. Se io “volessi” cancellare o smentire la realtà del mio stesso dolore non lavorerei certo per la mia autoconservazione.
Il giudizio di fronte al dolore è un giudizio produttivo, che fa nascere, ma meglio sarebbe dire, fa saltare fuori l’ altro possibile , ciò che oltre c’è e la cui strada per poterlo raggiungerlo è al momento rappresentata dal dolore. Il mio soffrire mi dà il segno del limite e mi dà anche il tratto esatto che io non posso superare. A questo punto, senza il giudizio di ulteriore potere, io soccomberei davanti alle regole fenomeniche della realtà, in quanto non è sindacabile quello che il fenomeno afferma. Tuttavia il mio pensiero mi sorregge, mi sostiene, mi conserva se è possibile la pratica del pudore. Pudore come vero e proprio nascondimento dell’arrendersi sul piano della propria produttività. Nascondendo il mio arrendermi io non mi arrendo. La modificazione della realtà (faccio della realtà una realtà vivibile) spetta al soggetto nella forma giuridica che egli riesce a dare al proprio pensiero come lavoro di creatività. So che è il mio non arrendermi la meta e so anche che l’arrendermi sarebbe la mia patologia (patologia che non ha nulla a che fare con il dolore che sto patendo): dunque il mio sopravvivere sta in pugno alla mia volontà di essere pudico, soprattutto con me stesso.
Ma il pudore è una virtù difficilmente sostenibile: esso è inversamente proporzionale alla acutezza della pena da sopportare. L’uomo che sta soffrendo molto, soffre anche per la incomunicabilità del proprio dolore. Il nostro dolore non è mai capito fino in fondo e la sua comunicazione si pone come un problema nel problema. La ultraclassica espressione “Se uno non ha provato non può capire” può anche avere un fondo di verità in quanto mai il soggetto è tanto soggetto privato e anche isolato quando sta soffrendo. Il senso di lontananza, di esclusione, di diversità, di impotenza, di rabbia è difficilmente comunicabile vista la intensità con cui l’esperienza del dolore è da noi vissuta. La comunicazione è difficile anche perchè lo stato di sofferenza ” cambia” il soggetto, lo pone in prospettive e condizioni diverse, a volte non preventivate, per cui il soggetto “tira fuori” per far fronte al dolore anche quello che prima egli non conosceva di se stesso. L’uomo che soffre è sempre un po’ un uomo nuovo anche di fronte a se stesso. L’esperienza del dolore può rivelarsi una tabula rasa in ui il soggetto si trova a scrivere, magari con una mano che egli non riconosce come sua. Per questo il pudore è una virtù, in quanto pone delle regole all’interno della stessa questione della comunicazione del dolore, regole conformate dal giudizio del soggetto che le promulga non per distruggersi (la autocommiserazione, ad esempio, è una forma di autodistruzione) ma per conservarsi, non il più a lungo possibile, ma il meglio possibile.
Nella nostra civiltà lo spettacolo dell’altrui rovina è un dato di fatto che ha preso piede in quantità e forme impressionanti. Spettacolo significa che l’altrui dolore è “fatto vedere” senza il minimo pudore. Sappiamo che chi soffre produce come primo desiderio quello, almeno, di soffrire in pace. Invece nel soffrire dell’altro c’è una invasione di occhi, di orecchie, di parole, di microfoni, di telecamere. Non ci vuole molto a constatare che quando vediamo nello schermo televisivo un individuo che soffre, il primo pensiero che facciamo è che la sua dignità è andata a farsi friggere. Un dolore si aggiunge al dolore, ma lo spettacolo è stato prodotto. Spettacolo della comunicazione impossibile: quello lì che sta soffrendo non potrà mai farci capire ciò che sta provando ma noi trarremo, alla fin fine, una rassicurazione dal confronto tra il suo dolore e il nostro star bene. Ciò avviene “in automatico”, proprio senza che noi ce ne “vogliamo” accorgere. Anzi, lo spettacolo è dato proprio dalla constatazione della assenza in noi della sofferenza stessa, anche se nessuno è spettatore puro di fronte al fenomeno.
Dolore e precarietà
Il dolore è un’esperienza che allontana dagli oggetti e che proprio per questo ne determina un forte bisogno. A partire da una contatazione di precarietà, esso determina una spinta alla appropriazione, alla penetrazione, alla incorporazione nel momento in cui insorge il pericolo di perdita. Nessuna esperienza umana come il dolore rimanda alla dipendenza di tipo oggettuale a partire da una ineludibile constatazione di precarietà. La dipendenza di tipo oggettuale tuttavia non è convogliata verso oggetti precisi (anche se un oggetto potrebbe essere la vita stessa), ma manifesta chiara la propria tipologia: contemporaneo alla esperienza del dolore è il pensiero di perdita e con esso un legame, uno stringersi alla cosalità e alla dipendenza dalle cose.
Se io soffro voglio cose che costituiscano opposizione o compensazione al mio soffrire in quanto in un certo qual senso penso che l’oggetto possa sanare prime (non meglio) lo stato di precarietà indotto dal dolore. La mia logica è quella del bisogno che mi rimanda diretto all’oggetto e non già quella del desiderio che inevitabilmente mi rimanda alla temporalità e alla consumabilità. Nella logica del desiderio io devo accettare che posso anche rimanere senza, o che l’altro che è con me segue proprie forme e leggi diverse dal mio desiderio stesso. Ciò non accade nella relazione cosiddetta oggettuale nella quale c’è sempre illusione di possesso, di governabilità, di controllo della alterità stessa e soprattutto di negazione della indipendenza temporale.
Chi soffre vorrebbe fermare il tempo affinchè gli oggetti non gli scappino.
Pensiamo al profondo senso di precarietà che invade l’uomo che soffre, precarietà come atto dell’animo, che però non è affatto sconosciuto anche in momenti di serenità, se non addirittura di gioia. Bene, la precarietà mi rimanda direttamente alla questione del tempo. Il tempo del dolore è un tempo particolare che il sofferente tende a oggettualizzare. Il tempo allora diviene esclusivamente quello cronologico (e non già quello della consumazione o quello delle possibilità) che sfugge come la sabbia tra le dita della mano e lascia nel palmo il nudo pensiero della morte. Il tempo si sustanzia per effetto di un meccanismo difensivo del sofferente che lo intende esclusivamente quantificato, e la quantificazione del tempo del dolore è quello della “mancanza di vita” o di sospensione della stessa, o di furto del tempo stesso come spettanza di vita che è inevitabilmente diminuita.
Il soggetto invece che sa lavorare di giudizio, che sa pensare all’ oltre contenuto nella sua stessa condizione di soffrire, il soggetto che elabora e rende giuridica la sua stessa condizione di sofferente, costui non intende il dolore come mancanza di possibilità o di opportunità, costui non intende lo spettargli della vita nel termine cronologico, non vive il dolore come furto di opportunità, bensì come offerta di alterità, offerta di esperienza altra e fortemente cifrata di caratteri innovativi. Il dolore (pur facendo esso male), nel togliermi possibilità di un certo tipo da un lato, in qualche modo mi dà una chance di cui prima non disponevo dall’altro: a me sta il saper cogliere lo spostamento della offerta di possibilità. Chi dal dolore, ad esempio, è costretto a vivere in uno spazio angusto e oggettivamente ristretto di opportunità, se vuole ha la possibilità di allargare la angustia del proprio spazio con la stessa soddisfazione con cui prima si sarebbe diretto verso spazi più ampi e diversi. Sia lo spazio che il tempo, di fronte al pensiero, sono infinitamente divisibili: la condizione del dolore è tra le condizioni della esperienza umana quella che maggiormente spinge a frazionare tempo e spazio. La precarietà dell’essere, che pure è un dato inconfutabile, può trovare pensiero di rasserenamento nel momento in cui il soggetto sa lavorare di cesello nel nucleo della propria realtà spaziotemporale.
Guido Savio
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