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AMORE PER SE’ E FELICITA’ (ARTEMISIA II PARTE)

L’amore per sè è il punto di partenza per giungere a salute e soddisfazione. Amore per sè che che introduce l’amore per l’altro. Con un semplice pensiero: “Con l’altro è facile”.

E la potenza inevitabilmente porta, comporta un pensiero di fiducia e di amore di noi verso noi stessi. Ad essere potenti lo si è se c’è un pensiero positivo verso noi stessi, e sentite che cosa afferma Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia : “Dite un po’ di grazia: può voler bene agli altri chi non vuol bene a se stesso? Può andare d’accordo con gli altri chi non sa trovarsi d’accorto seco medesimo. Può recare piacere agli altri chi riesce a se stesso gravoso e molesto?”. Qui Erasmo traccia una ulteriore distinzione tra la salute e la patologia: chi si presenta con il muso lungo, gravoso, bavoso, molesto nei confronti degli altri non riceverà niente. A chi ha sarà dato… etc. etc.

Allora questo uomo che noi stiamo cercando, questo uomo moderno, questo uomo forte (e debole) perché sa di avere potenza non lo possiamo trovare nell’amore che egli ha per se stesso, e questo amore maturo non può essere quello che comunemente si dice il sano egoismo? Quello che Barcellona chiama nel suo libro che abbiamo già visto egoismo maturo?

E scrive ancora Barcellona: “Poiché l’egoista ha appreso il limite e la differenza “della esperienza di sé non considera più l’altro come una minaccia e non ha neppure il bisogno di mettersi sotto la protezione di una universalità trascendente(…) L’ egoista matura ha raggiunto la consapevolezza del carattere simbolico della sua presenza nel mondo e perciò può sopportare il peso della sua nudità empirica e nello stesso tempo godersela nella sua immanente intenzione di trascenderla”.

Questo egoista è quello che sa consumare perché sa trascendere. Vede e pratica l’aldilà. L’egoista, almeno nel senso in cui lo intendiamo noi, non è quel tizio che mette tutti i suoi averi nel salvadanaio, nella musina, ma quello che il danaro lo fa girare, circolare, produce attrito e dunque consuma.

E questo uomo, quello dell’egoismo maturo, o moderno, se vogliamo intendere, non è quello che si stanca, che dice che fatica nel postare avanti le sue cose, anche se si tratta di tirare la carretta, ma è colui che non si affatica in quanto è sorretto dal pensiero che può, può sempre, può ancora. Ma ad un patto però, la questione gli funziona, le cose gli andranno veramente bene a questo signore, se al tutto egli saprà accompagnare un ulteriore pensiero: il pensiero di facilità.

Io mi sto via via convincendo che le persone che si lamentano continuamente della difficoltà delle proprie mansioni, dei propri impegni, delle proprie responsabilità è gente che si frega con le proprie stesse mani. Ed ora cerco di spiegare il perché. Io posso dire “è difficile” se dentro alla mia testa, se davanti ai miei occhi ho una scala graduata e mi dico, osservando i numeri della scala, “io devo arrivare da qua a… qua”. Io posso dire “è difficile” se dentro di me ho fatto delle azioni che sono chiamato a svolgere (qui il concetto di Beruf) un dovere, una coercizione, una… chiamata alla dimostrazione. Se io introduco le cosiddette “tacchette” nel mio comportarmi, ma anche nel mio lavorare, nel mio produrre e le devo per forza “ rispettare” allora farò sempre fatica. Se io mi pongo l’obbligo della ineludibilità dei risultati allora verserò tanto e… ineludibile sudore!

Questo non vuol dire che ognuno di noi si pone delle mete, vive il desiderio di raggiungere certi risultati. Io sono convinto che se noi ci liberiamo dal pensiero di obbligatorietà, di ineludibilità dei passaggi intermedi, delle tacche intermedie, del “devo per forza realizzare quella cosa lì per poi realizzarne un’altra”, solo allora quello che facciamo (lavoro e amore) lo faremo in scioltezza. La scioltezza è data solo dalla libertà con cui facciamo le cose. E libertà è sempre libertà da qualcosa, nel nostro caso dal dovere. E’ il dovere uno dei nostri più acerrimi nemici!

Il pensiero di facilità non è un pensiero di relativismo, di disinvestimento, di… pellagra. Anzi. E’ un pensiero che dice: faccio quello che faccio, faccio fino a dove arrivo, sono quello che sono. Libero da qualsiasi pensiero di dover-essere. Anche l’etimo ci aiuta. La parola facile deriva dal latino, è una contrazione della parola facibilem, la quale a sua volta significa “che si presta ad essere fatto”. La traduzione di facibilem non è “che deve essere fatta per forza”, il latino per indicare questo concetto ha una altra espressione: faciendum, ovvero che “deve essere fatto”. Che si presta ad essere fatto significa che il mondo, gli altri mi chiamano sì con la loro presenza a rispondere in qualche modo alle loro domande, ma significa anche che le cose si fanno da sole, che senza che io ci metta affanno… qualcosa avviene. Vorrei qui sottolineare la feconda e felice accezione passiva della facilità: che si presta (si mette a disposizione) ad essere fatto. Facciamoci guidare dalla natura e anche dalla necessità e le cose noi le aiuteremo a farsi… E vi garantisco che io sono un tipo lontano mille miglia dal fatalismo! Il meccanismo va avanti da solo, non è necessaria la mia sorveglianza ventiquattrore su ventiquattro, il meccanismo può procedere da solo. Abbiamo visto, parlando di meccanismo, che il corpo meno lo penso e meglio lui funziona. Meno lo lego a standard e clichè, più lui va per la sua strada. E io con lui.

Io penso che all’interno del discorso della facilità c’è quello della naturalità: è normale che sia facile, purchè io scenda dallo sgabello, mi abbassi al livello che sono, diventi la mia natura e accetti di fare quello che sono: nulla di più e nulla di meno. Le moderne patologie sono determinate sempre dall’”in più”. Vorrei qui inserire all’interno del mio sentirmi un homo faber cioè che fa le cose facili, che le rende facili, vorrei inserire un pensiero di passività: che anche gli altri, il mondo, la alterità mi porta, mi guida, fa la sua parte, mi pone in una condizione di essere portato, guidato, tutto sommato nello stato di essere amato. Ma io sarà amato se mi metto nella condizione di esserlo, e abbiamo già visto come sia più difficile farsi amare che amare.

Mi conforta in questa teoria una riflessione che ora vado ad esporre. Io pongo come opposta alla parola facilità la parola performaticità (fare le performance, insomma!). La performance secondo me è la disgrazia dell’uomo moderno. Performance è giusto il contrario di facilità, in quanto chi si sente chiamato alla performance è inevitabile che si senta anche preso per il collo. Performance significa che io “devo” dare dimostrazione della mia potenza. Ma se la potenza la “devo” dimostrare mi accorgerò ben presto che la mia sarà solo impotenza. Noi sappiamo che le performance sono destinate a fallire: non i cento metri, non il lancio del disco o del giavellotto, ma la performance che io metto nella relazione, la performance tra me e te è sempre destinata al fallimento (leggasi frustrazione e impotenza per me). E non tocchiamo qui la particolare modalità della performance nell’ambito dell’amore o del rapporto sessuale in quanto è proprio qui che la combinata prepotenza/impotenza miete i maggiori risultati!

Nella performance non c’è relazione se non con me stesso. Io voglio esprimere la mia potenza ma non per farne ricchezza anche per l’altro che è con me in relazione, ma per dimostrare qualcosa a me stesso: qui io scivolo e cado per terra, qui io divento performatico e… antipatico! Se io voglio un riconoscimento o una approvazione o una lode o un consenso da parte dell ’altro (entro certi limiti) rinuncio ad una limpida relazione con l’altro, in quanto mi servo dell’altro per un interesse, un percorso che è tutto mio, un vantaggio privatistico.

Pane al pane e vino al vino: se io dico che ho fatto l’amore una, due, cinque, dieci volte… significa che non ho fatto l’ amore con una donna ma con i numeri, i numeri della prestazione. Cioè ho fatto l’amore con me stesso. Azione che, pane al pane e vino al vino… si chiama con un altro nome. Chiaro insomma: chi la mette sulla performance ha una ed una sola paura, quella di essere impotente. Più chiaro di così si muore. Impotente è chi non ha relazione. Rapporto è tutto, anche, avendolo con Dio, dare una esistenza a Dio. Alcuni giovani che vengono a parlarmi delle loro cose per definire certi loro stati d’animo, certi loro pensieri, certe loro impasses le chiamano “seghe mentali”. Nulla di più esatto: le mente che gode di se stessa. Performance è il corpo che gode di se stesso, non del rapporto con l’altro. Il rapporto apre tutte le strade verso l’altro. La performance le chiude inesorabilmente tutte, tutte in faccia a chi fa finta di aprirle.

Garantisco che molti matrimoni tirano avanti sulla performance. Uno o l’altro o tutti e due i “contraenti” del matrimonio vogliono dimostrare a se stessi che non hanno fallito e dimostrano, dimostrano a se stessi questa loro verità. La performance è… non averla persa. Non interessa nulla dell’altro, del rapporto; ma non interessa nulla neanche di se stessi… basta l’ apparenza, l’apparire, il dovere, la performance. Appunto… seghe mentali. Voglio dimostrare che sono capace di stare insieme con una donna. Non mi interessa niente di lei, mi interessa solo la mia partita, la mia scommessa, che devo vincere a tutti i costi: questo è il dramma. E per gente che ragiona in questi termini (ora mi accorgo in modo inequivocabile) il rapporto, il matrimonio è morto e sepolto.

Allora, tornando alla facilità, vorrei riportare qui una frase che mi risuona spesso nelle orecchie ascoltando le persone. La frase è questa: “Mi è venuto facile dire o fare cose che un anno fa non mi veniva né di dire né di fare”. Frase splendide, che danno il senso del progresso e della guarigione. Queste frasi vengono pronunciate quando è superato il senso del dovere, il senso di dover dimostrare qualcosa. Allora le cose, i risultati vengono semplici e facili. Prepotenza e impotenza sono la stessa cosa nella performance in quanto il performatico si muove propotentemente perché ha sotto un pensiero di impotenza. Torna il discorso della tacche, dei risultati intermedi, dell’arrivare per forza qua e là. Allora le cose sono difficili, anzi, impossibili. Se felice è “colui che si contente della propria parte” questo non è certo un performatico (e neanche un rassegnato!). Noi siamo potenti nell’accontentarci.

La facilità, ricordiamo, dall’etimo è… “mi è venuto facile”, “mi è venuto da solo”, ovvero naturalità. Non lo ho fatto io facile ma mi è venuto facile. C’è una bella differenza (di apprensione, ansia, patema, stress… parola che dice tutto e niente).

Guido Savio

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